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Il PCI e la svolta del 1956

Introduzione di Giuseppe Chiarante all'opuscolo con lo stesso titolo,
pubblicato da
Rinascita nel dicembre 1986 in vista del XVII Congresso


1) Proseguendo nell'iniziativa di offrire ai propri let­tori, con la pubblicazione dei libri allegati alla rivista, una documentazione altrimenti difficilmente reperibile su questioni o momenti particolarmente significativi della storia politica e culturale del comunismo italiano, Rina­scita dedica questo volume a una raccolta di testi che costituiscono una fonte essenziale per intendere ciò che rappresentò, per il Pci, la svolta del 1956.

Le dimensioni del libro hanno consentito di ripubbli­care solo un numero molto limitato di scritti: la famosa intervista di Togliatti in risposta alle nove domande sullo stalinismo formulate dalla rivista Nuovi Argomenti nel numero del maggio-giugno 1956 (il testo fu pubblicato contemporaneamente anche su Rinascita); il rapporto del segretario del Pci all'VIII Congresso che si svolse a Roma ai primi di dicembre; la dichiarazione program­matica che fu approvata da quel congresso e che delineò la piattaforma della «via italiana al socialismo»; la pole­mica di Togliatti con Garaudy, che venne pubblicata da Rinascita del dicembre 1956 e che mise in luce le profon­de differenze - in particolare sui temi della democrazia, delle libertà politiche, delle riforme di struttura - tra la politica avviata dai comunisti italiani e quella dei comu­nisti francesi.

Sarebbe stato certamente interessante - se pratica­mente possibile - raccogliere in questo volume anche altri scritti di quell'anno travagliato e appassionante: basta ricordare, per limitarci a ciò che apparve su Rina­scita, il testo dell'intervento di Togliatti al XX Congres­so, la sua polemica con Onofri e l'editoriale di Giorgio Amendola in vista dell'VIII Congresso; oppure la rela­zione di Togliatti al Comitato centrale del 24 giugno, dedicata soprattutto a discutere i problemi posti dal XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica. E sarebbe anche di indubbio interesse - per intendere storicamente ciò che la svolta del '56 rappresentò per i comunisti italiani - riprendere alcuni dei più significati­vi scritti successivi: come «L'indimenticabile 1956» di Pietro Ingrao (testo di una lezione da lui svolta nel 1971 nel quadro di un seminario sulla storia del Pci, ripubbli­cata in Masse e potere nel 1977) o il saggio di Achille Occhetto «Dal 1956 al memoriale di Yalta», apparso sul primo numero di Critica marxista del 1976, oppure le numerose iniziative realizzate da Rinascita in occasione del ventesimo anniversario dell'VIII Congresso, fra le quali figura anche una importante intervista di Alessan­dro Natta («Un passo decisivo sulla via italiana al socia­lismo», Rinascita n. 44 del 5 novembre 1976).

Rinviamo queste pubblicazioni ad altra occasione. Ma va sottolineato, subito, che gli scritti raccolti in questo volume costituiscono pur nella loro essenzialità, una documentazione indispensabile e di fondamentale valore per comprendere i giganteschi problemi che nel '56 si posero ai comunisti italiani; e quali furono le principali scelte da essi compiute per uscire da quella stretta ed andare avanti, con rinnovato vigore, sulla strada di un'autonoma elaborazione ed iniziativa politica.

2) Rileggendo a trent'anni di distanza questi scritti, e in particolare l'intervista a Nuovi argomenti, si capiscono forse più facilmente di allora i motivi di fondo della «relativa freddezza» che Togliatti dimostrò nei confronti dei modi in cui si era realizzata la svolta del XX Congresso del Pcus e soprattutto verso il famoso «rappor­to segreto» di Krusciov. Di questa «freddezza» si è tornato a parlare nelle scorse settimane, anche sui giorna­li italiani, nelle numerose rievocazioni degli avvenimenti del XX Congresso. È facile ammettere che, nel determi­nare quell'atteggiamento di Togliatti, hanno certamente pesato anche alcuni dei fattori che nelle recenti rievoca­zioni sono stati maggiormente sottolineati: per esempio la particolare esperienza da lui compiuta come uno dei maggiori dirigenti dell'Internazionale comunista negli anni trenta oppure le preoccupazioni per l'impatto che la denuncia degli errori e dei crimini di Stalin - proprio per la maniera in cui era stata compiuta - avrebbe avuto sull'opinione pubblica occidentale. Ma rileggendo l'intervista coll'ottica di oggi appare più evidente qual'è la critica di fondo che spiega le riserve del segretario del Pci: essa è, in sostanza, che un'analisi delle distorsioni della società sovietica imperniata soltanto o quasi soltan­to sulla condanna del culto della personalità e sulla denuncia del potere assoluto di Stalin non solo era insuf­ficiente per comprendere nelle sue radici di fondo un fenomeno complesso come lo stalinismo, ma non consen­tiva di individuare i veri problemi che l'Urss aveva di fronte e rischiava perciò di compromettere già in parten­za il tentativo rinnovatore.

