Lettera inviata dal presidente della Confindustria Costa a De Gasperi il 26 gennaio 1946, pubblicata nel Notiziario della Confederazione generale dell'Industria italiana, a. III, n.3, 5 febbraio 1946. Il testo è ripreso da "L'Assemblea Costituente", a cura di Maurizio Lichtner, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 97-102.
Questa Confederazione ritiene di dover esprimere un parere nettamente contrario all'istituto ed alla possibilità di una sua concreta applicazione, non solo in quanto esso non attuerebbe nessuno degli scopi che ne attendono i suoi fautori, ma comprometterebbe irrimediabilmente l'efficienza della nostra economia, impedirebbe il riassetto dell'industria e costituirebbe, infine, un elemento deleterio per la pace sociale.
I fautori dei consigli di gestione affermano, infatti, che essi assicurerebbero i seguenti risultati:
a) potenziamento della produzione mediante la possibilità di approfittare dell'esperienza delle maestranze nei problemi interessanti la vita delle aziende;
b) raggiungimento della pace sociale o quanto meno di un notevole miglioramento dei rapporti fra capitale e lavoro, attraverso una maggiore e migliore collaborazione fra i due fattori della produzione;
c) possibilità di elevazione delle maestranze consentendo l'addestramento di esse alla gestione delle aziende.
1. Per quanto riguarda il primo punto la scrivente Confederazione ritiene di dover anzitutto osservare che i sostenitori dell'istituto si limitano a considerare l'azienda come la combinazione di due elementi, capitale e lavoro, trascurando l'esistenza del terzo elemento che rappresenta invece il fulcro fondamentale dell'azienda stessa: l'imprenditore. Non sempre questo si identifica nella stessa persona del capitalista e, molto frequentemente poi, non è neppure l'imprenditore o gli imprenditori che dirigono personalmente l'impresa, ma bensì un gestore o gestori da lui o da loro delegati.
È quindi nei confronti dell'imprenditore o di chi da esso è delegato che verrebbe ad agire il consiglio di gestione allo scopo di limitarne e controllarne l'azione e di assicurare che essa tenga conto degli interessi del lavoro come di quelli del capitale e li contemperi.
Ora non è chi non veda che questo controllo, mentre per il contrasto dei compiti e dei fini propri rispettivamente all'imprenditore ed alle maestranze ne paralizzerebbe l'azione, non avrebbe d'altra parte alcuna pratica efficacia ai fini del contemperamento degli interessi reciproci del capitale e del lavoro.
Se infatti gli interessi mediati degli imprenditori, del capitale e del lavoro coincidono, nel senso che non può sussistere il benessere di una parte senza il benessere delle altre, notevoli sono le divergenze degli interessi immediati e contingenti.
Compito dell'imprenditore è infatti quello di promuovere da prima il sorgere e di garantire poi l'esistenza e soprattutto l'avvenire dell'iniziativa, anche se ciò significhi la rinuncia ad un immediato guadagno, mentre esigenza precipua del lavoro è quella di soddisfare necessità immediate.
Compito dell'imprenditore è inoltre quello di favorire il progredire dell'industria, attuando forme organizzative sempre migliori, impiegando macchinario sempre più perfezionato, adottando metodi tecnologici più perfetti; esigenza del lavoro, contro la quale spesso gli imprenditori anche nel recente passato hanno dovuto lottare, è per contro quella di evitare che con l'adozione dei mezzi e dei metodi nuovi, che il progresso pone con ritmo continuo a disposizione dell'uomo, vengano compromesse le situazioni sia generali che particolari delle maestranze occupate.
L'imprenditore è insomma sempre proteso verso lo avvenire, il lavoro è invece e per ovvie ragioni preoccupato soprattutto dell'oggi: il primo rappresenta l'elemento propulsivo e rivoluzionario nell'interno dell'azienda, il secondo è invece l'elemento conservatore.
Mentre il capitale è indissolubilmente legato alle sorti dell'impresa perché perendo l'impresa il capitale perisce, il legame che unisce il lavoro all'impresa è infinitamente più tenue e può essere sciolto senza grave danno del primo che conserva pressoché intatto il proprio potenziale. Di contro il capitale per affluire all'impresa deve sentirsi libero di parteciparvi e di allontanarsene senza dover sottostare a controlli o preventive autorizzazioni.
