Umberto Terracini

Repubblica e Costituzione

Umberto Terracini, La Costitu­zione e i diritti del lavoro, in Costi­tuzione della Repubblica, Roma, senza data ma 1948. Testo ripreso da "Dalla Monarchia alla Repubblica", op.cit. pp.218-225. La nota introduttiva è di Enzo Santarelli



L'interesse del testo consiste nella sua immediatezza: si tratta di un commento alla Costituzione repubblicana, che risale al 1948: esso apparve come cenno introduttivo ad un opuscolo largamente divulgativo, volto a far cono­scere i principi e gli articoli della Carta costituzionale. Terracini, che nell'ultimo periodo era stato presidente del­l'Assemblea costituente, in forma elementare - oggetti­vamente polemica e politicamente propulsiva nei confronti della realtà sociale e del suo governo - conduceva il di­scorso su «La Costituzione e i diritti del lavoro». Le conclusioni erano esplicite: «le norme scritte nella Costi­tuzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno auto­maticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministrazione pubblica non eseguisca ciò che queste leggi disporranno». Col 18 aprile del 1948 i partiti dei lavoratori riuniti nel Fronte popolare erano rimasti in minoranza rispetto al blocco borghese an­ticomunista, ricostituito dai partiti di «centro». Per cin­que anni, fino al 1953, in corrispondenza con la «guerra fredda» e col massimo di intervento degli USA e del Vati­cano nella lotta politica italiana, toccò alle forze che ave­vano «sepolto la monarchia», di respingere anche la ten­denza ad un regime autoritario di nuovo tipo.


La nuova Costituzione della repubblica italiana è entra­ta in vigore il 1° gennaio di quest'anno.

   Il lavoratore italiano desidera sapere se ed in che modo la nuova legge fondamentale della repubblica provveda a soddisfare, dopo tante promesse, attese e speranze, le sue aspirazioni per un rinnovamento profondo della com­pagine sociale ed economica del nostro paese, in modo da assicurargli il posto che gli spetta nella vita nazionale.

   A questo interrogativo si propongono di rispondere brevemente queste pagine.

   Il lettore della nuova Costituzione vede ricorrere in essa molte volte la parola «lavoro», completamente igno­rata dallo statuto albertino del 1848. Sta di fatto che, dopo decenni e decenni di lotte tenaci, pur attraverso la parentesi obbrobriosa del fascismo, i diritti del lavoro hanno avuto finalmente il loro riconoscimento decisivo, diventando materia costituzionale e cioè parte integrante della legge fondamentale della repubblica.

   La nuova Costituzione è ora patrimonio di tutto il po­polo; e tutto il popolo deve sapere fino a qual punto in essa trovano corona le sue speranze e premio le sue bat­taglie.

   Vediamola dunque più da vicino questa Costituzione, soffermandoci su quei punti che maggiormente interessa­no il lavoratore.

   La Costituzione consta di 139 articoli e XVIII disposi­zioni transitorie e finali. Gli articoli sono raggruppati in Principi fondamentali e in due parti, di cui la prima è dedicata ai diritti e doveri dei cittadini e la seconda al­l'Ordinamento della repubblica. Ogni parte a sua volta è suddivisa in Titoli e alcuni Titoli in sezioni.

   Le norme che riguardano particolarmente il cittadino lavoratore, sono raggruppate sotto il Titolo III della pri­ma parte, che contempla i rapporti economici. Altre dispo­sizioni sono poste all'inizio, fra i principi stessi fondamen­tali della Costituzione.

   Infatti l'art. 1 stabilisce che «l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Questa solenne afferma­zione evidentemente sta a significare non solo che il lavoro determina la prosperità ed il benessere della vita della nazione - che è vecchio assioma della scienza economi­ca - ma anche che, a coloro che ne sono i portatori, debbono essere riconosciuti, nel quadro dello Stato, parti­colari funzioni, corrispondenti a quei diritti che numerosi articoli espongono.

   A proposito dell'art. 1, giova ricordare che, nel corso della discussione avvenuta all'Assemblea costituente, era stata proposta la dizione: «l'Italia è una repubblica demo­cratica di lavoratori» più impegnativa e più densa di signi­ficato: quasi ad affermare che il titolo di cittadinanza nella repubblica presupponeva la qualità di lavoratore. Tuttavia questa proposta del deputato comunista Amendola, fu re­spinta per i voti contrari del centro e della destra.

