Palmiro Togliatti

«Avete diviso il popolo
per tenerlo schiavo:
noi lo uniremo
per guidarlo al rinnovamento»

Intervento alla Camera dei deputati del 10 giugno 1948, sulle dichiarazioni programmatiche del governo De Gasperi uscito dalle elezioni del 18 aprile. Da Palmiro Togliatti, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 520-549.


  Signor presidente, signori onorevoli colleghi, siamo al quarto gior­no, se non erro, o al quinto del dibattito sulle dichiarazioni del presi­dente del consiglio. Mi vorrete, ciononostante, perdonare se, all'inizio di questo mio intervento, mi permetto di dedicare alcune parole all'esa­me di una questione che può sembrare preliminare al dibattito ma in realtà investe il fondo, la sostanza stessa della nostra discussione.

   Qual è il contenuto di questa discussione? Anzi, per meglio dire, quale deve essere, quale dovrebbe essere il contenuto di essa, il conte­nuto cioè del primo dibattito politico di fondo che ha luogo davanti al primo parlamento della repubblica italiana dopo l'approvazione della Costituzione repubblicana?

   Mi direte: «Il contenuto è dato dalle dichiarazioni del presidente del consiglio». Sta bene, le ho lette, le ho rilette, le ho fatte oggetto di attento esame.

   Mediocre documento, per opinione generale inferiore alle capacità stesse dell'onorevole De Gasperi, capacità sulle quali, del resto, non è mia intenzione esprimere in questo momento un giudizio.

   Ho trovato in queste dichiarazioni parecchie cose; vi ho trovato una esposizione, qua e là diligente, altrove assai trascurata e sommaria, di alcune esigenze della nostra vita amministrativa; vi ho trovato l'ac­cenno ad alcuni dei gravi problemi che in questo momento stanno da­vanti al nostro paese e assillano tutti noi.

   Evidente mi è parsa, però, in quella esposizione, l'impronta soprat­tutto dello zelo di quegli eminenti conoscitori della nostra vita ammini­strativa che sono i direttori generali dei singoli dicasteri; altrettanto evidente, in questi accenni, la cura di evitare tanto il concreto e la precisione, quanto un'impostazione generale delle questioni, tale che desse una unità politica seria a tutta l'esposizione del presidente del consiglio. E questo l'ho notato tanto per ciò che riguarda la politica interna quanto per ciò che riguarda la politica economica e finanziaria e soprattutto la politica estera di questo governo.

   Alla fine, una domanda è sorta nella mia mente: «Ma quale data portano queste dichiarazioni? A quale periodo si riferiscono?». E intendo dire della data non secondo la cronaca della vita parlamentare - questa la conosciamo - ma secondo la vita e la storia del nostro paese. Come si inquadrano queste dichiarazioni nello sviluppo storico dell'Italia, qua­le era prima della tirannide fascista, quale fu sotto di essa, quale uscì e dal ventennio fascista e dalla guerra di liberazione? Nel quadro di questo sviluppo storico siamo dunque arrivati a un momento in cui questa Camera, che è il primo parlamento eletto secondo la nuova Co­stituzione repubblicana, debba o possa limitarsi a fare alle dichiarazioni del governo osservazioni particolari, del tipo di quelle che sono state fatte con certa diligenza da alcuni colleghi di questo o di quell'altro settore circa i propositi amministrativi o legislativi annunciati dal pre­sidente del consiglio, oppure non sta davanti a noi un compito molto più importante, il nostro compito storico, quello che tutti eravamo d'ac­cordo di attribuire al primo parlamento repubblicano quando abbiamo lavorato assieme nell'Assemblea costituente per scrivere la Carta fonda­mentale della repubblica, quello che tutti eravamo d'accordo dovesse essere il compito delle assemblee legislative della nuova democrazia ita­liana, ed eravamo in particolare d'accordo durante quella guerra di liberazione in cui tutti assieme o la maggioranza o per lo meno una gran parte dei colleghi qui presenti hanno combattuto?

   Quale posto, insomma, avevamo attribuito a questa assemblea, e quale funzione dunque le spetta non nella cronaca parlamentare ma nella storia del nostro paese e nel punto in cui siamo arrivati di questa storia? Mi pare eravamo tutti d'accordo che compito di questa assem­blea doveva essere quello di tradurre in atto il documento che abbiamo approvato alla fine del mese di dicembre del 1947 e che è entrato in vigore dal 1° gennaio del 1948: la Costituzione repubblicana, nella quale sono scritti non soltanto alcuni, molti principi nuovi, e non soltan­to di ordine politico, ma anche, anzi direi soprattutto, di ordine eco­nomico e sociale, sulla base dei quali intendevamo dovesse essere ri­costruita la vita del paese. A tale scopo avrebbero dovuto essere pre­sentati a questa assemblea progetti legislativi a cui avrebbe dovuto uni­formarsi una vasta opera di trasformazione politica e sociale. Onorevoli colleghi, questo era, anzi questo è il compito della nostra assemblea. In confronto con questo compito che tutti - ripeto - eravamo d'ac­cordo nel formulare così nel corso degli ultimi anni, le dichiarazioni attuali del presidente del consiglio non solo appaiono ben misera cosa, ma non hanno con esso nessuna rispondenza. Lo riconosco, i principi scritti nella nuova Carta costituzionale sono grandi principi, dal primo articolo, dove si afferma che «la repubblica è fondata sul lavoro» agli altri (dove sono proclamati i nuovi diritti dei lavoratori) e a quelli, di decisiva importanza, dove si afferma la necessità di una riforma agra­ria e di una riforma industriale allo scopo di operare profonde modifi­cazioni nella struttura e compagine sociale della nazione. Grande è il compito, che sta davanti a noi, di realizzare questi principi. Grande sarebbe per qualsiasi assemblea legislativa; grande in qualsiasi paese; grande è e rimane soprattutto per noi, in Italia. Sappiamo che cosa è l'Italia. Abbiamo vissuto tutti o quasi tutti alcuni decenni della sua storia, abbiamo contribuito a farla questa storia, ci siamo scontrati a passo a passo nel corso di questi decenni coi problemi della nostra vita economica e sociale. Abbiamo tutti compreso quali profonde tra­sformazioni debba subire il tessuto stesso della nostra società italiana affinché possa, sulla base di questo tessuto, sorgere e funzionare un regime di democrazia, un regime di 'libertà e, prima di tutto, di libertà e di benessere per i lavoratori. Quanti conoscono il passato d'Italia in questi ultimi anni dovrebbero sapere quanto sia grave il compito del rinnovamento delle nostre strutture economiche e sociali. Ma per quanto sia grave, la necessità di questo rinnovamento l'abbiamo af­fermata nella Costituzione e il tema dei nostri lavori legislativi, nonché dell'attività normativa ed esecutiva del governo, non può oggi essere altro che la realizzazione di questo profondo rivolgimento economico e sociale.

   Il compito, ho già detto, non è leggero; anzi, è difficile e duro. Nessuno di noi ha mai affermato né ritiene che si possa in questo campo procedere con improvvisazioni o con retorica o con demagogia. Il compito è duro perché irta di contraddizioni stridenti è la struttura stessa della nostra società, e perché queste stridenti contraddizioni sono gravi di flagranti ingiustizie, che debbono essere soppresse, se vogliamo diventare un paese civile.

   Il collega Gullo ha citato ieri alcune impressionanti cifre relative alla distribuzione della terra nella sua Calabria; ci ha parlato della infi­nita miseria dei lavoratori di quella regione. Potrei portare cifre ana­loghe, e forse anche più gravi, per altre regioni del Mezzogiorno, del centro e anche del nord d'Italia. Quanto alla miseria dei lavoratori essa è oggi generale, si estende a tutte le regioni e a tutte le categorie e purtroppo non è legata soltanto a una situazione particolare e tran­sitoria, ai problemi creati dal crollo del regime della tirannide fascista e dalla disfatta militare, ma a situazioni di carattere permanente che derivano da tutta la nostra storia, e soprattutto dalla storia del nostro paese degli ultimi secoli. In questa storia hanno radice i problemi di cui dovrebbe spettare a noi la risoluzione.

   Noi siamo un paese nel quale anche quelle trasformazioni sociali ed economiche che altrove sono state compiute sotto la bandiera della rivoluzione borghese e ad opera dei partiti rivoluzionari della borghesia qui non sono avvenute. Una barriera apposita venne elevata per limitare l'influenza tra di noi della grande rivoluzione francese: l'influenza po­litica ed economica e persino culturale e intellettuale. E così è avvenuto che quando siamo sorti come Stato unito e indipendente i problemi della struttura sociale dell'Italia di allora, che poi sono anche i problemi della struttura sociale dell'Italia di oggi, non sono stati né risolti né affrontati, anzi non sono stati nemmeno riconosciuti dalla maggioranza degli uomini politici dirigenti. Abbiamo avuto un movimento nazionale che ci ha dato l'unità e la indipendenza ma questo movimento, per la sua sostanza sociale, non fu una rivoluzione; fu, semmai una difesa contro una necessaria rivoluzione sociale che già allora era matura nei rapporti della proprietà agraria e nelle condizioni di vita dei lavoratori. Di qui è sorta l'Italia politica moderna, come risultato di una solidarietà di caste e di classi che si è creata nel corso del Risorgimento e alla fine di esso, ed è durata in seguito allo scopo preciso di impedire quelle profonde trasformazioni sociali che altrove erano state, se non condotte a termine, per lo meno iniziate dalla stessa borghesia. Da questa situa­zione, che dura da decenni, derivano le condizioni tragicamente arre­trate di intiere regioni, come quelle cui faceva riferimento poco fa il collega onorevole Marchesano, e l'esistenza per la maggior parte dell'Ita­lia di piaghe terribili, quali il pauperismo di massa, la disoccupazione permanente, l'emigrazione forzata come unico sollievo per i lavoratori.

