Il ruolo del Partito comunista nella storia d'Italia

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Tra l'incudine e il martello
il governo di unità nazionale
1945-1947

Premessa

  Nel valutare la linea del PCI negli anni 1945-47 bisogna tener presenti sia le circostanze dipendenti dalla presenza militare angloamericana, sia la visione di fondo insita nella linea togliattiana sulla strategia da seguire nel dopoguerra e sui risultati da conseguire. Questi due elementi, peraltro, non vanno visti come automaticamente legati alla scelta della politica di unità nazionale nella guerra di liberazione conclusa il 25 aprile del'45, ma devono essere considerati rispetto alle valutazioni tattiche e strategiche successive. L'indicazione data nel corso della guerra contro il fascismo e l'occupazione nazista di gran parte dell'Italia, cioè la politica di Salerno, aveva, a nostro parere, una logica pregnante, ma la valutazione del modo in cui il PCI si è mosso dopo il 25 aprile deve muovere da considerazioni diverse.

   E' bene che la differenza sia ben chiara nella testa dei compagni che, nel giusto furore antirevisionista per gli esiti della vicenda del PCI, non riescono a distinguere questioni che hanno un significato diverso. Non che tra le due fasi ci sia contrapposizione, ma esse assumono valore e significati diversi rispetto agli obiettivi concreti da realizzare. Nella prima fase l'obiettivo era la liberazione dell'Italia dalla occupazione tedesca e la liquidazione del fascismo di cui era espressione il CLN (si vedano le dichiarazioni del CLN [qui]); nella seconda fase si trattava di trasformare l'Italia uscita dal fascismo e di decidere con quale strategia operare e soprattutto capire in quali rapporti di forza questa strategia si calava.

   Oggetto di questo capitolo è appunto quella che definiamo seconda fase, cioè il periodo 1945-47 caratterizzato dal governo dei partiti antifascisti, il primo diretto da Parri e gli altri da De Gasperi. Qual è il bilancio di questi governi e come si è mosso il PCI e con quali risultati?

   Purtroppo nel modo in cui si valuta la situazione di quel periodo pesano, come si è detto, le conclusioni e cui si è arrivati nei decenni successivi e che hanno portato il partito comunista alla dissoluzione. Ma questo metodo non ha nulla di scientifico ed è profondamente sbagliato per la superficialità dell'analisi e per gli schemi ideologici astratti che vengono adottati. Con gli occhiali dell'antirevisionismo vengono messe assieme questioni molto diverse. C'era da considerare, come si è detto, la questione concreta della occupazione militare angloamericana (si vedano le dichiarazioni di Churchill [qui]), le clausole dell'armistizio, che imponevano una resa senza condizioni, e la mancanza di un trattato di pace che avrebbe ridato all'Italia, ma solo successivamente e a determinate condizioni, la formale indipendenza e sovranità che nel 1945 e nei due anni successivi, mancava.

   Nel prendere in considerazione le scelte che andavano fatte nel periodo che stiamo considerando, questo primo elemento non va certamente sottovalutato. E mentre nella prima fase la questione dell'unità nazionale aveva un significato militare finalizzato alla fine della guerra e alla sconfitta dei nazifascisti, nella seconda fase l'Italia era stata sì liberata dai tedeschi e dai fascisti, ma era occupata dagli angloamericani, i quali, per ragioni geopolitiche, non avevano nessuna intenzione di mollare la presa. Anzi, com'è ben noto, lavoravano per portare la situazione sotto il controllo della borghesia ex-fascista, aiutati in ciò dal Vaticano, che con la DC agiva di fatto in prima persona, e dagli apparati pubblici che solo in parte minima erano stati scalfiti dall'epurazione: in particolare il ricostituito esercito, i carabinieri, la polizia, le strutture economiche e finanziarie dello stato, ecc.

   Questo lavoro era già iniziato dopo l'8 settembre a Brindisi dove il re e Badoglio, sotto tutela e con l'aiuto degli angloamericani, tessevano la tela della ricomposizione dei vecchi apparati di potere. Con la formazione del governo di unità nazionale che operò dall'aprile del '44 al 25 aprile '45, si era riusciti a condizionare, ma non ad eliminare, gli effetti della politica della monarchia e dei suoi alleati interni e internazionali a partire dagli inglesi. Uniti sì per liberare l'Italia dai tedeschi e dai fascisti, ma poi nel CLN ogni partito aveva un'idea diversa di come andare avanti dopo la liberazione.