   Stabilito comunque che la repubblica è fondata sul lavoro, ne discendeva come conseguenza necessaria che tutti i cittadini devono essere messi in grado di lavorare, per riconfermare così ad ogni momento il loro titolo alla cittadinanza. Occorreva cioè affermare che il lavoro non può più rimanere un fatto esclusivamente privato, di cui lo Stato si disinteressa, ma bensì un diritto oltre che un dovere del cittadino. Ecco quindi l'art. 4 proclamare non soltanto «il diritto al lavoro», ma anche l'obbligo per la repubblica di «promuovere le condizioni che rendono effettivo questo diritto». A nessuno può sfuggire l'impor­tanza di questo impegno che poche altre Costituzioni assu­mono nei confronti dei cittadini; tra esse quella dell'Unio­ne repubbliche socialiste sovietiche.

   Ma anche l'art. 3 è interessante per questo nostro breve studio, occupandosi come fa, dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma non già di una generica uguaglianza, basata sull'astratta parità di diritti. Noi sappiamo che una effettiva uguaglianza presuppone il superamento delle ini­ziali differenze di posizione economica. Ecco perché l'art. 3 sancisce: «È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva parte­cipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese».

   Sono queste le disposizioni di carattere generale sul lavoro. Passiamo ora alle disposizioni particolari.

   La tutela del lavoro, in ogni sua forma ed applicazione, è stabilita dall'art. 35 che prevede anche la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all'estero.

   La giusta retribuzione del lavoro prestato, «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa» è stabilita dall'art. 36. Lo stesso articolo si occupa anche della durata massima della giornata lavorativa, che dovrà essere fissata dalla legge; e inoltre del diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, senza possibilità di rinun­ciarvi.

   La tutela della donna lavoratrice è efficacemente costi­tuita dall'art. 37 che prevede per la donna parità di diritti e di retribuzione - a parità di lavoro - con l'uomo. Ciò vale anche nel confronto dei minori.

   Per i cittadini inabili al lavoro, nonché per i lavoratori colpiti da infortunio, malattie, invalidità, vecchiaia e di­soccupazione provvede l'art. 38, affermando il diritto dei primi al mantenimento e all'assistenza sociale, e per tutti gli altri alla tutela necessaria, esercitata attraverso organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

   La libertà dell'organizzazione sindacale è sancita piena­mente dall'art. 39 che prevede per i sindacati, «rappre­sentati unitariamente in pro­porzione dei loro iscritti», la facoltà di «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle catego­rie alle quali il contratto si riferisce». Questa norma rap­presenta un forte incentivo al mantenimento dell'unità sin­dacale, sebbene si speri da alcuno che la «libertà sindacale» possa essere intesa come stimolo alla creazione di vari concorrenti sindacati. Infatti, è dalla forza numerica delle organizzazioni, e cioè dalla coesione delle categorie e dell'intera classe, che discende la capacità di convincere a patti vantaggiosi i datori di lavoro i quali non avrebbero che da guadagnare dalle lotte intestine dei lavoratori.

   Siamo giunti cosi all'art. 40 dedicato al diritto di sciopero, riconosciuto nell'ambito delle leggi che lo regolano. Ciò vuole dire che le leggi future potranno soltanto stabi­lire le modalità del suo esercizio, ma non mai sopprimerlo considerandolo, come già nel ventennio fascista, quale rea­to. Sarebbe stata in realtà desiderabile una formulazione più categorica del diritto di sciopero, quale contenuto nel primitivo progetto nel quale si leggeva: «tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». Ma contro di questa si sono battute tutte le prevenzioni e le diffidenze coalizzate dei gruppi politici non ancora convinti della maturità di co­scienza dei lavoratori. È interessante ricordare che non è mancato, in seno alla Costituente, chi voleva sopprimere nella Costituzione ogni accenno al diritto di sciopero, evi­dentemente per abbandonare questa fondamentale arma di difesa dei lavoratori alle oscillanti venture della sorte politica; e nemmeno chi voleva condizionare il diritto di sciopero a quello di serrata, o addirittura stabilire il divie­to di sciopero. Ma tutte queste velleità hanno dovuto cedere dinanzi alla formula concordata fra i maggiori partiti, che salva almeno il principio se non ogni sua estrinsecazione.

   L'art. 41 stabilisce la libertà dell'iniziativa econo­mica privata a condizione che non si svolga in contrasto con l'utilità sociale o a danno della sicurezza, della libertà o della dignità umana. Esso aggiunge che, «la legge deter­mina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», timido inizio questo di una economia programmata.