   Su queste basi si è retto lo Stato italiano fino a ieri: si è retto nel periodo del liberalismo; si è retto nei periodi in cui i governi li­berali più avanzati tentarono la via della democrazia; si è retto nel periodo fascista. Non vi è stata differenza a questo proposito fra i go­verni della destra e quelli della sinistra. Quelli coprivano di termino­logia filosofica la realtà dei rapporti sociali su cui costruivano il loro Stato. Questi, quando andarono al potere fra le aspettazioni messianiche del popolo, non seppero aggiungere alla precedente politica che un nuo­vo metodo di compromesso senza principi, e aprirono la strada ai primi tentativi di dittatura reazionaria. Sventati questi tentativi per la prima spinta del movimento organizzato dei lavoratori, il problema del rinno­vamento delle strutture sociali si pone con urgenza maggiore, ed è su questo tema che tutta la nostra storia successiva è tessuta: la storia delle rivolte ingenue, incomposte, slegate, la storia degli scioperi, la lotta eroica dei contadini, dei proletari dell'industria e della terra, l'ori­gine e il progresso continuo dei sindacati, del partito socialista, del nostro partito.

   Chiuso il breve periodo democratico dai primi tentativi di una politica imperialistica e quindi dalla prima guerra mondiale, le conse­guenze di questa scatenano una crisi profondissima, da cui è evidente che non si può uscire se, accogliendosi le esigenze formulate dal movi­mento dei lavoratori diventato ormai imponente e travolgente, non si procede a una riforma democratica di tutta la società. In quel momento, fallito per l'assenza di guida rivoluzionaria il tentativo di conquista del potere da parte della classe operaia, una sola via democratica si presenta: quella che in uno dei congressi socialisti era auspicata dal nostro compagno Terracini quando egli parlava della necessità di stretta collaborazione tra il movimento socialista e il movimento sociale catto­lico per riuscire, attraverso una politica di rinnovamento sociale, a spez­zare il monopolio economico e politico delle vecchie caste dirigenti e a creare in questo modo una possibilità di rinnovamento serio.

   Allora quella via non fu presa e non voglio esaminare ora di chi fu la colpa, se dell'incomprensione nostra (eravamo tutti insieme, allora, nel partito socialista e la critica concerne tutti) o di certi ammonimenti che all'ultimo momento vennero da altissime cattedre per deprecare una eventuale collaborazione tra il partito socialista di allora - che pure era diretto da elementi moderati - e il movimento cattolico. Assai interes­sante osservare che quegli ammonimenti vennero allora sostenuti dagli stessi argomenti che oggi vengono impiegati per lanciare l'anatema contro il movimento comunista, contro il movimento socia­lista di oggi e contro il Fronte popolare, cioè contro quelle che sono le attuali forze dirigenti della lotta delle masse popolari per il rinnova­mento economico e sociale del paese. Anche allora, come adesso, si parla di insuperabili contrasti ideologici, e chi trae profitto dalla con­fusione che ne deriva nel movimento popolare sono proprio quei ceti possidenti il cui privilegio si tratta di spezzare.

   Così si arriva al fascismo, che fu un'esasperazione di violenza, ma nell'interesse di caste e ceti ben determinati, che tutti conosciamo, e nell'industria e nell'agricoltura; esasperazione di violenza che, per le forme che ebbe fin dall'inizio e per le vie che poi seguì, non poteva portare che a un'immane catastrofe.

   È vero, il crollo del fascismo, il 25 luglio, fu essenzialmente pro­vocato dalla disfatta militare. Grandi movimenti di lavoratori avevano però già dato ad esso un notevole contributo. L'essenziale è che il fasci­smo aveva tenuto in piedi le vecchie strutture reazionarie della società italiana puntellandole faticosamente con travi le quali erano ormai cosi corrotte che tutto crollava. Ma dopo il 25 luglio, e specialmente a parti­re dall'8 settembre, assistiamo al fatto più importante e più mirabile della storia moderna del popolo italiano, al meraviglioso risveglio di un popolo che per venti anni è stato escluso dalla vita politica e imme­diatamente riconosce e attua combattendo il proprio dovere nazionale e di classe, rivoluzionario, democratico e patriottico allo stesso tempo. Non vi è nella recente storia d'Italia pagina più bella di quella resistenza all'invasore straniero, in cui però erano contenuti ancora una volta tutti i motivi della lotta delle masse popolari per il rinnovamento del loro paese.

   La Resistenza, ho sentito dire, non aveva però un programma. È vero: i Comitati di liberazione nazionale non formularono mai una serie di punti programmatici. Fu forse un grave difetto della loro azio­ne; ma questo non è l'essenziale. Il programma del movimento di libe­razione deve essere cercato nelle aspirazioni delle forze sociali e politiche che lo animarono e lo condussero alla vittoria, nella natura stessa di quelle forze che non furono le vecchie classi dirigenti, non furono né gli industriali collaboratori dei tedeschi né i grandi agrari con la nuca piegata davanti all'invasore, ma furono gli operai, i braccianti, i conta­dini, la piccola borghesia e gli intellettuali di avanguardia, i socialisti, i comunisti, i membri del Partito d'azione e anche i democristiani e i liberali, sebbene in molto minor misura.

   Il programma della Resistenza fu quello della creazione di un re­gime politico e sociale nuovo. Per questo si è detto che esso è stato un secondo Risorgimento, e in questa definizione è contenuta una pro­fonda critica dell'altro Risorgimento, del primo. Il secondo Risorgimen­to avrebbe infatti dovuto realizzare quello che dal primo non fu fatto: svecchiare il nostro paese, affrontare le questioni sociali non risolte ed anzi aggravatesi col tempo, sanare le piaghe diventate cancrenose, e in questo modo costruire un regime nuovo, una nuova democrazia. Credo superfluo aggiungere che questo non poteva e non potrà ottenersi se non dando un colpo serio per lo meno alle forme più apertamente parassitarie del capitalismo italiano.

   A questo risultato, subito dopo la vittoria dell'insurrezione, non ci siamo arrivati. Credo che non potevamo arrivarci, e per ragioni og­gettive e storiche evidenti. Le critiche che a questo proposito si odono fare di frequente al movimento democratico non sono serie. Queste critiche dimenticano una cosa sola e precisamente una cosa che è essen­ziale. Posto il problema nei termini in cui l'ho posto e che sono i soli rispondenti alla realtà, è chiaro che la soluzione di esso dipendeva dal rapporto delle forze materiali. Quando leggermente si critica il mo­vimento democratico italiano, si dimentica che questi rapporti furono dall'inizio ad esso nettamente sfavorevoli. I soli popoli d'Europa i quali sono stati in grado, sulla base della tragica esperienza della seconda guerra mondiale e del risultato vittorioso di essa, di liberarsi dalle vec­chie strutture politiche ed economiche del capitalismo monopolistico e di aprirsi la strada alla creazione di un mondo nuovo, non più legato a queste strutture, e prima di tutto di scuotere il giogo pesante del­l'imperialismo, sono i popoli alla cui liberazione il contributo decisivo è stato dato da quelle forze militari che, per la stessa natura dello Stato cui appartengono, non sono in alcun modo legate a una politica di conservazione del vecchio e putrefatto regime capitalistico. Queste forze sono quelle dell'Unione sovietica, Stato socialista, Stato di la­voratori.

   All'Italia non è toccata questa sorte. Noi siamo stati invece liberati da forze militari di Stati i quali erano e sono impegnati - e impegnati nel modo più serio - a mantenere in piedi le strutture capitalistiche e il dominio dell'imperialismo, anche se quelle strutture, come da noi in Italia, sono così profondamente arretrate e antidemocratiche.

   Si poteva rompere con la forza questa situazione? Non lo credo. Credo invece sia un grande merito verso la patria quello dei dirigenti delle schiere più avanzate della democrazia e del socialismo in Italia, i quali hanno saputo comprendere la situazione e condursi in modo da evitare al nostro paese di mettersi per una strada che ci avrebbe senza dubbio portati a soffrire una situazione molto, molto più grave ancora dell'at­tua­le.

   La necessità di un profondo rinnovamento politico e sociale esi­steva nelle cose ed era sentita dal popolo. Date però le condizioni in cui avvenne la nostra liberazione, e data anche la complessità dei pro­blemi che dovevamo affrontare per costruire un nuovo ordine di cose là dove non erano più che rovine, la necessità del rinnovamento postula­va un'istanza unitaria, imponeva una politica democratica di unità di tutte le forze dei lavoratori. Bisognava, in una parola, rimanere uniti per non compromettere la nostra indipendenza e le conquiste già realiz­zate; bisognava trovare il modo di realizzare una profonda, permanente collaborazione ricostruttiva tra tutte le forze che avevano insieme combattuto per la liberazione, qualunque fosse la loro personalità politica, ideologica, economica.

   Signori, questa è stata la nostra politica. A questa politica abbiamo mantenuto fede sempre. A questa politica ci siamo richiamati noi comu­nisti, e si sono richiamati gli alleati nostri nel corso della lotta elettorale. Essa è stata ed è una politica ispirata da un profondo senso di respon­sabilità nazionale, dalla coscienza dei doveri che abbiamo verso la classe operaia, verso il popolo, verso tutta la nazione italiana. Non voglio ora entrare nei particolari di cronaca degli eventi attraverso i quali la nostra istanza unitaria venne respinta, e consapevolmente da altre parti, e in prima linea da parte del partito democristiano, si è lavorato per spezzare le forze del popolo e della democrazia.

   Rimanga però stabilito una volta per sempre, nel momento in cui il paese viene cacciato per una strada che non si può prevedere dove lo porterà, ma certamente lo porterà a subire prove molto dolorose, che la classe operaia, attraverso il suo partito d'avanguardia, aveva pro­posto e offerto a tutta la nazione una via di sviluppo pacifico, priva dei pericoli che ora stanno davanti a noi.