   C'è da aggiungere, per coloro che pur avendo la pretesa di giudicare la situazione di allora fanno finta di non capirlo, che le truppe angloamericane arrivarono al Nord pochi giorni dopo il 25 aprile estendendo l'amministrazione alleata che già operava al Sud dopo l'8 settembre. La liberazione era di fatto una nuova occupazione, seppure con caratteristiche diverse da quella precedente.

   Si imponeva innanzitutto il disarmo delle formazioni partigiane, previsto negli accordi armistiziali, e l'attività dei partiti e delle amministrazioni pubbliche era sottoposta al controllo angloamericano. Sul piano strettamente politico, d'altra parte, c'erano gli accordi nel CLN che prevedevano di affrontare a liberazione avvenuta le questioni principali aperte con la fine del fascismo: la questione istituzionale (repubblica o monarchia) e il futuro assetto dell'Italia da definire in un'Assemblea Costituente. Questi in effetti erano i passaggi sui quali c'era convergenza tra le forze che avevano dato vita al CLN, almeno in linea di principio, perchè nei fatti lo scontro tra i partiti - democristiani e liberali da una parte e forze di sinistra e laiche dall'altra - avveniva anche sul merito di come questi punti programmatici dovevano essere realizzati.

   Questi e non altri erano i passaggi concordati tra i partiti del CLN. Era sbagliata la scelta di questi obiettivi? Bisognava, a liberazione avvenuta, affrontare in modo rivoluzionario la situazione con i partigiani comunisti in armi? La risposta a questi interrogativi non può essere data col senno di poi, partendo cioè dalle svolte che il PCI compì negli anni '60 fino alla sua dissoluzione. La questione sta nell'analisi concreta della situazione concreta. Un passaggio rivoluzionario non si può ipotizzare a posteriori, e il fatto che il PCI mantenne sostanzialmente compatta la sua forza attorno alla linea di Togliatti vuol dire che la politica che stava seguendo era condivisa dai circa 2.000.000 di iscritti e dai suoi 4.500.000 votanti alla Costituente. Lo si vede anche al V congresso, tenuto alla fine del 45, di cui parleremo più avanti. Lasciare alla critica trotsko-gruppettara la prerogativa di analizzare le scelte del PCI del '45 al '47 ci sembra un metodo poco attendibile. Altrettanto inattendibile è però la ricostruzione dei fatti di quel periodo alla luce di una agiografia che cerca di evitare un giudizio obiettivo scaricando le responsabilità per il mancato raggiun­gimento di certi obiettivi solo sulla scontata opposizione dei demo­cristiani e degli americani.

   Ciò non vuol dire cercare una via di mezzo, ma pretendere che si discuta seriamente alla luce dei risultati, dei rapporti di forza e della validità o meno dell'impostazione strategica del partito comunista in quelle circostanze storiche.

   Si è detto che i due obiettivi di fase concordati nel CLN erano la soluzione della questione istituzionale - monarchia o repubblica - e l'elezione della Costituente che avrebbe dovuto definire non solo l'architettura istituzionale del nuovo Stato, ma anche l'indirizzo sociale ad essa collegato. Alla realizzazione di questi due obiettivi, bisogna aggiungere, non si arrivò pacificamente, ma con un duro scontro all'interno delle forze che componevano il CLN. In che cosa consistette questo scontro?

   Sulla questione monarchia o repubblica lo scontro riguardò le modalità del pronunciamento degli italiani. Nella convinzione che il voto popolare sarebbe stato più favorevole alla monarchia rispetto al voto degli eletti alla Costituente, la destra volle e impose che a decidere non fosse l'assemblea, ma un referendum. Alla luce del risultato del 2 giugno 1946 il calcolo non era sbagliato, perchè lo scarto tra voto repubblicano e voto monarchico fu di soli 2 milioni di voti (12.700.000 contro 10.700.000) e in questo risultato pesava il voto della DC, che solo al 25% optò per la Repubblica, e quello del Sud che votò in gran parte monarchia. C'è da aggiungere che Umberto, il re di maggio, rivendicava anche 1.150.000 voti annullati che sosteneva effetto di brogli. Per quanto riguardava i risultati elettorali per la Costituente, la DC superò gli 8.000.000 di voti, il PSIUP ne ebbe 4.750.000 voti e il PCI 4.350.000. La sinistra otteneva 51% dei voti al Nord, 42% al centro e circa 20% al Sud e nelle isole.

