Palmiro Togliatti

La polemica con Garaudy sull'VIII Congresso
e le "riforme di struttura"

Togliatti risponde su Rinascita (dicembre 1956) ai rilievi sull'VIII Congresso formulati dall'allora dirigente del PCF Roger Garaudy, che aveva assistito al Congresso, sulla rivista teorica del partito Cahiers du communisme. Da Il PCI e la svolta del 1956, pp.101-110


Inutile dire che sembra a noi del tutto normale il fatto che il compagno francese Garaudy, che fu presente all'VIII Congresso del nostro partito, dopo aver dato del congresso una netta valutazione positiva, ponga degli interrogativi e faccia osservazioni critiche. Siffatta pole­mica, che si sviluppa nel quadro di una reciproca fiducia e della persuasione che conduciamo una lotta comune contro un nemico comune e avendo in comune gli obiettivi fondamentali, non soltanto è possibile, ma è oggi utile e proficua. Essa non può che servire, infatti, a meglio elaborare le importanti questioni di metodo e di sostanza che stanno oggi davanti al movimento comuni­sta internazionale.

La prima osservazione che noi faremo, replicando al compagno G., sarà quindi relativa al metodo della di­scussione stessa. Il metodo da lui seguito nel formulare i suoi rilievi critici è tale, infatti, che non consente di scorgere la sostanza, cioè il vero contenuto delle que­stioni che il nostro congresso ha dibattute. Il metodo che egli segue consiste, essenzialmente, nell'isolare una affermazione, relativa a un problema di ordine generale, contrapporvi una posizione di principio, di solito riferita con la citazione di un classico e concludere, quindi, a un dubbio circa la piena esattezza e correttezza del primo enunciato. Il dubbio viene poi espresso, nella maggior parte dei casi, indicando il «rischio» che una determinata posizione sia fraintesa, il pericolo che essa crei illusioni le quali possano frenare il movimento e così via.

Di questo genere di obiezioni intendiamo liberarci subito, affermando perentoriamente che, secondo noi, non vi è nessuna politica la quale non sia legata a un determinato rischio, ma che il rischio più grave che un partito comunista possa correre ci sembra sia quello di starsene legato a certe affermazioni di principio, più o meno bene intese, e di non avere politica alcuna, cioè di non affrontare la realtà della situazione che sta davanti a lui con iniziative e proposte, e quindi con movimenti, che tendano a modificarla in senso favorevole alle aspira­zioni dei lavoratori e allo sviluppo di tutto il movimento che va verso il socialismo. I pericoli, le possibili dannose illusioni, ecc. devono essere conosciuti, senza dubbio, e superati sia con giuste impostazioni politiche, sia col necessario intreccio dell'azione politica con la propagan­da e con l'organizzazione, ma guai se soltanto perché scorgiamo certi rischi ci condannassimo a stare fermi.

Circa poi il metodo della citazione e contrapposizio­ne di affermazioni isolate, esso è certamente valido, ma soltanto se validamente viene intrecciato con l'esame delle situazioni reali, in relazione con le quali vengono posti determinati obiettivi di lavoro e di lotta. Le stesse affermazioni politiche generali fatte dai grandi maestri e classici del nostro movimento, debbono sempre essere considerate, per ben coglierne il senso, in relazione con la situazione concreta, se non si vuole perdere la giusta nozione della nostra dottrina come metodo e guida per l'azione, e non come somma di regole universalmente valide, ciò che essa non vuole essere e non è.