   Sta di fatto, però, che sulla base di una per lo meno relativa unità di forze democratiche, quale esistette se non altro nel primo periodo dell'Assemblea costituente, abbiamo scritto e approvato per tutta l'Ita­lia una nuova Costituzione, nella quale la necessità di un radicale rinno­vamento economico e sociale è affermata in modo esplicito. Ma nella realtà della nostra vita politica ci sentiamo ormai di fronte alla stessa alternativa dell'altro dopoguerra. Esclusa una politica di unità demo­cratica, abbiamo assistito alla ripresa baldanzosa delle vecchie caste diri­genti reazionarie dell'industria e dell'agricoltura, le quali, divise sul ter­reno politico le forze del popolo, hanno però tentato in tutti i modi di realizzare ancora una volta la loro unità contro il popolo e quindi di riprendere il sopravvento.

   Dove volevano e dove vogliono trascinarci queste vecchie caste di privilegiati? Qual è stato e qual è il loro programma? Ritornare al fascismo, al regime di quei signori (indica i deputati del Movimento sociale italiano)? Non escludo che questo sia stato il proposito di una parte del ceto dirigente reazionario dell'industria e dell'agricoltura, so­prattutto alla fine del 1946. Nel corso del 1947 vi furono persino i primi segni di un risorgente squadrismo, che si manifestò con gli atten­tati a ripetizione contro le sedi dei partiti popolari e dei sindacati. A un certo punto ci si accorse però che la via era, e rimane, molto pericolosa e per parecchi motivi. Alcuni di questi motivi sono di ordine generale. Assai difficile è far risorgere un regime che è crollato sotto i colpi della più vergognosa disfatta militare; un regime che non può essere qualificato da nessun cittadino italiano onesto se non come un regime di vergogna, di infamia, di depressione di tutte le qualità del nostro popolo. Assai difficile è sollevare ancora una volta quella ban­diera. Ma oltre a questo motivo di ordine generale hanno certamente avuto una parte non indifferente nel far rientrare nell'ombra, almeno temporaneamente, i propositi di squadrismo fascista, anche motivi e fattori di ordine materiale. Si diceva, si sussurrava infatti da tutte le parti che molte armi erano nascoste, e sarebbero venute alla luce il giorno in cui un qualsiasi tentativo di ripresa fascista ci fosse stato. Benedette le armi nascoste, dunque, se hanno salvato la nostra patria da un'altra sciagura di quel genere, da un'avventura la quale avrebbe potuto portarci ancora più in basso! Benedette le armi nascoste!

   Per questi motivi credo non sia ancora, oggi, la vostra ora, onore­voli colleghi del Movimento sociale italiano; ed è per questo che voi date su quei banchi la lamentevole impressione di relitti, spettri di un passato d'infamia e di vergogna...

   Russo Perez. Voi siete un presente di vergogna e di infamia!

   Togliatti. Io non escludo, ad ogni modo, che quelle intenzioni ad un certo momento nutrite da una parte del ceto dirigente reazionario italiano e per il momento rientrate nell'ombra non possano tornare ad essere seriamente accarezzate e alimentate da azioni concrete.

   Per il momento la soluzione è però stata un'altra. Per questo, colleghi di quella parte, adattatevi a un altro periodo di penitenza. Sem­mai, iscrivetevi all'Azione cattolica... Chissà che in quei ranghi, o attra­verso collegamenti palesi o nascosti, non possiate servire ancora, come riserva per un domani!

   Russo Perez. Per ora siete in penitenza voi!

   Togliatti. Far risorgere il fascismo, tutto intiero, con i suoi caratte­ri più spiccati, e soprattutto con l'originario carattere di guerra civile delle classi possidenti contro i lavoratori, non è apparso immediatamen­te possibile. È stato però fatto risorgere in pieno uno degli aspetti del fascismo, e un aspetto che fu tutt'altro che di second'ordine nel sistema ideale e politico di quella tirannide: l'anticomunismo. Ripeto, l'anticomu­nismo non fu per il fascismo cosa di second'ordine, anzi fu cosa di primo piano e di sostanza, perché sebbene allora, nel 1919, nel 1920, nel 1921, il nostro partito non fosse che una piccola forza, setta più che altro di propagandisti, pure fu con la parola d'ordine dell'«antico­mu­ni­smo» che la battaglia politica del fascismo cominciò e venne sviluppata.

   Si è considerato oggi che questa parte delle cosiddette idee e dell'attività pratica fascista potesse utilmente venir rimessa a nuovo e ado­perata come arma offensiva, facendo di essa il motivo centrale della nostra lotta politica. Così abbiamo avuto la vergogna - in questa Italia dove tre anni fa uomini di tutti o quasi tutti i partiti democratici di questa assemblea, uniti nelle formazioni di partigiani, garibaldini e altri, di soldati, di marinai, di aviatori, combattevano insieme per la causa a tutti comune della libertà e del rinnovamento d'Italia! - abbiamo avuto la vergogna di vedere un grande partito, il partito dirigente di questa assemblea, il partito democristiano, affidare le proprie sorti e le sorti di tutto il paese all'impiego di quest'arma vergognosa! Abbiamo rivisto i manifesti del Partito nazionale fascista riprodotti come mani­festi dei comitati civici: abbiamo perfino rivisto pellicole cinematogra­fiche di propaganda antibolscevica del fascismo essere nuovamente proiettate per ordine, credo, del sottosegretariato alla presidenza del consiglio. Si è ricaduti in pieno, per questa strada, nel passato fascista più abominevole.

   Ora si dice che l'anticomunismo ha vinto. Permettetemi di discu­tere questa affermazione, mettendo in dubbio la verità di essa.

   Se voi affermaste che il 18 aprile ha vinto l'antiqualunquismo, forse direi che avete ragione. Non riesco più a scorgere in quest'aula rappresentanti di quel movimento; e il bizzarro fondatore di esso, dopo avere con tono spesso insolente invitato nei pubblici comizi i propri avversari politici ad inviare a lui i familiari loro per un privato con­traddittorio, è stato costretto oppure si è limitato ad inviare qui una gentile nostra collega sua stretta congiunta... [1]

   Comprenderei anche che mai diceste che il 18 aprile ha vinto l'anti­liberalismo, poiché mi pare che il partito liberale, che già bastanti tra­versie aveva subito in questi ultimi anni, sotto la direzione degli uomini che ne curavano le sorti, non soltanto è uscito stritolato dalle urne, ma ne è uscito in condizioni tali che una nuova sua crisi ben appare a tutti inevitabile. Se mi diceste questo, ammetterei dunque che avete ragione.

   Mazza. E del socialismo?

   Togliatti. Quando affermate però che ha vinto l'anticomunismo, allora mi permetto di discutere l'esattezza della vostra illazione. Noi comunisti non abbiamo posto in questa campagna elettorale una istanza di conquista del potere da parte del nostro partito. La nostra politica è stata unitaria quale essa è stata sotto il fascismo, nel periodo della guerra di liberazione e nel periodo dell'Assemblea costituente. Abbiamo rivendicato la formazione di una maggioranza nel paese e nel parlamento, e la costituzione di un governo, esprimenti l'unità delle grandi masse lavoratrici democratiche delle città e delle campagne. Non abbiamo nemmeno posto il problema dell'insurrezione. Anzi scusate se a questo proposito non posso trattenermi dal darvi una piccola lezione di marxismo e leninismo. Quando un partito comu­nista ritiene che le circostanze oggettive e soggettive pongano all'ordine del giorno la necessità per le forze popolari avanzate di prendere il potere con le armi, cioè con una insurrezione, esso proclama questa necessità, lo dice apertamente. Così fecero i bolscevichi nel 1917, e marciarono all'insurrezione a bandiere spiegate. Così abbiamo fatto noi, comunisti italiani, a partire dal settembre 1943. Non abbiamo nascosto a nessuno che la via che avevamo preso e proponevamo al popolo era la via dell'insurrezione; insieme con i compagni socialisti e con gli amici di Giustizia e Libertà abbiamo marciato su quella via senza esitazioni e abbiamo vinto contro il fascismo e contro l'invasore straniero.

   Una seconda cosa ancora vorrei dirvi, ed è che quando una insurre­zione è matura in un paese non vi è misura di polizia che riesca a disarmarla. Non si disarma una insurrezione la quale sgorghi dalle neces­sità stesse della lotta politica e di classe di una nazione. Trovarono le armi di cui avevano bisogno i sanculotti del 1789 per espugnare la Bastiglia e il palazzo superbo di Versaglia. Mitragliati sul Campo di Marte, ritrovarono le loro forze a contatto col popolo; conquistarono il potere; tagliarono la testa al re; fecero quello che dovevano fare come forza rivoluzionaria.

   E noi, comunisti italiani, quanti depositi di armi credete che avessi­mo sotto il fascismo? Nemmeno uno! E quanti ne avevate voi socialisti? Nemmeno uno neanche voi. Ma quando vi è stato bisogno di spezzare con le armi la tracotanza dei tedeschi e il tradimento dei fascisti, le armi ci sono state e sono state vittoriose. Le armi ci saranno sempre quando ci sarà bisogno di aprire la strada al progresso politico e sociale attraverso un'azione di questa natura. Io auguro però che questo evento sia risparmiato al nostro paese, nonostante tutto quello che sembrate fare voi per renderlo quasi inevitabile.

   Detto questo, permettetemi di discutere ora l'affermazione della vittoria dell'anticomunismo, mantenendosi sul terreno strettamente elettorale.

   Ha vinto veramente l'anticomunismo, se questo voleva dire lotta per eliminare dal parlamento il nostro partito? Non credo possiate dire di aver raggiunto questo risultato. Contateci: siamo più di prima.