E infatti Togliatti non solo sottolinea nell'intervista, che «sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell'ambito del culto della personalità»; e non ne trae solamente la conseguenza che in tal modo «sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica potè giungere e giunse a certe forme di allonta­namento dalla via democratica e dalla legalità, e persino di degenerazione». Ma egli va decisamente oltre un'im­postazione che potrebbe ancora apparire prevalentemente metodologica (e rivolta soprattutto a comprendere meglio il passato) quando afferma che «non si sbaglia afferman­do che è dal partito che ebbero inizio le dannose limita­zioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione burocratica»; e quando sottoli­nea - con un vigore che anticipa di molti anni successive prese di posizione, su questo tema, dei comunisti italiani - che «la restrizione e in qualche caso perfino la scom­parsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una linea politica».

Ma ciò che più colpisce è il tono particolarmente aspro della polemica che Togliatti conduce - oggettivamente - con il gruppo dirigente del Pcus. A più riprese egli torna infatti sull'argomento che «tocca ai compagni sovietici» sviluppare un'analisi più approfondita di quella finora svolta, «affrontare» le questioni che da tale analisi emer­gono, «fornire gli elementi per una complessiva risposta». E quali fossero le «risposte» che il segretario del Pci considerava indispensabili, è bene messo in luce da questi brani che conviene riprendere integralmente: «Sino ad ora essi [i dirigenti sovietici] hanno sviluppato le critiche al culto della personalità soprattutto correggendo errati giudizi storici e politici su fatti e su persone; distruggendo miti e leggende creati a scopo di esaltazione di una sola persona. Questo va benissimo, ma non è tutto ciò che si deve attendere da loro. Ciò che oggi più importa è di rispondere giustamente, con un criterio marxista, alla domanda sul come gli errori oggi denunciati si siano intrecciati con lo sviluppo della società socialista, e quindi se nello sviluppo stesso di questa società non siano inter­venuti, a un certo momento, elementi di disturbo, sbagli di ordine generale, contro i quali tutto il campo del socialismo deve essere messo in guardia - e intendo dire tutti coloro che già stanno costruendo il socialismo secon­do una loro strada, e coloro che una loro strada stanno ancora ricercando. Si può essere senz'altro d'accordo che il problema centrale è della salvaguardia delle caratteri­stiche democratiche della società socialista, ma come si colleghino le questioni della democrazia politica e di quella economica, della democrazia interna e della fun­zione dirigente del partito con il funzionamento demo­cratico dello Stato, e come lo sbaglio intervenuto in uno di questi campi possa ripercuotersi su tutto il sistema - questo è ciò che bisogna studiare a fondo e chiarire».

In sostanza la posizione qui espressa da Togliatti è molto più radicale di quella di coloro che dalla svolta del XX Congresso si attendevano - talvolta persino un po' ingenuamente - l'avvio di un processo, contrastato ma inevitabile, di graduale liberalizzazione e democratizza­zione della società sovietica. Ciò che Togliatti avvertiva è che liberalizzazione e democratizzazione chiamavano in causa problemi ben più complessi della semplice de­nuncia degli errori e dei crimini di Stalin. Senza affron­tare esplicitamente tali problemi (che invece restavano ancora del tutto estranei alla linea kruscioviana) non si poteva in alcun modo giungere a quei risultati di rinno­vamento che da più parti venivano auspicati.