La linea elaborata dal nostro congresso né si può ridurre ad alcune proposizioni, del resto, e in particolare a quelle su cui si sofferma il compagno G., né si può seguendo questo metodo esattamente qualificarla. Que­sta linea, infatti, è prima di tutto la espressione di un grande movimento in sviluppo, e di uno sforzo molte­plice per adeguare l'azione dell'avanguardia comunista alla realtà nella quale questo movimento si compie. Non ci si può contentare di ricordare qua e là, di sfuggita, che il Partito comunista italiano è stato ed è alla testa di grandi azioni proletarie e popolari, e che oggi esso è, di conseguenza, il rappresentante di una notevole parte delle forze di classe e politiche che si muovono sulla scena italiana, senza approfondire, prima di tutto, que­sto stesso dato di fatto e spiegarlo. Perché il partito comunista ha avuto in Italia questo sviluppo? Lo ha avuto perché ha saputo decisamente abbandonare l'abito e il costume della pura associazione propagandistica, e stabilire con le masse lavoratrici un legame che, prima di essere organizzativo, è stato ed è politico, derivante cioè dal fatto che il partito ha saputo collocarsi e continua­mente lavora per collocarsi alla testa delle masse nelle lotte che in ogni momento si presentano, e il cui caratte­re è determinato non dalla volontà del partito stesso, ma prima di tutto dalle condizioni oggettive. Anche il Parti­to comunista francese si è sviluppato come un grande partito perché ha saputo, nei momenti decisivi della vita del paese, seguire questo metodo e tenere fede ad esso. Vi sono invece in Europa molti partiti comunisti che a un grande sviluppo non sono arrivati, sia perché si sono per lo più sempre accontentati della schematica ripeti­zione dei principi, sia perché, dopo avere trovato, - durante la guerra antifascista, per esempio, - la via di una lotta che li collegava con le masse popolari, dopo la guerra si sono lasciati di nuovo respingere sul vecchio binario puramente propagandistico. Ma un partito il quale sia riuscito, - come il nostro o come quello francese, - a imboccare la grande strada della lotta politica e diventarne uno degli elementi determinanti, si trova continuamente davanti alla necessità che la sua linea e la sua azione siano adeguate ai mutamenti che hanno luogo nella realtà, e che spesso sono conseguenza delle stesse azioni che in precedenza sono state condotte al successo. Il compagno G. sembra temere, per esem­pio, che l'orientamento verso le riforme di struttura, che non è solo dei comunisti, del resto, in Italia, ma di tutte o quasi tutte le forze che si collocano alla sinistra (anche dei radicali e, in parte, anche dei socialdemocratici), sia una specie di sostitutivo delle azioni rivendicative immediate. Se non si fosse limitato a un confronto e a un ragionamento sulle formule, ma fosse partito dall'esame della realtà avrebbe visto che l'Italia è stata negli ultimi anni e tuttora è (con tutta probabilità), il paese occiden­tale dove si sono avute le più numerose e le più ampie lotte per rivendicazioni economiche immediate. Si pensi che persino i magistrati, da noi, oltre che i professori e i funzionari dello Stato, hanno fatto sciopero! La rivendi­cazione delle riforme di struttura non è quindi un sosti­tutivo, ma una conseguenza e uno sviluppo delle lotte immediate. E così, analogamente ma in senso più largo, la politica che il nostro partito propone alla classe opera­ia e alla popolazione lavoratrice italiana, è conseguenza e sviluppo di tutto un complesso di lotte economiche e politiche, parlamentari e dirette (e persino armate!), di cui il partito comunista è stato uno degli animatori e che - con gli inevitabili alti e bassi, con i periodi di avanzata, di parziale ristagno e anche di parziale ritirata, alle volte, - ha investito tutti i problemi della struttura e organizzazione della società italiana, problemi econo­mici e politici, problemi di classe e nazionali ad un tempo. Se il compagno G. farà uno sforzo per collocarsi in questa prospettiva, allora gli apparirà chiaro il signifi­cato di molti elementi della nostra politica che tuttora gli sfuggono, del valore storico e politico della nostra Co­stituzione, per esempio, come punto di arrivo di una grande avanzata e formulazione programmatica per avanzate ulteriori. E molte altre cose gli appariranno chiare, ben più che da un semplice confronto di testi.