   Purtroppo la legge elettorale - e questo mi rincresce nei confronti dei compagni socialisti - ha agito a nostro favore e a sfavore loro. Sta di fatto, ad ogni modo - permettetemi di dire anche questo - che i nostri voti di preferenza in questa lotta elettorale sono aumentati di più di due volte e che certamente la maggior parte dei voti che sono serviti a creare un alleato, non so quanto utile per l'onorevole De Ga­speri, nel partito saragattiano...

   Saragat, vice presidente del consiglio dei ministri, ministro della marina mercantile. Quanto è spiritoso!

   Togliatti. ... non credo provengano dalle file delle masse che il 2 giugno avevano votato per noi. Il risultato elettorale che cercavate, quindi, non c'è stato, e così non avete ottenuto e non otterrete il risul­tato di rompere le file della nostra organizzazione.

   Permettetemi di citarvi un documento riservato che ho avuto di recente dalla nostra sezione di organizzazione, e che contiene le cifre relative al numero dei nostri iscritti al 30 aprile 1948. Essi salgono a 2.150.191, cifra che avevamo l'anno scorso soltanto di poco superato verso la fine dell'anno. Nel prospetto che mi è stato dato, inoltre, sei regioni già superano le cifre della fine dell'anno passato e in esso non è ancora tenuto conto del notevole afflusso di nuovi iscritti che abbiamo avuto dopo le elezioni. Il risultato che speravate quindi non c'è stato nemmeno qui. Non siete riusciti e non riuscirete ad avere una vittoria anticomunista nel senso proprio di questa parola, nel senso di riuscire a spezzare il nostro partito, a eliminarlo dalla scena parlamentare o dalla vita politica, oppure a ridurlo a forza insignificante e a metterlo al bando, come qualcuno è andato troppo apertamente e imprudentemente proclamando.

   La realtà è che l'anticomunismo è nella sua sostanza un'altra cosa. L'anticomunismo è una parola d'ordine, è strumento, è arme che serve alle classi possidenti, agitandosi questo spettro davanti alle persone sem­plici e ignare, a creare una situazione politica determinata, che si fonda essenzialmente su due fatti: su una scissione profonda delle forze demo­cratiche dei lavoratori e su un blocco compatto del ceto dirigente reazio­nario. Quella che ha vinto il 18 aprile è la precisa volontà di introdurre, mantenere, allargare nel popolo una scissione tale che non gli permetta nemmeno oggi, nonostante il sacrificio e la vittoria popolare della guerra di liberazione, di fare rapidamente quella marcia in avanti che esso vuol fare verso il rinnovamento delle strutture economiche e sociali del proprio paese.

   Una voce a destra. Non è vero!

   Togliatti. Da una parte avete voluto scindere e disgregare, semi­nando odio e discordia, dall'altra parte vi siete proposti di consolidare il blocco delle forze conservatrici e reazionarie, di creare e mantenere l'unità di quelle caste dirigenti che sono l'espressione della nostra arre­trata situazione sociale, l'unità di quelle caste che sul perpetuarsi di questa situazione e della tragica miseria del popolo fondano la speranza del mantenimento dei loro privilegi.

   L'essenziale, quindi, nel risultato del 18 aprile, è prima di tutto lo spostamento di forze che ha avuto luogo da tutti i partiti della destra verso la Democrazia cristiana, diventata fiduciaria e partito dirigente della grande borghesia capitalistica e agraria. Questo è l'essenziale, ed è per raggiungere questo risultato che sono state adoperate quelle armi elettorali, quei metodi di intimidazione, di terrore materiale e spirituale, di violenza e corruzione organizzate che fanno il vostro disonore, e che disonorano tutto il nostro paese.

   In prima linea qui si colloca l'intervento elettorale della Chiesa, con le scomuniche, la minaccia delle pene spirituali per chi non votasse Democrazia cristiana e tutto il resto, tutto ciò che già abbiamo denun­ciato qui dentro e continueremo a denunciare nel parlamento, nel paese e davanti all'opinione pubblica di tutto il mondo. Questo intervento della Chiesa comporta la violazione di leggi fondamentali e costi­tuzionali del nostro Stato, dalla norma la quale vieta all'Azione cat­tolica di esercitare attività politica, e che è esplicita in quel Concor­dato che noi stessi abbiamo voluto fosse collegato con la Costituzione, e non per nulla: sino all'articolo di legge il quale proibisce e condanna le pressioni spirituali esercitate per influire sul risultato delle elezioni a favore di un qualsiasi partito. Credo che mai, nella storia della Chiesa cattolica, si fosse arrivati a un tal punto di ignominia, a una tale manife­stazione di massa del baratto ignobile fra beni spirituali e beni tem­porali.

   Una voce al centro. Siamo progressisti anche noi!

   Togliatti. Signor presidente, voglia mettere il nome dell'onorevole che ora mi ha interrotto in quella lista di interruttori sciocchi che l'ono­revole Lombardi ha proposto di creare.

   Ripeto, abbiamo assistito a un volgare baratto fra cose spirituali e cose temporali: i voti per un seggio democratico cristiano in parla­mento in cambio dell'indulgenza e della quiete nell'aldilà! Nel passato venivano denunciati e bollati severamente i peccati di simonia, fosse essa secondo il diritto naturale o secondo il diritto positivo. Nella cam­pagna per il 18 aprile ci siamo trovati di fronte a una manifestazione sfacciata di una forma nuova dello stesso peccato: il mercato delle cose celesti e spirituali con le cose temporali, a favore di un partito, e precisa­mente di quel partito dietro il quale facevano e fanno blocco unite tutte le caste dirigenti della più vecchia e putrefatta società italiana.

   Non intendo addentrarmi nella citazione di fatti concreti; mi inte­ressa il fenomeno come manifestazione di costume politico e come ulti­ma espressione di una evoluzione storica, che trovo risolutamente conse­guente, nella politica dei gruppi dirigenti della Chiesa cattolica in Italia: dal divieto di votare per l'elezione dei rappresentanti al parlamento del nuovo Stato nazionale italiano unito ed indipendente, sino alla mi­naccia dell'inferno per chi non vota e, naturalmente, per chi non vota per il partito della Democrazia cristiana, che il Vaticano investe del compito di governare l'Italia.

   Trovo che lo sviluppo storico e politico è qui assolutamente con­seguente: vi è un obiettivo, il quale viene riconosciuto e perseguito con tenacia e con una notevole capacità, che riconosco, di adeguare i mezzi alla gravità della situazione concreta. Il passaggio, in sostanza, da quella prima posizione astensionistica all'attuale posizione singolar­mente simoniaca è dettato dallo sviluppo della lotta delle classi, e prima di tutto dal fatto che lo Stato nazionale italiano, costituitosi allora con­tro tutte le scomuniche, è uno Stato nel quale determinate classi lottano per la difesa delle loro posizioni di predominio e dei loro privilegi egoistici sui beni materiali della società, invocando come di diritto in questa lotta la protezione dei gruppi dirigenti della Chiesa cattolica, a cui spetta di dare questa protezione. Il passaggio è graduale, ma è dettato da una logica di ferro, per cui al sorgere delle prime associa­zioni operaie, ancora anarchicizzanti, corrisponde l'appello di Leone XIII contro le associa­zioni sovversive; all'origine del partito socialista e alla prima avanzata di questo partito corrisponde la Rerum novarum, agli scioperi del 1904 e al balzo in avanti che il movimento socialista e sindacale fa nel clima di democrazia, che allora tendeva a instaurarsi, corrispondono altri documenti, la Fermo proposito, se ben ricordo - l'onorevole La Pira, se sbaglio, mi corregga - nella quale il pericolo viene indicato come sempre più grave, tanto che dopo di essa, anzi contemporaneamente ad essa, viene tolto il non expedit e s'inizia il periodo della mobilitazione dei cattolici per collaborare con i gruppi conservatori e reazionari per ottenere una permanente formazione di destra nel parlamento italiano. Arrivati alla crisi del primo dopoguerra, nella stessa linea si collocano il favore dato dal Vaticano alla marcia su Roma; e poi il Concordato e la Conciliazione, negati a eminenti uomini politici di parte liberale e democratica, ma concessi al regime fascista, nel momento in cui esso affrontava una situazione estremamente pericolosa, e concessigli proprio per salvarlo dal pericolo che in quel momento lo minacciava. Fa seguito a questa tutta la successiva azione delle gerarchie cattoliche parallela e sussidiaria a quella delle gerarchie fasciste sino ad oggi, quando, dopo la parentesi della guerra di libera­zione si arriva ad un momento in cui la spinta popolare per rivendicare e attuare le riforme sociali indispensabili per dare pane, vita, benessere, giustizia al popolo italiano è diventata così potente che per contenerla occorrono armi particolari. Allora quella singolare forma di vendita di indulgenze e di simonia che ho indicato diventa fenomeno di massa, e sulla base di essa ecco nel parlamento italiano una maggioranza asso­luta di sanfedisti disposta a seguire sino all'ultimo una politica di scis­sione delle forze democratiche e delle forze dei lavoratori, i quali lottano per la conquista del benessere e per la difesa della libertà...

   Una voce al centro. Libertà per tutti!

   Togliatti. No, collega, vi sono libertà che nella nostra Costituzione non abbiamo scritte: la libertà di sfruttare il popolo, la libertà di con­dannare la popolazione di intieri villaggi a non aver lavoro per stagioni intiere, la libertà di condannare i contadini italiani a una vita di schiavitù!

   Questa invece è la libertà che rivendicano coloro che hanno fatto blocco dietro al vostro scudo, diventato veramente argine contro l'on­data popolare che avanza per la distruzione del privilegio economico e politico.