3) In realtà, se si ripensa a ciò che rappresentò per l'Urss il XX Congresso e alle vicende successive della società sovietica, il dato forse più sconvolgente è l'enorme distacco fra la carica esplosiva delle denunce contenute nell'impostazione kruscioviana (e in particolare nel «rap­porto segreto») e l'assenza, invece, di concrete indicazioni riformatrici che potessero dare effettiva risposta ai pro­blemi di fondo che in quelle denunce - sia pure in parte deformati attraverso la lente della critica al «culto della personalità» - era possibile intravedere. Nell'imposta­zione del XX Congresso erano perciò già implicite - ci sembra - le ragioni del fallimento della speranza che esso aveva alimentato; e quindi anche della successiva involuzione che doveva portare a quella lunga stagione di immobilismo che solo ora, coll'ascesa al potere del nuovo gruppo dirigente che fa capo a Gorbaciov, sembra essere stato interrotto.

E' per questo che le ripercussioni del Ventesimo furono forse più rilevanti all'esterno che all'interno dell'Unione Sovietica e degli altri paesi del Patto di Varsavia. Furono senza dubbio rilevanti sul piano della politica internazionale, per l'impulso che fu dato allo sviluppo di un clima di distensione, per il superamento della tesi dell'inevitabilità della guerra, per il riconosci­mento che fu dato ai ruoli dei paesi non allineati e dei movimenti di indipendenza e di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E fu importante l'affermazione - almeno in linea di principio - della piena autonomia di ciascun partito nell'elaborazione e nello sviluppo della propria politica.

In rapporto a tutti questi fatti - e ai successivi, drammatici avvenimenti, compresi i moti di Polonia e la tragedia di Ungheria - il 1956 fu, per il Partito comuni­sta italiano, un anno di prove molto difficili, ma anche di importanti revisioni e eccezionale avanzamento nello sviluppo della sua linea. Ciò dipese soprattutto dal fatto che i comunisti italiani, a causa dei caratteri concreti della politica da essi svolta a partire dal 1944-45 e anche a causa delle peculiarità della loro tradizione culturale, erano certamente meno impreparati di altri a intendere le novità del XX Congresso e, soprattutto, le potenzialità liberatrici che la messa in discussione comportava.

C'è un'osservazione di Natta, nella già citata intervi­sta a Rinascita del 5 novembre 1976, che conviene al riguardo riportare. Rileva infatti Natta che il vero nucleo fondante della costruzione del «partito nuovo» e dell'ela­borazione compiuta dal Pei nel 44-45 stava nella convin­zione che con la vittoria sul fascismo e sul nazismo «si era riaperto, in Italia e nell'Europa occidentale, il discorso sul socialismo, su un terreno strategico diverso da quello del '17». Quel nuovo discorso era stato interrotto, nel 47-48, dalla guerra fredda, e anche dall'irrigidimento dello stalinismo: il XX Congresso dava la possibilità di ripren­dere quel cammino ed anzi di portarlo avanti in modo più dispiegato e più esplicito, proprio perché riproponeva come centrale la questione del rapporto tra democrazia e socialismo e dava pieno riconoscimento di legittimità al «problema della diversità delle vie, delle forme del pote­re socialista, dell'autonomia e della responsabilità nazio­nale dei singoli partiti». Concludeva su questo punto Natta: «Non intende bene la svolta del '56 e il dato di originalità della politica che siamo venuti sviluppando chi non si rende conto della novità e della specificità della linea degli anni della Resistenza e della Liberazione, che è il retroterra storico della nostra strategia, nonostante gli errori, le resistenze, gli offuscamenti, le "doppiezze" che pur ci sono stati».