Chiarissimo avrebbe dovuto essergli, per esempio, che nell'esame della realtà il nostro congresso è partito dalle costatazioni che prima di tutto sono state fatte dal XX Congresso del PCUS, e relative alle conseguenze che per la strategia e la tattica dei partiti comunisti derivano dalla nuova situazione creatasi oggi nel mondo e nello stesso movimento operaio. E sono essenzialmen­te, come tutti ricordano, l'aprirsi di nuove prospettive per il passaggio dei paesi e delle nazioni al socialismo; la probabilità che queste vie di passaggio diventino sempre più varie; la non obbligatorietà che l'attuazione di queste forme sia connessa in tutti i casi con la guerra civile; la possibilità di passare al socialismo valendosi anche delle vie parlamentari; la possibilità di evitare le guerre, e così via. Il compagno G. non può avere dimenticato l'enun­ciazione di queste tesi fatta dal XX Congresso come risultato di uno sviluppo e di una esperienza collettivi. Sono queste tesi tuttora valide? Noi crediamo di sì, e il nostro congresso ha lavorato, in gran parte, alla luce di queste tesi, una parte delle quali, del resto, non risulta­vano estranee ad esperienze già da noi compiute.

Dopo il XX Congresso vi sono stati gli avvenimenti polacchi; vi sono stati i tragici fatti d'Ungheria; vi è stata l'aggressione all'Egitto; è in corso una grande offensiva dell'imperialismo per respingere il mondo verso la guer­ra fredda. Dobbiamo ritenere che questi fatti nuovi, presi assieme, ci debbano indurre a dichiarare che le affermazioni fatte dal XX Congresso non erano giuste, oppure che non sono più giuste data la situazione che si sta creando? Noi non siamo di questa opinione, né crediamo possa esserlo il compagno G. Semmai, è vero proprio il contrario. L'aggressione all'Egitto, per quanto sia stata compiuta in un momento di debolezza del movimento antimperialista nei paesi capitalistici, è falli­ta. Quei circoli imperialistici che tendevano a scatenare una nuova guerra non sono riusciti nella loro impresa criminale. Una delle tesi del XX Congresso ha ricevuto una evidente conferma.

Naturalmente, queste tesi non hanno mai voluto significare ciò che dice qualche opportunista, e cioè che è chiuso il periodo delle lotte di classe rivoluzionarie, ecc. ecc., e il nostro congresso si è ben guardato dal mettersi per questa strada. Queste tesi hanno invece bisogno di essere illustrate e comprese bene. Fummo noi per i primi, per esempio, che commentando sulla Pravda, appena finito il XX Congresso, l'affermazione che ci si può anche valere, per passare al socialismo, delle vie parlamentari, indicammo nel modo più chiaro quali sono le condizioni perché ciò possa avvenire. Compren­diamo però che a noi l'elaborare questa questione sia più facile che per i compagni francesi. Questi infatti, quando si trovarono di fronte alla legge che toglieva al Parla­mento la sua piena rappresentatività, non scatenarono contro questa legge una lotta di massa nemmeno da lontano paragonabile a quella che noi conducemmo con­tro la legge truffa. Anche grazie a quella lotta parlamen­tare ed extraparlamentare allo stesso tempo, il Parlamen­to ha acquistato in Italia una importanza assai grande anche agli occhi delle masse. E noi ne teniamo conto.

Ma come possiamo, rapidamente e in modo somma­rio, definire la situazione reale che sta davanti a noi in Italia e da cui il congresso è partito? Politicamente, un paese dove veramente la bandiera della libertà è passata nelle mani dei partiti della classe operaia e delle masse popolari, che hanno rovesciato il fascismo (con l'aiuto della nota situazione internazionale), hanno elaborato una Costituzione democratica di tipo politico e sociale molto avanzato, sono stati (in relazione con nuovi ele­menti internazionali) respinti dal potere, ma rimangono una forza tale che, nella popolazione politicamente atti­va, è la maggioranza, anche se non è la maggioranza del corpo elettorale. Economicamente, un paese dove il capitalismo è stato restaurato nell'interesse dei grandi gruppi monopolistici, che sono dominanti, mentre esi­stono forme avanzate di capitalismo di Stato. Un paese dove il progresso tecnico ed economico si accompagna a un aggravamento di contraddizioni interne assai acute (non vi è ancora stata né una rivoluzione né una riforma agraria, vi sono due milioni di disoccupati permanenti, vi sono estese zone di paurosa miseria, esistono squilibri impressionanti tra regione e regione, ecc., ecc.). A que­sto si deve aggiungere, per avere il quadro completo, che la stessa forza del movimento delle masse ha sinora impedito alle classi dominanti di coprire queste profon­de contraddizioni con un regime di aperta violenza reazionaria (di tipo fascista) e ha invece consigliato loro di preferire il regime democristiano, che copre il domi­nio borghese con una blanda maschera di pseudorifor­mismo sociale, accoppiato a un violento anticomunismo.