   Quale risultato abbia dato l'intervento della Chiesa nella battaglia elettorale lo abbiamo visto. Più difficile è prevedere quali ne saranno le conseguenze e le ripercussioni vicine e lontane. A me pare inevitabile che queste ci debbano essere e che debbano essere serie. Mi pare strano, ad esempio, che quei popoli d'Europa i quali sono riusciti in questo dopoguerra, a differenza del nostro, a fare seri passi in avanti sulla via di una trasformazione sociale dei loro regimi, che sono riusciti a scuotere il giogo dell'imperialismo e a infliggere i primi colpi al regime capitalistico e ora marciano verso la costruzione di nuove società na­zionali di uguali e di liberi, mi pare strano, dicevo, che questi popoli non debbano considerare con grande attenzione ciò che è avvenuto in Italia e non debbano premunirsi contro il pericolo che la stessa cosa o qualcosa di simile possa avvenire a casa loro. Mi pare inoltre inevita­bile che, diventata la Chiesa cattolica in questo modo, che noi non abbiamo voluto e abbiamo deprecato, responsabile prima di tutta la situazione politica, economica e sociale del nostro paese, assai gravi debbano essere le conseguenze anche all'interno della nazione italiana. Credo che se tra di voi vi fossero uomini e donne sinceramente religiosi - apposta uso il condizionale - essi dovrebbero particolarmente essere preoccupati di questa situazione, perché ciò che voi avete fatto ha dato, dà e darà argomenti assai fondati a tutti coloro che vorranno portare la lotta politica sul terreno su cui mai abbiamo voluto portarla sinora, sul terreno religioso. Avete addossato un peso molto grave a quella organizzazione ecclesiastica che ha garantito la vostra vittoria elettorale. Guardatevi dalle conseguenze!

   Accanto all'intervento della Chiesa vi è stato, poi, altrettanto scan­daloso, l'intervento straniero e quello intimidatorio delle forze di po­lizia. Anche a proposito di questi, fatti concreti credo superfluo citarne ancora. Una domanda sola vorrei fare, ma in verità non saprei nemmeno a chi concretamente rivolgerla. Risulta, per testi e documenti pubblicati nei giornali degli Stati Uniti, che il governo di quel paese ha stanziato 4 milioni di dollari per le elezioni in Italia. Curioso modo per quel governo di tener fede alle tradizioni democrati­che che pure sono state qualche cosa di serio nella storia degli Stati Uniti. Non è passato un secolo da quando Tommaso Jefferson scriveva: «Noi non possiamo negare ad una nazione il diritto sul quale abbiamo fondato il nostro proprio governo: il diritto di governarsi se­condo la forma che le conviene e il diritto di modificare questa forma se questo le piace. Solo la volontà della nazione entra in linea». Questo diceva il democratico Jefferson. Oggi il governo imperialista degli Stati Uniti stanzia 4 milioni di dollari per impedire che la nazione italiana pronunci liberamente la propria volontà di modificare il regime econo­mico e sociale nel modo che piaccia alla maggioranza degli italiani.

   E qui si colloca la mia domanda. No, onorevoli colleghi, non è vero che il parlare di queste cose leda la dignità degli italiani, e ha profondamente sbagliato il presidente del consiglio ieri quando ha detto che le accuse che noi muoviamo poggiandole su puri e semplici fatti da tutti constatati siano offensive per il popolo ita­liano. Non fu offesa per il popolo italiano il fatto che la violenza lo costrinse, nel 1924, a votare per il listone fascista; non fu offesa per il popolo italiano il fatto che il plebiscito fascista raccolse quella maggioranza di voti che tutti sanno. La nostra accusa è bensì atro­cemente offensiva per voi, che avete approfit­ta­to di un intervento stra­niero lesivo della nostra dignità di nazione. Ma qui si colloca, ripeto, la mia domanda: come sono stati spesi quei 4 milioni di dollari? Sono stati passati al fondo lire? O sono serviti, secondo certe dottrine che vedo professate a proposito degli aiuti ERP, come sussidio e sostegno assegnati ai settori particolarmente deboli, per esempio al suo partito, onorevole Saragat, o a quello dell'onorevole La Malfa, che particolarmente deboli si sono di fatto rivelati nella consultazione elettorale? Vorremmo saperlo. È un nostro diritto elementare.

   Saragat, vice presidente del consiglio, ministro della marina mer­cantile. Ma sa che ha una faccia di bronzo, onorevole Togliatti? Accusa noi di prendere danaro dallo straniero? Proprio lei!

   Togliatti. Comprendo che le domande indiscrete alle volte possono irritare, però come cittadino ho sentito il dovere di porre, da questa tribuna, questa domanda a coloro che hanno approfittato della generosa elargizione del governo imperialista degli Stati Uniti. Voi ripetete ad ogni passo che volete fatti. Ebbene, questi sono fatti, che non si possono negare, e accanto ad essi si colloca tutta un'azione di intimidazione, di terrorismo, di minaccia, di corruzione (interruzione dell'on. Vigorelli) di cui non vi era nel nostro paese nessun precedente, nemmeno in quelle che furono considerate, nel passato, elezioni scandalose.

   Se il fascismo, quindi, ha creato a partire dal 1922 quella situa­zione che tutti conosciamo fondandosi su una esasperazione di violenza immediata, diretta contro i lavoratori... un'altrettanto grave esaspera­zione di inganni, di terrorismo e di corruzione, troviamo alla base della situazione politica che stiamo discutendo. E di qui derivano i limiti della vostra azione, di qui deriva il contenuto stesso delle dichiarazioni del presidente del consiglio, la loro povertà, l'assenza in esse di quel respiro che avrebbero dovuto avere, come dichiarazioni che aprissero la strada a un ampio periodo di attività legislativa rinnovatrice di tutte le nostre strutture sociali.

   Che cosa volete costruire su questa situazione che in questo modo così vergognoso avete creato? Comprendo che questa situazione voi volete, prima di tutto, consolidarla; e vedo anche quali sono i mezzi che voi adoperate: alcuni interessano particolarmente voi, colleghi della Demo­cra­zia cristiana, tutti interessano profondamente tutto il popolo italiano.

   Ciò che fece il fascismo dopo il 1926 dovranno farlo adesso la Democrazia cristiana, l'Azione cattolica, i comitati civici. Si tratta di creare un solido e permanente legame tra la direzione del movimento politico dei cattolici e la direzione economica del capitalismo italiano.

   L'onorevole Scelba è stato esplicito a questo proposito, ed a lui ha fatto eco persino l'onorevole Merzagora dalle colonne del Corriere della sera, quando ha detto che certi posti spettano a chi ha vinto, e ha aggiunto che debbono stare attenti, questi signori dell'opposizione, perché criticare va bene, ma che non vadano a vedere troppo per il sottile, perché quando un rappresentante di un partito che ha riportato questa brillante vittoria dispone d'un posto lucroso sa ben lui cosa ne deve fare.

   La parola d'ordine che a voi dunque si addice in questo momento, colleghi della maggioranza assoluta democristiana, è molto chiara ed è anche semplice: «Arricchitevi».

   Non c'è più qui nemmeno l'onorevole Finocchiaro Aprile per de­nunciare le vostre marachelle. Arricchitevi dunque alle spalle dei vostri elettori e dello Stato.

   Sarà questo uno dei mezzi più efficaci, onorevole De Gasperi, per consolidare la situazione uscita dalle elezioni, per tentare di trasformare una situazione di fatto politica in qualche cosa che cominci ad assomi­gliare a un regime.

   Accanto a questo vengono le misure che tendono a tenere il paese incatenato al clima di intimidazione e terrore instaurato prima del 18 aprile, a rendere motivo permanente di tutta la vita nazionale la propa­ganda d'odio dell'anticomunismo, a sostituire il regime di libertà creato dalla Costituzione con un regime di arbitrio poliziesco e di violenza permanente contro i lavoratori. Persino le liste di proscrizione avete inventato, nella vostra aberrazione di sistematica menzogna.

   Perciò la prima legge, anzi la sola legge con cui questo governo - che avrebbe dovuto presentarsi qui con una serie di misure legislative destinate ad attuare la nuova Costituzione - ci si presenta, è quella che porta il titolo di «Proroga delle misure eccezionali per i detentori di armi», ed è una legge di polizia, anzi una legge speciale terroristica, non adatta alla situazione attuale del nostro paese. Con questa legge voi veramente offendete il popolo italiano e umiliate l'Italia di fronte al mondo, perché non è vero che esista nel nostro paese una situazione che richieda misure di questo genere. Prima di proporre una legge si­mile...

   Scelba, ministro dell'interno. Non esistono le armi?

   Togliatti ... avreste dovuto chiedervi chi si è reso colpevole, negli ultimi mesi e negli ultimi anni, dell'uso illecito di armi. Chi?

   Nella lotta elettorale tutti i caduti sono stati dalla parte nostra, tutti! Decine di organizzatori, di esponenti di Camere del 'lavoro...

   Scelba, ministro dell'interno. Nessun caduto nella lotta elettorale e per la lotta elettorale!

   Togliatti. Queste sono ipocrisie! Tutti caduti per la lotta elettorale e durante la lotta elettorale, e non per le armi che voi cercate, ma per quelle che son nelle mani degli aguzzini, dei padroni, e che voi non trovate mai. La realtà è che con quella legge voi non volete fare altro che un'opera di intimidazione...

   Scelba, ministro dell'interno. Chiediamo soltanto le armi.

   Togliatti. Voglio leggervi la citazione in giudizio contro un citta­dino italiano per rispondere del reato di cui all'articolo 3 di questa legge, per essere stato trovato in possesso, dopo scaduto il termine di consegna stabilito dalle autorità - sapete di che cosa? - di un proiettile per mitra! Ma questo cittadino italiano era il segretario di una lega di lavoratori e conveniva renderlo latitante per alcuni mesi affinché i padroni in quella località avessero libero campo per le loro prepotenze. Questa è la realtà, questo è quello che voi volete, e questa è la sola legge che presentate al parlamento in applicazione della Co­stituzione repubblicana! Come ha detto giustamente l'onorevole Lom­bardi, voi state introducendo in Italia un regime in cui nemmeno il principio fondamentale democratico per cui la legge è uguale per tutti ha più valore per un lavoratore che sia iscritto ad un partito che con­seguentemente difende i suoi interessi.