   Comunque, con il voto del 2 giugno, era nata la Repubblica e veniva eletta la Costituente. Questi furono i punti fermi da cui il PCI partiva e sui quali va giudicato il suo ruolo in quella fase, insieme ovviamente al fatto di essere stata forza determinante nella guerra di liberazione. Punti fermi che non furono raggiunti facilmente, ma con una dura lotta contro le forze di destra che sotto varie coperture si stavano riorganizzando in tutta Italia compresi i democristiani e i liberali che agivano all'interno del governo.

   La questione repubblicana e la Costituente erano dunque le architravi del progetto togliattiano dopo il 25 aprile, come punti di partenza per il modello di nuova organizzazione sociale in Italia che Togliatti aveva illustrato al V congresso del partito che si tenne a Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946. E' qui che, aldilà delle contingenze, si capisce il disegno strategico che Togliatti proponeva al partito e le analisi su cui si fondava. Nella relazione che riportiamo [qui] Togliatti stesso si pone una domanda cruciale:

   "E' necessario qui porsi una domanda - egli dice - e rispondere senza infingimenti: che cosa abbiamo fatto finora per questo rinnovamento? Ferruccio Parri l'altro giorno, in un'intervista concessa a un giornale milanese, ha affermato con un senso di amarezza che la democrazia da noi è soltanto una speranza... sono d'accordo col giudizio di Parri nel senso che ciò che abbiamo conquistato non è ancora solidamente conquistato, che le posizioni che oggi teniamo non sono ancora rafforzate in modo tale che le rendano sicure da un ritorno offensivo del nemico...". Riferendosi alla esperienza unitaria antifascista, Togliatti aggiunge poi, per rafforzare questo concetto: "... gli elementi negativi li riscontro soprattutto in due campi: in quello che riguarda la distruzione del fascismo e quindi la democratizzazione della nostra vita politica, e in quello che riguarda l'opera indispensabile di solidarietà nazionale per il sollievo delle miserie del popolo".

   Ma allora, si domanda Togliatti " sulla ... strada CHE CI E' STATO IMPOSTO (il maiuscolo è nostro) di seguire che cosa siamo dunque riusciti a fare di nuovo e di buono? Prima di tutto desidero sottolineare la grande importanza del fatto che abbiamo avuto da Napoli in poi, e cioè dall'aprile del '44, un governo di tipo democratico fondato sull'unità dei grandi partiti antifascisti, partiti che sono oggi storicamente determinanti e al di fuori dei quali, prima delle elezioni, non si può governare l'Italia a meno che non si voglia fare un colpo si stato... si è evitato quindi il pericolo che a tutti i danni che il regime fascista aveva fatto cadere sopra di noi si aggiungesse la lacerazione in campi irreconciliabili, ciò che molti purtroppo aspettavano e si auguravano; si è evitato che si scatenasse una guerra civile il cui risultato non avrebbe potuto essere altro che una nuova rovina".

   Altri due punti che caratterizzano la relazione di Togliatti al V congresso vanno evidenziati in modo particolare: il significato che il PCI attribuiva alla Costituente e il programma sociale che in essa doveva essere inserito.

   Sulla Costituente si dice: "La Costituente ci deve essere e ci sarà. Resta da vedere che cosa sarà questa assemblea e che cosa dovrà essere la Costituzione che ne uscirà... La questione non è semplice, soprattutto perchè da parecchie parti si cerca di di intorbidare le acque, nè mancano coloro che, pur non arrivando a negare la legittimità della Costituente, tentano di ridurne le proporzioni, di annullare il valore che dovrà avere nella vita nazionale e quindi di ridurre l'importanza dei problemi che la Costituente dovrà decidere".

   Siamo nel dicembre del 1945, a pochi mesi dalla Liberazione, e la situazione si presenta già molto complessa. Le forze di destra, i liberali, la DC, il Vaticano di Pio XII e in più gli angloamericani si organizzano per bloccare comunisti e socialisti e ancor più per impedire che in Italia cambi qualcosa, negli orientamenti internazionali e interni. Basti pensare che dal '45 al '47 il governo cambia 5 volte, il primo è presieduto da Ferruccio Parri, i tre successivi da Alcide De Gasperi e il quinto, sempre da De Gasperi, ma senza comunisti e socialisti. Un governo 'tecnico' quest'ultimo, in attesa del 18 aprile 1948, data delle elezioni politiche e della sconfitta del Blocco del popolo, e sempre sotto il controllo ferreo degli angloamericani.