In questa situazione il partito comunista, per la stessa parte di direzione che ha avuto in tutte le prece­denti lotte, non può non presentarsi come un partito che ha un programma immediato di governo e chiede di partecipare alla attuazione di esso. Ma quale program­ma? Né di un governo che costruisca una società sociali­sta, né di un governo che si limiti alla funzione negativa di impedire sviluppi reazionari. Di un governo, cioè, che appoggiandosi a un forte movimento delle masse, realizzi una serie di riforme a favore dei lavoratori e del ceto medio, e dirette contro i grandi gruppi monopoli­stici. Qui sta tutto il problema delle forme transitorie di governo della società e del programma adeguato a queste forme transitorie, che è stato il problema del nostro congresso. Qui sta il nocciolo sfuggito all'attenzione del compagno G., di tutto il nostro dibattito sul problema dello Stato. Il tema attorno al quale lavoriamo è quindi analogo a quello che si pose, tra il 1934 e il 1939, nello sviluppo della lotta antifascista unitaria. Si tratta però di analogia, non di identità, e per questo usiamo termini diversi, anche a costo di non venire immediatamente compresi da chi continui a parlare solo nei termini di quella esperienza.

Ci viene però obiettato che le riforme antimonopoli­stiche che noi proponiamo non vanno, di per sé, a favore della classe operaia, che le nazionalizzazioni pos­sono andare a favore degli stessi capitalisti, ecc. Queste sono verità elementari, valide anche per misure riforma­trici di altro tipo, nell'agricoltura, per esempio. Quello che decide è il carattere del governo e del potere. Ma appunto per questo noi presentiamo questo programma di riforme come momento di una lotta per dare al paese una nuova direzione politica. Riforme di struttura e cambiamento della direzione politica sono due aspetti di una stessa lotta. Non vi è dubbio, che ponendo la questione delle riforme di struttura, la classe operaia valica i limiti della pura azione rivendicativa. Ma questo è nella logica della lotta di classe. La logica di questa lotta, sembra dire il compagno G., sta nella dimostra­zione pratica della verità delle leggi dell'impoverimento assoluto e relativo dei proletari in regime capitalistico. Quando gli operai saranno convinti di questa verità si ribelleranno al capitalismo e tutto sarà fatto. Noi non ragioniamo a questo modo! La lotta di classe degli operai per le loro rivendicazioni economiche e per le loro rivendicazioni politiche tende a fare ostacolo ed effettivamente fa ostacolo alla attuazione di quelle leggi del capitalismo, che sono, com'è noto, leggi di tenden­za. Da questo urto nascono sempre nuovi problemi e contraddizioni nuove, si determinano, nell'ambito delle leggi generali del capitalismo, nuovi sviluppi, nuove forme di organizzazione della produzione, nuove disci­pline di lavoro, e quindi, ancora una volta, nuove condi­zioni e nuovi obiettivi di tutto il movimento. Un esem­pio assai evidente si avrebbe se si facesse la storia della lotta per le otto ore, o se si esaminasse come si pone ora la questione della ulteriore riduzione dell'orario di lavo­ro. Costretto a cedere da una parte, il capitalismo ha cercato e cerca di rivalersi per altre vie e la lotta si è riaccesa e continuamente si riaccende su nuovi terreni.