   Ma con tutto questo dove credete di poter arrivare? Tutto questo - e permettetemi qui, dopo la polemica, di ritornare all'impostazione originaria di questo mio discorso - tutto questo non risolve alcuno dei problemi annosi che stanno davanti alla nazione italiana, nessuno degli aspetti della riforma economica e sociale che dobbiamo affrontare e risolvere se vogliamo tener fede alla Costituzione repubblicana.

   Che volete dunque fare? Non risulta dalle dichiarazioni del presi­dente del consiglio.

   Avete - abbiamo anzi - una situazione finanziaria che se non è ancora del tutto catastrofica certamente è assai grave: settecentocin­quanta miliardi di debito, novecento miliardi di residui passivi.

   Quando noi siamo usciti dal governo, nell'ultimo colloquio che ebbi col presidente del consiglio attuale, egli mi disse che dovevamo andarcene perché era necessario fare una piccola inflazione di una qua­rantina di miliardi, e se ci fossimo stati al governo noi, la cosa sarebbe stata difficile. Da allora ad adesso l'aumento dell'inflazione è stato di duecentottanta miliardi circa!

   Ma la situazione è assai grave non soltanto per gli aspetti finanzia­ri, bensì anche per gli aspetti economici. Anche qui, se catastrofica ancora non si può con esattezza chiamare la situazione della nostra industria, credo però che tutti coloro che hanno veramente l'occhio ad essa non possono non essere d'accordo nel riconoscerla assai preoc­cupante. Abbiamo toccato nel mese di aprile di quest'anno la punta più alta che mai sia stata toccata in Italia per quanto riguarda la cifra dei disoccupati: due milioni e ottocentocinquanta mila. Un tal numero di disoccupati non si era nemmeno avuto nell'anno di crisi 1933, in cui i disoccupati ammontavano alla cifra di circa un milione e cinquecentottantamila. Nelle industrie la percentuale odierna dei disoccupati è del 28 per cento, nell'agricoltura è inferiore come media, ma tocca punte molto più alte, che raggiungono sino il 67 per cento nelle regioni più colpite.

   Situazione grave, dunque, molto grave. Ogni giorno riceviamo no­tizie, dalle Camere del lavoro provinciali, di licenziamenti avvenuti e di minacce di nuovi licenziamenti per centinaia e per migliaia di unità. Sono piccole e medie fabbriche che si chiudono qua e là; i lavoratori, con impulso generoso, cercano di farle funzionare occupandole e ten­tando così di instaurare in esse una loro amministrazione diretta; da tali tentativi fatti su questa scala non si può certo attendere la riso­luzione del problema generale.

   Di questa situazione che cosa ci dite? Che cosa ne dice nelle sue dichiarazioni l'onorevole presidente del consiglio? Egli non trova in proposito che una parola: piano Marshall. Sul piano Marshall è fondata tutta la parte economica e finanziaria della sua esposizione. Del piano Marshall discuteremo nei particolari quando avremo davanti agli occhi la legge che voi ci presenterete per attuare questo «piano». Allora entreremo nel concreto della questione; finora noi sappiamo soltanto che, secondo le vostre dichiarazioni, col piano Marshall, l'Italia riceve­rebbe, si e no, quattrocento miliardi, i quali costituiscono la metà di quello che è il deficit attuale del bilancio dello Stato, o poco più.

   E come impiegherete questa somma? Una volta che tutte le vostre prospettive economiche e finanziarie si imperniano su questo piano, sono fondate su di esso, credo che a voi corresse e corra l'obbligo di dirci in qual modo impiegherete questa somma. Non si comprende per­ché a questo proposito l'onorevole De Gasperi sia stato non solo reti­cente, ma muto, e ciò proprio nel momento in cui la questione è ogget­to di aspri contrasti nell'opinione pubblica, e persino tra rappresentanti dei partiti che aderiscono al governo. Una parola del governo in merito era tanto più necessaria perché qui c'è di mezzo la questione dell'inter­vento economico straniero, del controllo straniero sullo sviluppo delle singole branche della nostra produzione, allo scopo di subordinare il nostro sviluppo industriale e agricolo a interessi estranei alla vita poli­tica ed economica italiana. Vi è chi pensa possiate sfuggire a questo pericolo limitandovi a far affluire gli «aiuti» americani al fondo-lire e servendovene per sanare il bilancio dello Stato. Allora però avrete una situazione industriale insostenibile, e particolarmente insostenibile in quei settori che, proprio per il modo come il «piano» famoso è costruito e per gli obiettivi che lo muovono, e che non sono obiettivi nazionali italiani, ma obiettivi di difesa degli interessi di una grande potenza imperialistica, sono anziché favoriti danneggiati.

   Avete avuto notizie delle cifre che sono state riferite all'ultima riunione della Commissione economica delle Nazioni unite riguardo allo sviluppo dell'industria nei paesi dell'Europa orientale? Il 152 per cento in rapporto all'anteguerra in Polonia; il 127 per cento in Ungheria; il 134 per cento in Bulgaria; il 110 per cento in Cecoslovacchia! Non intendo servirmi di queste cifre per una facile polemica; intendo solle­vare un'altra questione. È evidente che qui vi è una parte d'Europa dove è in corso un processo rapido, tempestoso, vorrei dire, di indu­strializzazione. La sorte della nostra industria e di tutta la nostra eco­nomia avrebbe potuto e dovuto essere strettamente collegata a questo processo di industrializ­zazione, di cui noi potevamo essere tra i princi­pali fornitori. Questa è politica che avrebbe dovuto fare un'Italia demo­cratica, popolare, che non avesse accettato e subito l'intervento, con­trario all'interesse nazionale, dello straniero nel regolare la nostra vita economica e il nostro stesso sviluppo industriale. Voi questa via l'avete respinta, e i risultati sono quelli che tutti vedono ormai con sempre maggiore chiarezza. Da tutti i documenti della nostra situazione ciò che risulta è una prospettiva di lento aggravamento, quel che noi mar­xisti chiamiamo prospettiva di putrefazione lenta di un sistema econo­mico. Questa è la minaccia che oggi incombe, di giorno in giorno sempre più certa e sempre più grave, sul nostro paese.

   In questa situazione voi dite - e lo affermano particolarmente alcuni degli aderenti a questa combinazione ministeriale - che voi «pianifiche­rete» la nostra ricostruzione, l'industria, la bonifica agraria e tutto quanto. L'onorevole Saragat ci vorrebbe persino convincere che coi 400 miliardi del piano Marshall egli costruirà in Italia il socialismo. La verità è che non si pianifica nulla, in qualsiasi paese e quali si siano i mezzi di cui si dispone, se non si rompe il monopolio della ricchezza nelle mani delle caste dirigenti capitalistiche. È inutile che voi ci diciate che in Italia il fascismo ha già nazionalizzato più del 50 per cento della produzione della nostra industria. Il fascismo non ha nazionalizzato nulla; ha soltanto creato un particolare sistema di connivenza tra il ceto dirigente dell'industria monopolistica e l'apparato dello Stato, un particolare modo di utilizzazione di questo da parte di quello, e niente di più.

   Ben diverso è il compito che ci pone la Costituzione. Essa ci chiede di rompere il monopolio della ricchezza nelle mani dei gruppi dirigenti capitalistici, e in particolare dell'industria. Come lo farete? Ma prima di tutto: lo volete fare? Sulla base di quella particolare situazione politica che voi avete creato con la campagna anticomunista, di cui ho analizzato prima l'origine e i risultati, voi non potete farlo oggi e non potrete farlo mai. Vi è una oggettiva e soggettiva contraddizione che non lo consente.

   Ancora più chiara appare questa vostra impotenza - non so se voluta o obbligatoria - nel campo dell'agricoltura. I termini in cui si parla nel discorso del presidente del consiglio del problema dell'agri­coltura, in realtà non sono riusciti al nostro orecchio nuovi.

   Egli ci ha detto che vi è un problema di riforma agraria; ma mentre tutti sanno che riforma agraria significa mutamento dei rapporti di proprietà della terra, per l'onorevole De Gasperi prima di tutto deve venire la trasformazione agraria, se no si correranno i rischi e si affronte­ranno i danni ch'egli ci prospetta.

   Sono andato a pescare negli archivi non della Camera dei deputati, ma in quelli della Camera dei fasci e delle corporazioni, i discorsi dei gerarchi e dei ministri fascisti sullo stesso argomento. Ho trovato le stesse formulazioni. Anziché partire da un proposito innovatore del si­stema giuridico e sociale della proprietà, essi dicono - e io cito dai loro discorsi - che la loro legislazione si basa sul presupposto che gli attuali ordinamenti possono modificarsi solo in dipendenza di de­terminate condizioni di ambiente e che per modificarli occorre la ese­cuzione della trasformazione agraria. Come De Gasperi, i fascisti po­nevano alla riforma agraria una condizione che permette di rinviarla alle calende greche.

   Il collega Gullo e altri colleghi di questa parte hanno dimostrato come il problema della riforma agraria sia problema di mutamento ra­dicale dei rapporti di proprietà. A questo aggiungo che esso è prima di tutto un problema politico, così come politico è il problema della riforma industriale! Si tratta di vedere qual è la posizione che voi assu­mete verso quelle forze del lavoro organizzate che da decenni, ma par­ticolarmente in questo periodo, combattono per rivendicare il diritto al lavoro degli operai industriali ed agricoli e la riforma dei rapporti fondiari particolarmente nell'Italia meridionale!