   A proposito dei governi di unità nazionale la dichiarazione di Ferruccio Parri dopo le sue dimissioni da Presidente del Consiglio [qui] mette in luce come egli sia stato costretto a questa scelta. Con Parri siamo solo al novembre '45 e già si deve registrare la sconfitta del presidente emanazione del CLNAI che, a pochi mesi dalla nomina, deve lasciare il posto a De Gasperi .

   Prima di arrivare al '47, che sancì definitivamente la rottura tra destra e comunisti e socialisti, ci fu però la battaglia del Referendum su monarchia o repubblica vinta anche se di misura. Siamo al 2 giugno del '46, ad appena un anno dal 25 aprile, e già si intravedono, nei rapporti di forza elettorali, i segni della riorganizzazione della borghesia italiana attorno ai partiti che la rappresentano (si veda l'analisi del voto di Felice Platone [qui]).

   Sulla Costituente si giocava un'altra partita decisiva. Che caratteristiche avrebbe avuto la nuova Repubblica italiana? La valutazione del risultato è data da Umberto Terracini che all'epoca era presidente della Costituente [qui]. Nel testo della Costituzione, dice in sostanza Terracini, ci sono alcuni importanti principi innovativi, ma la loro applicazione dipenderà dai rapporti di forza che si determineranno in futuro.

   In conclusione, possiamo dire che la situazione del periodo 1945-47 viaggiava su due livelli e Togliatti ne porta tutta la responsabilità, nel bene e nel male. Un livello fu quello di determinare con chiarezza la questione della Repubblicana e della Costituzione. Con questi capisaldi tutti i partiti, anche quelli di destra, hanno dovuto nei decenni successivi fare i conti. Essi rappresentano i risultati istituzionali profondi della guerra di liberazione. Chi sottovaluta l'importanza (e il costo) di questi risultati sta fuori da ogni valutazione seria e oggettiva. Ma a quale prezzo furono raggiunti? Nei fatti ci sono state rinunce e compromessi pesanti. Le rinunce più grosse sono state la fine del progetto di democrazia progressiva, che passava attraverso la funzione dei CLN nel tessuto dello stato, che si è invece ricomposto al vecchio modo, e il blocco di ogni politica che tendesse a modificare i meccanismi dell'economia capitalistica, compresi i Consigli di Gestione, che avrebbero dovuto essere il motore di queste modifiche. Per capire la musica basta leggere la posizione espressa in proposito dalla Confindustria nel febbraio del '46 [qui].

   Anche i compromessi furono pesanti, dalla amnistia ai fascisti concessa dal Guardasigilli Togliatti, all'accettazione dei Patti Lateranensi nella Costituzione. Ancor più pesò il fatto che nel campo economico e delle trasformazioni sociali (rapporti di lavoro, politica agraria) si fece pochissimo, rimandando tutto ai lavori della Costituente.

   Tutto questo dipese dai rapporti di forza o dal modo in cui si mosse la dirigenza comunista sotto la direzione di Togliatti? Crediamo che la discussione nel merito vada ripresa, prescindendo però da come, a 'sinistra', è stata trattata finora con metodi sostanzialmente trotskisti.

   Da un protagonista dell'epoca, Lelio Basso, riportiamo [qui] un punto di vista critico che può servire ad avviare una discussione seria. Lelio Basso scriveva nel 1951: "Per non assumersi la responsabilità della rottura, i partiti di sinistra finirono con l'accettare la tattica temporeggiatrice delle destre che miravano a rimandare sempre più in là la trattazione dei problemi di fondo".

   Pietro Secchia, citando un testo di Togliatti che egli condivideva, così scrive a proposito del 1946: "Togliatti così definiva la linea del PCI di allora: essere continuamente all'attacco e raccogliere attorno al partito un fronte più largo possibile di forze popolari, democratiche". Tra le due linee, quella politico-istituzionale e quella dell'iniziativa di lotta, si determinò però di fatto l'arretramento che portò alla sconfitta del 1948. Su questo terreno di analisi, e senza riprodurre la tesi trotskista della rivoluzione mancata, bisogna individuare il punto debole del togliattismo. Anche se è sempre Togliatti che, al CC del 1° luglio del 1947, dopo l'uscita dal governo dichiara: "Si poteva evitare questo rafforzamento delle posizioni del capitalismo nel nostro paese? Io credo che le condizioni essenziali per evitare questo rafforzamento mancavano, mancava cioè la possibilità che la lotta politica si potesse svolgere al di fuori dell'intervento delle forze straniere".