   Secondo l'articolo 42 la proprietà privata è ricono­sciuta dalla legge, «che ne determina» però i «limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», aspirazione forse utopistica, ma che autorizza larghe misure legislative di riforma agraria. È anche prevista dall'art. 43 la possibilità di esproprio per motivi di interesse generale, a favore di comunità di lavo­ratori o di utenti, qualora si tratti di servizi pubblici essen­ziali o di fonti di energia o di situazioni di monopolio; strada aperta, questa, a misure riformatrici in campo in­dustriale.

   La proprietà della terra è disciplinata dall'articolo 44, affermandovisi che «la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua esten­sione» e «la trasformazione del latifondo». Dopo di che è sperabile che anche la magistratura rinuncierà a bollare di anticostituzionalità le leggi colpevoli solo di antilatifondismo!

   Alla tutela ed allo sviluppo della cooperazione e del­l'artigianato è dedicato l'art. 45, che erige un primo argine difensivo delle più modeste, ma più sane attività produt­trici contro la spietata concorrenza delle maggiori intra­prese capitalistiche.

   Particolare attenzione merita l'art. 46, per il quale «la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a colla­borare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende». Echeggia in queste parole il gran­de moto operaio per il riconoscimento dei consigli di ge­stione, rivestito finalmente di valore giuridico e solo su­bordinato alle norme che la legge dovrà ormai sollecita­mente emanare. I lavoratori, dopo questo solenne ricono­scimento, non potranno più vedersi opporre le abusate accuse di illegalità nella loro azione innovatrice dei rap­porti interni di fabbrica. Si deve peraltro ricordare che il testo del progetto di Costituzione era ancora più espli­cito al riguardo, affermando «che i lavoratori hanno dirit­to di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende dove prestano la loro opera». Ma anche qui, sotto il velo di preoccupazioni giuridiche, si sono coalizzate in fronte ostile ai lavoratori tutte le forze più o meno conservatrici; sicché ha finito di preva­lere la formula più temperata e cauta, tale tuttavia da confortare i lavoratori nelle loro lotte per un diretto inter­vento nella dirigenza delle intraprese.

   Occorre da ultimo far parola di una nuova assemblea rappresentativa creata dalla Costituzione: «Il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro». Esso, previsto dal­l'articolo 99, dovrà essere composto di esperti e di rappre­sentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa; e sarà organo consultivo, darà cioè pareri alle Camere e al gover­no sulle materie che gli saranno attribuite dalla legge. Il Consiglio potrà anche presentare all'appro­vazione del parlamento disegni di legge e contribuire alla legislazione economica e sociale.

   A proposito di questo nuovo organo non si può fare a meno di rilevare che - secondo una proposta inizial­mente presentata - esso avrebbe dovuto essere espres­sione diretta dei sindacati mediante elezione, sia pure con l'immissione anche di una rappresentanza governativa e delle categorie produttrici e ricevendo la denominazione di «Consiglio nazionale del lavoro». In tal modo sarebbe stata più sottolineata la composizione democratica del Consiglio e la sua maggiore importanza ai fini della tutela degli interessi dei lavoratori.

   Esaurito così l'esame delle norme scritte nella Costi­tuzione circa i diritti del lavoro, i lavoratori italiani si domanderanno come e quando esse saranno realizzate nel­la vita concreta del nostro popolo.

   A questa domanda la risposta deve essere chiara e pre­cisa: le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavora­tori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli orga­ni dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l'amministra­zione pubblica non eseguisca ciò che queste leggi dispor­ranno. Se, cioè, i lavoratori non opereranno per permeare tutta la vita politica del nostro paese dello spirito nuovo e trasformatore che ha dettate le formule costituzionali, pur nella loro dizione ancora troppo spesso timida ed in­certa.

   Come l'affermazione dei diritti del lavoro si deve in gran parte alla forza dei lavoratori che, stretti in un gran­de organismo unitario, hanno esercitato la loro influenza e hanno posto all'ordine del giorno del paese la soluzione dei problemi del lavoro, così la realizzazione concreta di quelle affermazioni dipenderà dall'azione che, per l'avve­nire, essi sapranno svolgere nel quadro della legalità de­mocratica, secondo gli orientamenti riformatori che furo­no propri della grande lotta popolare per la libertà.