   Quale è la posizione che voi prendete nei confronti di queste forze, delle loro organizzazioni, dei loro movimenti, dei loro scioperi? La vo­stra posizione, per il momento, è più arretrata ancora di quella dei governi che ressero le sorti del nostro paese dal 1900 al 1910 e avevano già riconosciuto che non si può adoperare la forza dello Stato e la violenza delle forze armate di polizia nei conflitti del lavoro!

   Parlate di difesa della libertà del lavoro, e cioè del libero crumirag­gio. Ma vogliate rileggere la Costituzione. Dove esiste questa libertà nella nostra Costituzione? Non esiste! Non se ne parla mai! Esiste l'affermazione del diritto al lavoro, esiste l'affermazione che la repub­blica è fondata sul lavoro, è riconosciuto il diritto di sciopero, ma è escluso ogni riconoscimento del diritto di serrata. Non è dunque se­condo questa Costituzione che voi agite, quando fate sparare contro i lavoratori in sciopero, quando adoperate le forze di polizia contro le forze organizzate del lavoro in movimento!

   Se volete per lo meno dare l'impressione che avete qualche lontana intenzione di avvicinarvi a una riforma agraria, modificate dunque - e modificate radicalmente! - i rapporti che esistono, soprattutto nelle regioni più arretrate d'Italia, tra le forze di polizia e le organizzazioni libere dei lavoratori! Mettete in carcere gli assassini dei capilega e dei segretari di Camere del lavoro della Sicilia! Ecco il primo passo che dovete fare per realizzare la riforma agraria. È qui che la riforma agraria incomincia, e non dal plagio dei discorsi di Mussolini o dei Tassinari o Acerbo a proposito di essa.

   Signori del governo, un decimo, la centesima parte di quello zelo che dimostrate quando si tratta di trovare una pallottola di mitraglia­trice nel cassetto di un segretario di Lega contadina per poterlo far arrestare, vi prego, impiegateli per trovare il cadavere del nostro compa­gno Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro di Corleone, rapito, ucciso, strappato alla propria famiglia, alla propria lega, ai la­voratori di quel paese, da sgherri infami al servizio degli agrari e protetti dalla vostra polizia. Un decimo, la centesima parte di quello zelo, al­meno per trovare dove è stato sepolto quel cadavere, affinché la moglie e i figlioletti possano sapere dove deporre una lacrima e un fiore.

   Ecco dove concretamente incomincia la riforma agraria. Incomincia dal fatto che dimostriate di esser capaci di rendere giustizia ai lavoratori, che dimostriate a tutto il paese che esiste una legge anche per coloro che rivolgono le armi, quelle che voi non trovate e non troverete mai, contro gli organizzatori dei contadini, contro questi tenaci combattenti per la riforma agraria, questi eroici assertori della volontà di rinnova­mento del popolo italiano.

   Onorevole De Gasperi, trecentosette voti di maggioranza sono buo­ni. Siete certo che insieme con essi non vi siano delle macchie di sangue sul vostro abito di presidente del consiglio? Badate, queste macchie sono difficili a cancellarsi!

   Nemmeno sulla politica estera non trovo che le dichiarazioni del presidente del consiglio corrispondano alla situazione attuale, ai bisogni dell'Italia nostra, alle aspirazioni del popolo italiano. Certamente esse non corrispondono allo spirito pacifista, nel senso nobile, elevato di questa parola, che ispira la Costituzione repubblicana.

   Ho accuratamente riletto oggi stesso le dichiarazioni del presidente del consiglio per vedere dove e come egli parli della nostra politica estera in relazione alla più grave delle questioni che oggi stanno davanti agli italiani e a tutta l'umanità: la questione della guerra e della pace. Ho costatato una volta di più che di tale questione nemmeno si parla. Se se ne parla, se ne parla in una vergognosa subordinata, dove una nostra volontà pacifica è affermata in legame con la politica degli Stati Uniti d'America e con l'accordo concluso con questa nazione a proposito degli «aiuti» ERP.

   Io non pretendo che voi, servi dell'imperialismo americano, condi­vidiate il nostro giudizio sulla politica degli Stati Uniti d'America e particolarmente dei loro dirigenti attuali, che è una politica di provoca­zione ad una terza, tremenda, guerra mondiale. Ma voi dovete per lo meno sapere che oggi in tutto il mondo è penetrata in milioni e decine di milioni di uomini e di donne la convinzione che una distensione degli attuali rapporti internazionali è legata essenzialmente e starei per dire unicamente, nel momento presente, al fatto che fra Stati Uniti ed Unione Sovietica si venga ad uno scambio diretto di opinioni, per regolare le questioni che oggi compromettono i rapporti internazionali. Qual è in proposito la vostra opinione? Perché non avete detto in merito una parola al popolo italiano, che nella sua stragrande maggioran­za si augura che questo contatto abbia luogo e che da esso escano quei risultati benefici che se ne attendono i popoli d'Europa e del mondo intiero? Perché tacete a questo proposito? Non facciamo parte della Organizzazione delle nazioni unite - dice il ministro degli esteri - e quindi non abbiamo niente da dire. No, voi acquisterete un'autorità internazionale, voi farete sentire che l'Italia è degna e capace di sedere in un consesso internazionale, quando dimostrerete che avete una vostra politica, che siete in grado, per lo meno su questa questione della pace o della guerra, di avere una posizione nostra, nazionale, umana, senza legare, perfino su questo punto, la posizione vostra agli accordi che avete preso col governo dei guerrafondai che in questo momento diri­gono la politica americana.

   Non so se l'onorevole Sforza interverrà in questo dibattito. Egli ha però parlato anche troppo nel corso della campagna elettorale, sfor­zandosi di presentare e giustificare una politica che vorrei chiamare «europeistica», piuttosto che europea. Desidero usare questo termine perché l'Europa di cui egli parla è troppo simile a quell'Europa di cui parlarono i fascisti, ed è un'Europa che ha un curioso carattere: essa è come quella pelle di zigrino del romanzo di Balzac, che diventa sempre più piccola ad ogni trascorso del suo possessore. L'Europa dei fascisti e del conte Sforza diventa essa pure sempre più piccola, perché ad ogni movimento che scuote la compagine del capitalismo escono dalle sue frontiere quei paesi dove i lavoratori sono riusciti a prendere il potere spezzando il dominio dell'imperialismo, e dove essi avanzano, e con mezzi adeguati, con mezzi imposti da una situazione di tensione internazionale e di aperti interventi stranieri nella vita delle nazioni, come è avvenuto nella nostra lotta elettorale, difendono le loro con­quiste. Ripeto: sacrosanti sono i mezzi che questi popoli impiegano per consolidare e difendere il loro potere e noi dobbiamo salutare che questi mezzi vengano adottati! Così si difende la libertà!

   Geuna. Petkov, onorevole Togliatti!

   Togliatti. Ma sì, sto parlandole di Petkov.[2] Stia attento a quello che dico, e si risparmierà inutili interruzioni.

   Geuna. Ho fatto attenzione.

   Togliatti. La vostra Europa in pelle di zigrino diventa di fatto sempre più piccola.

   Bettiol. La nostra Europa è un continente; la vostra è una penisola dell'Asia, non soltanto materialmente, ma anche spiritualmente!

   Togliatti. Onorevole Bettiol, perché ci parla di Asia e di civiltà occidentale proprio lei che è di un partito il quale professa una religione che proviene precisamente dall'Oriente?

   Una voce a destra. Questo l'ha già detto Mussolini. Lei sta pla­giando il duce.

   Togliatti. Ma torniamo alle cose serie. Questo europeismo di marca particolare, quest'Europa in pelle di zigrino che diventa sempre più piccola quanto più si allarga il dominio della libertà e del socialismo, è una cosa molto singolare. Ci permetta, onorevole Sforza, di non cre­dere che la sua politica europeistica corrisponda agli interessi d'Italia, né alle aspirazioni del popolo italiano.

   Perché, poi, nelle dichiarazioni del presidente del consiglio non si parla dell'unione occidentale? Avete aderito ad essa, apertamente o segretamente? Intendete aderire? Qual è la vostra posizione relativa­mente a questo blocco che sempre più appare agli occhi di tutti come un blocco destinato a spaccare in due l'Europa, a fomentare i pericoli di un conflitto internazionale, a rendere più acuto il pericolo di una terza guerra mondiale?

   È di pochi giorni or sono la decisione delle potenze del blocco occidentale relativa alla Germania. Questa decisione, che tende a ren­dere permanente una scissione nel cuore dell'Europa, va contro tutti gli interessi della nazione italiana, sia economici che politici e storico-nazionali. Quando sarà stato ricostruito, infatti, un centro dell'industria pesante tedesca, questa diventerà inevitabilmente ancora una volta la base dell'organizzazione di un nuovo militarismo e di un nuovo imperia­lismo tedesco. Quando ciò sarà avvenuto e ancora una volta la minaccia dell'espansionismo tedesco incomberà sui popoli europei, è chiaro da qual parte dovrà collocarsi il popolo italiano, vittima predestinata di tutte le avventure imperialistiche della Germania. Il fascismo crollò appunto per non aver capito questa verità storica elementare. Il popolo italiano, tante volte straziato dalla barbarie teutonica, in tutti i momenti decisivi della sua storia ha dovuto battersi a morte contro gli invasori tedeschi. Ha diritto di pretendere che, per evitargli nuove sciagure, i suoi governanti sappiano schierarsi a tempo dalla parte di coloro che resistono alla rinascita di un militarismo e di un imperialismo tedeschi. Qual è in proposito la vostra posizione? Perché non la proclamate aper­tamente? Non vi danno la libertà di farlo coloro che vi hanno cosi generosamente soccorso di mezzi materiali per la vostra lotta elettora­le? Parlate!