Le riforme antimonopolistiche sono da noi intese come uno dei momenti di questa lotta e non come un toccasana. Esse offrono però veramente la possibilità di conquistare al proletariato, in una società capitalistica molto sviluppata e molto differenziata, nuove alleanze nel ceto medio, sia urbano che rurale. Questo ceto medio non ha una concezione moderna, eguale alla nostra, dello sviluppo economico? La cosa ci può anche lasciare indifferenti. La alleanza politica e la conquista ideologica sono due cose diverse, anche se la prima può e deve contribuire alla seconda. Non crediamo che i contadini russi, nel 1917, avessero una concezione molto moderna degli sviluppi dell'economia rurale. Unendoci a questi ceti nella lotta contro la forza capitalistica più aggressiva, egoistica e reazionaria, noi non facciamo però nessuna concessione sui principi, se dichiariamo che il piano economico di un governo socialista, in Italia, non potrà certo comprendere la nazionalizzazione delle migliaia e migliaia di aziende artigiane e di piccole imprese che ci sono nel nostro paese. Si è visto in Ungheria e in Polonia, dove si è arrivati, per aver fatto questa sciocchezza! L'alleanza della classe operaia con questo ceto medio produttivo può invece veramente consentire l'isolamento politico del grande capitale mo­nopolistico, una lotta efficace contro i suoi poteri e i privilegi e quindi la creazione di una situazione econo­mico-politica nuova, originale, in cui le grandi riforme di struttura di cui l'Italia ha bisogno e di cui hanno bisogno prima di tutto le classi lavoratrici possano essere realizzate.

Come si vede, noi non separiamo mai la lotta econo­mica da quella politica, la utilizzazione del Parlamento dalla azione delle masse, le riforme di struttura dalle lotte rivendicative. Grave errore sarebbe la separazione, ma altrettanto grave la contrapposizione, che viene fatta, invece, dal compagno G., per negare il valore di uno dei momenti di questo movimento complessivo. Egli è così tenace in questa contrapposizione che giunge a fare della difesa della libertà e della lotta rivoluzionaria della classe operaia due cose diverse. Si tratta di puro formalismo e di pedanteria. La classe operaia, in quanto fa propria la bandiera della libertà, adempie un compito rivoluziona­rio. Le forme della lotta saranno poi diverse a seconda delle situazioni. In Spagna e sui monti d'Italia abbiamo difeso la libertà col fucile. Abbiamo poi difeso la libertà con l'azione parlamentare e con gli scioperi contro la legge truffa. La difendiamo chiamando a votare per il partito comunista, contro i partiti dirigenti attuali.

E così ci pare che il compagno G. cada nel puro formalismo quando non ammette il nostro termine di via italiana verso il socialismo e vorrebbe parlassimo invece di fronte popolare. La nostra formula deriva anch'essa dalle tesi elaborate dal XX Congresso; è legata a una certa tradizione del nostro partito; ha inoltre quel tanto di contenuto generale che deve consentire di collegare ad essa quelle parole d'ordine che, nelle situazioni che si presenteranno, saranno le più giuste. Forse il compagno G. non ha pienamente afferrato che nel parlare di via italiana al socialismo noi non diamo una parola d'ordine (contrapporvi «fronte popolare» è veramente cosa un po' strana!), ma piuttosto vogliamo sottolineare sia il nostro obiettivo fondamentale, il socialismo, al quale tendiamo con tutta la nostra azione, sia il metodo no­stro, che consiste nell'avanzare verso il socialismo tenen­do esatto conto delle condizioni del nostro Paese, e adeguandoci sempre ad esse, nel quadro di un grande movimento internazionale

Non abbiamo risposto, con queste note affrettate, a tutte le osservazioni fatte dal compagno G., anche per­ché alcune di esse toccano questioni marginali. Avremo però ancora modo di ritornare, con scritti più circostan­ziati, su tutti i problemi che egli solleva. Sia ben chiaro che lo ringraziamo del contributo da lui dato al chiari­mento di così importanti questioni della politica comu­nista nel momento presente.