Da queste contrapposizioni scaturisce la necessità che colui al quale è affidata la responsabilità della produzione dell'azienda non debba rispondere ad altri che all'imprenditore del proprio operato, restando a lui esclusivamente attribuito con la responsabilità anche il comando dell'azienda. [...]
Il dirigere un'azienda è arte che non si improvvisa e per cui non esistono regole fisse: che richiede, oltre ad una lunga preparazione e una provata esperienza, doti naturali di particolare capacità, di rapidità di decisione, di intuito e di visione sicura tanto dei problemi immediati quanto delle prospettive dell'avvenire. Essa inoltre richiede prestigio ed autorità piena in chi la svolge: prestigio ed autorità non compatibili con il controllo da parte di subordinati. [...]
Si ritiene pertanto che dai consigli di gestione non solo non ci si possa attendere il «potenziamento della produzione», ma sia invece da attendersi un sicuro regresso di questa.
Né varrebbe ad eliminare del tutto le obiezioni di cui sopra, la limitazione delle funzioni di tali consigli alla sola consulenza tecnica. È noto a tutti che ogni capo di azienda già raccoglie intorno a sé i meglio preparati, i più capaci dei propri collaboratori. Non è quindi l'idea della collaborazione quella che si respinge, perché questa è già in atto, imposta dalla necessità di ogni organizzazione aziendale. Ciò che si respinge è che questo processo si isterilisca nella costituzione di un organo inceppante che sarebbe soltanto un focolaio di risentimenti, di rivalità e di pretese e che finirebbe soprattutto nel trasformare la collaborazione veramente competente, già attualmente in atto, in una discussione quasi sempre inconcludente di problemi i cui termini e le cui soluzioni sarebbero ben spesso ignoti a parecchi dei pretesi consiglieri.
2. Per quanto riguarda l'asserita funzione dei consigli di gestione di concorrere al miglioramento dei rapporti sociali e quindi al raggiungimento della pace sociale, questa Confederazione fa rilevare che i consigli di gestione, almeno quali risultano dai progetti fino ad ora proposti ed attuati, non rispondono a tali fini, ma anzi molto spesso concorrerebbero ad un inasprimento dei rapporti stessi. Essi infatti non eliminano il contrasto di interessi, ma semplicemente lo spostano dal piano generale di un conflitto di categoria a quello di una lotta nell'interno dell'impresa, lotta che non potrebbe non essere acutizzata e perturbata da inevitabili elementi di carattere personale. Il conflitto, costretto nell'ambito angusto di ogni singola impresa, aumenterebbe di intensità e di continuità trovando una costante esca nella necessità di risolvere i problemi che ogni giorno la gestione dell'impresa pone al capo di questa.
D'altra parte si osserva che i contrasti generali di interessi fino a che rimangono nella sfera della competizione degli interessi di categoria, rappresentano una realtà storica, che i regimi totalitari si sono illusi di soffocare senza praticamente riuscirvi, in quanto essa ha nel quadro del divenire sociale una specifica funzione, servendo da stimolo per il miglioramento della produzione. È soltanto quando questi contrasti si presentano nell'ambito di singole aziende e si trasformano in un diverbio su questioni particolari attinenti alla gestione dell'impresa che essi diventano grave fattore di perturbamento ed il più grave ostacolo alla efficienza produttiva.
3. Questa Confederazione ritiene infine che non occorrano molte parole per dimostrare l'erroneità dell'altro presupposto dei consigli di gestione, cioè che essi possano servire come palestra per addestrare le maestranze alla gestione delle imprese.
Non si capisce, invero, come la massa dei lavoratori possa impratichirsi nella gestione delle imprese per il solo fatto di acquistare il diritto di nominare dei rappresentanti che affianchino il capo della impresa nell'esercizio delle sue funzioni. Se con ciò si vuole soltanto intendere che i consigli di gestione offrono la possibilità ad alcuni individui, dotati di particolari qualità, di emergere dalla massa differenziandosene quindi e non facendone più parte non appena raggiunto un certo grado di addestramento, è facile obiettare che si tratta di un processo che avviene normalmente e di cui la storia della nostra industria è ricca di esempi cospicui. È da escludere che tale processo possa venire facilitato dai consigli di gestione e attraverso il meccanismo delle eiezioni e le inevitabili interferenze politiche che ne accompagnerebbero il funzionamento.