   Forse per lo stesso motivo non osate parlare del problema delle nostre colonie, a proposito del quale state subendo l'umiliazione di do­ver comunicare agli italiani che quelle potenze a cui siete politicamente legati e venduti stanno seguendo una linea contraria alle rivendicazioni che voi stessi siete costretti ad affermare, perché sono condivise da una gran parte del popolo italiano. In pari tempo registrate a denti stretti l'adesione a un punto di vista nazionale italiano proprio di quei paesi contro i quali voi avete fatto scatenare prima del 18 aprile una odiosa campagna di calunnie, di diffamazioni, di menzogne, e contro cui di fatto siete schierati. È questa una politica nazionale? Non credo lo si possa affermare, e la stessa cosa risulta se si considera con freddezza e senso nazionale il modo come vi siete comportati a proposito della questione di Trieste.

   Nel corso della lotta elettorale è stata fatta dagli angloamericani la famosa proposta a riguardo di questa città. Sono andato a sfogliare nella stampa di altri paesi per conoscere esattamente l'origine di quella proposta. La stampa americana dice che il passo venne sollecitato dal governo italiano, ma poi aggiunge, con abbondanza di fantastici parti­colari, che la cosa venne fatta essenzialmente perché vi era un certo signor Pajetta il quale stava persuadendo il governo jugoslavo, anzi già lo aveva persuaso, a fare esso la proposta di ritorno di Trieste all'Italia. Il collega Giuliano Pajetta effettivamente era allora a Belgra­do, dove faceva il suo normale lavoro di redattore di un giornale di propaganda internazionale per la pace e la democrazia e non si occupava di tale questione. Gli americani però volevano evitare ad ogni costo che una proposta di revisione favorevole all'Italia dello Sta­tuto di Trieste venisse da parte jugoslava o da parte russa. Questo fu lo scopo della loro mossa. Vi ho già detto che nessuno di noi, allora, si occupava di questo; ritengo però che, se voi credevate che una simile probabilità esistesse, se voi credevate cioè ai vostri infor­matori americani che ve la davano come cosa sicura, voi dovevate pre­gare e scongiurare gli angloamericani affinché lasciassero che dall'altra parte venisse fatta l'offerta e così fosse superato quello che secondo voi sarebbe ostacolo insormontabile alla soluzione della questione trie­stina. Una posizione simile era la sola che avesse un contenuto nazio­nale. È prevalso invece in voi l'interesse gretto di partito su quell'inte­resse nazionale che deve portare il dirigente della politica estera di un paese a utilizzare tutto, anche la mossa giusta o falsa dell'avversario in politica interna, allo scopo di poter realizzare le aspirazioni e rivendi­cazioni nazionali. Anche a questo proposito voi non avete saputo fare una politica nazionale, e da tutta la vostra esposizione noi non ricaviamo dati sufficienti per conoscere quale sarà domani la politica estera del nostro paese, all'infuori di ciò che voi ci dite della vostra volontà di continuare a servire gli americani. Una cosa sola sappiamo dunque in concreto, ed è che vi siete legati in modo definitivo a quella grande potenza i cui dirigenti in questo momento fanno una politica che tende a fomentare un terzo conflitto mondiale. Basta questo fatto per con­cludere che vi è un contrasto profondo, non soltanto tra la vostra posi­zione e le necessità e le aspirazioni elementari del popolo italiano, ma vi è una contraddizione insuperabile fra la vostra posizione di politica estera e quella necessità di riforma delle strutture sociali del nostro paese, che richiede un lungo, permanente periodo di pace, affinché si possa fare in questo campo qualcosa di serio.

   Anche per questo lato constatiamo in voi una organica incapacità di comprendere che cosa bisogna fare per applicare la nuova Costitu­zione repubblicana, creando le condizioni in cui le trasformazioni previ­ste e imposte dalla Costituzione possano essere realizzate.

   E ora, quale potrà essere l'avvenire? Su una esasperazione di vio­lenze il fascismo non riuscì a costruire nulla di solido. Cosa volete costruire voi di permanente sopra una altrettanto grave esasperazione di terrore, di intimidazione, di corruzione? Dove vi porta, dove porta l'Italia questa vostra politica?

   Scusate se mi riferisco qui a episodi recenti della nostra vita par­lamentare, e precisamente al modo come si sono svolti finora in que­st'aula i nostri dibattiti, in cui tutti noi abbiamo sentito qualcosa di profondamente diverso, persino dal modo, che non fu sempre eccessiva­mente calmo e cordiale, con cui discutemmo nell'Assemblea costituente. Non faccio scandalo del tumulto di ieri, il quale non scandalizzerà nes­suno dei conoscitori della storia parlamentare d'Italia e di altri paesi; mi sorprende invece e mi riempie di angoscia il fatto che questo tumulto sia l'espressione di una scissione che è stata introdotta nel corpo della nazione italiana e particolarmente in seno a quelle forze democratiche le quali avrebbero potuto e dovuto collaborare per un intiero periodo storico all'opera di ricostruzione e di rinnovamento nazionale. Sta di fatto che in quest'aula noi sentiamo che esistono oggi due parti, di cui l'una è quasi sorda a quello che dice l'altra e viceversa. Questo è il riflesso di una situazione che voi avete voluto provocare...

   Dominedò. No!

   Togliatti. ... Sì, onorevole Dominedò, questa è la conseguenza ine­vitabile del fatto che avete voluto legare tutta la vita della nazione a una istanza di odio, di calunnia, di diffamazione e di scissione qual è l'anticomunismo. Cosa volete costruire su questo? Nulla di positivo, nulla di serio potrete costruire.

   Gravi, ritengo, saranno le conseguenze di questa situazione per il nostro paese, gravi per tutti noi, gravi soprattutto perché sentiamo esistere in voi il proposito di rendere permanente questo risultato. Per questo si accresce in noi l'angoscia per le sorti che voi preparate alla nazione italiana, poiché né la storia né la marcia in avanti delle masse lavoratrici riuscirete a fermare.

   Sappiamo che voi sopporterete le più gravi conseguenze del terri­bile delitto che avete commesso verso la nazione italiana impo­stando la lotta politica nel nostro paese come l'avete impostata in quest'anno 1948. Le conseguenze saranno per voi senza dubbio assai gravi, e questa volta, credo, non tarderanno nemmeno tanto. Guardate da quella parte (accenna ai banchi del MSI), se volete avere un ammo­nimento.

   Auguriamoci però che le conseguenze non siano troppo gravi per la nostra patria.

   E ora sento da tutte le parti rivolgere a questi banchi delle domande e avanzare consigli circa il modo come dovrebbe essere condotta e sviluppata la opposizione nel quadro del regime repubblicano, demo­cratico, parlamentare. Ho già detto altra volta che i consigli che vengono da fonti determinate, da coloro cioè che per vent'anni sono stati i servi della tirannide fascista, con disprezzo li respingiamo. Ritengo però che abbiamo l'obbligo di dire chiaramente a voi ed al paese cosa noi ci proponiamo di fare e perché ci comportiamo in questo modo. Il presi­dente del consiglio ha detto che l'opposizione ha tutto il diritto di criticare e di attaccare. Non avevamo bisogno che ce lo dicesse. È il nostro elementare diritto qui dentro, e per questo seguiremo a passo a passo la vostra attività, indicando le vostre pecche di minor rilievo come quella che avete commesso nella costituzione formale del governo e che avete creduto di poter sanare con 300 e tanti voti di maggioranza, e le altre più gravi. Ma questa è soltanto una parte e, direi, non è la parte essenziale della nostra attività come partito e movimento di opposizione. La parte sostanziale è che noi, fautori della Costituzione repubblicana, sentiamo di dover condurre e condurremo in modo con­seguente, senza nessuna transazione, l'azione e la lotta per la realizza­zione dei nuovi principi politici e sociali affermati nella Costituzione stessa. Per questo investiremo della nostra critica non soltanto la forma dei vostri atti ma la sostanza loro, in quanto la loro sostanza rivela l'impossibilità in cui voi avete messo il governo del paese - espressione di un blocco di forze conservatrici e reazionarie - di realizzare questi principi. Ma non basta: la nostra funzione principale è costruttiva, per­ché in questo campo a noi spetta, nelle condizioni nuove create dal 18 aprile, di continuare a organizzare e a dirigere la lotta delle masse lavoratrici delle città e delle campagne e degli intellettuali avanzati per la realizzazione delle necessarie riforme. Qui l'iniziativa sarà nostra. Questo sarà il nostro compito, e non ostruzionistico, ma costruttivo. Per questo renderemo più forte il Fronte delle forze democratiche, fa­remo ciò che è necessario per stringerlo, consolidarlo, chiamare ad esso nuove adesioni, non escludendo nessuna alleanza. Anche fra di voi forse un giorno vi saranno, spero, coloro i quali si avvedranno dei terribili errori che avete compiuto! Organizzare un grande movimento di masse in tutto il paese per la realizzazione dei nuovi principi della Costituzione: ecco il nostro compito, signori, non l'ostruzionismo. L'ostruzionismo in questo momento lo fate voi per il modo stesso come avete impostato la battaglia del 18 aprile, per il contenuto che avete dato alle vostre dichiarazioni, per il modo come ci dite di voler condurre la vostra attività di preparazione legislativa e di governo. Voi cercate con ogni mezzo di creare una barriera alla realizzazione delle riforme che il paese esige. Noi con ogni mezzo ci adopreremo perché ogni barriera sia superata, travolta. Con voi sono le forze della conservazione e della reazione. Con noi è già la parte più avanzata del popolo che ha voluto la Costituzione repubblicana e oggi ne esige la realizzazione. Con noi sarà domani tutta l'Italia!

Note

[1] Allude a Guglielmo Giannini, che non era stato rieletto alle elezioni del 18 aprile: migliore fortuna aveva avuto, sorprendentemente, la sorella Olga (in se­guito a una verifica dei voti Giannini sarebbe stato successivamente reintegrato nei suoi diritti).
[2] Capo del Partito contadino bulgaro, che l'anno innanzi era stato disciolto dalle autorità di quel paese. Petkov venne poi processato e condannato a morte.