Ed infatti tutta la politica messa in atto dal Pci sotto la direzione di Togliatti, sin dal momento della costru­zione del «partito nuovo», si era imperniata - mettendo a frutto le riflessioni sulle ragioni della vittoria del fascismo negli anni fra le due guerre in Italia e in Europa e le nuove possibilità offerte dalle ampie alleanze realiz­zate negli anni della Resistenza - sulla ricerca di una strada di sviluppo democratico che consolidasse la demo­crazia in Italia e la arricchisse di quei contenuti di «socialità» che erano previsti dalla Costituzione repub­blicana. La «doppiezza», più volte denunciata anche da Togliatti, non discendeva solamente dalle riserve che settori del partito nutrivano rispetto a questa linea; ma stava soprattutto nel fatto che la linea concretamente praticata non poteva dispiegarsi compiutamente ed anzi era parzialmente contraddetta, sul piano ideologico, dai frequenti riferimenti al modello sovietico e alla dottrina del marxismo-leninismo così come era stata codificata nel periodo staliniano. Col XX Congresso non solo quel vincolo veniva meno; ma i problemi che esso portava alla luce circa la costruzione del socialismo e circa le contrad­dizioni della società sovietica erano un forte stimolo a procedere con più decisione e coraggio nella definizione di una strategia di avanzata democratica al socialismo che si fondasse sulla piena attuazione della nostra Costituzione e che fosse adeguata alle condizioni della società italiana e, più in generale, dell'Occidente europeo. Pren­de in tal modo più ampia consistenza la proposta di una «via italiana al socialismo», che è al centro così del rapporto di Togliatti come della Dichiarazione program­matica approvata dall'VIII Congresso.

4) Occorre tener presente, nel leggere questi testi, il contesto politico e culturale nel quale essi furono elabora­ti. Molte delle formulazioni in essi contenute appaiono, oggi, fortemente «datate»: ossia ancora legate a imposta­zioni che non hanno retto alla prova della storia e che il nostro partito ha, perciò, da tempo superato. Sarebbe del tutto assurdo, quindi, interpretare in termini «continuistici» il nesso tra il significato che ebbe per il Pci la svolta del 1956 e gli approdi più recenti della nostra elaborazio­ne culturale e politica: a determinare questi approdi hanno contribuito anche eventi di carattere traumatico intervenuti nel corso di questo trentennio, come la pro­fonda spaccatura fra gli Stati del cosiddetto «campo socialista» e in particolare tra Cina e Urss, la crisi delle società di «socialismo reale» messa particolarmente in evidenza dai fatti di Cecoslovacchia e di Polonia, l'evo­luzione delle società capitalistiche prima con l'ascesa e poi con l'esaurimento delle esperienze di «Stato sociale», l'accentuarsi dei caratteri di politica di potenza nella contrapposizione fra i due blocchi, l'inasprimento delle contraddizioni fra il Nord e il Sud del mondo. Questo carattere fortemente «datato» è per certi aspetti più evidente - forse proprio per l'ambizione di offrire una trattazione sistematica delle posizioni del Pei - nella Dichiarazione programmatica che negli scritti di Togliat­ti. Nella Dichiarazione, nel complesso, il vecchio prevale ancora sul nuovo: ciò è evidente, in particolare, nel carattere accentuatamente schematico, unilaterale e ri­duttivo dell'analisi che viene tracciata così del capitalismo come del socialismo. Ma anche negli scritti di To­gliatti permangono - oltre ad accentuazioni che hanno, palesemente, un significato polemico o propagandistico - alcuni concetti di fondo che successivamente abbiamo criticato e abbandonato: per esempio l'idea di un «campo socialista» come un tutto certamente articolato (anzi «policentrico», come si ipotizza nella parte finale dell'in­tervista a Nuovi Argomenti) ma ancora sostanzialmente unitario; oppure la convinzione della superiorità «di principio» delle «società socialiste» già realizzate, nono­stante le loro distorsioni e contraddizioni, rispetto alle società democratiche occidentali; o, ancora, la sbrigativa sottovalutazione delle esperienze delle socialdemocrazie.

Bisognerebbe tuttavia risalire all'atmosfera del 1956 per intendere appieno il valore di novità e di rottura che avevano, pur con i limiti qui brevemente richiamati, le formulazioni più innovatrici contenute nei testi raccolti in questo volume. Si tratta, da un lato, di formulazioni di principio che riguardano il legame tra democrazia e socialismo e si riferiscono, più concretamente, alle libertà politiche, alle conquiste democratiche sancite dalla Costi­tuzione, alla pluralità dei partiti, al ruolo del Parlamen­to, alla possibilità di avanzare verso il socialismo attra­verso «riforme di struttura» che modifichino progressiva­mente la realtà economica e sociale del paese. Si tratta, d'altra parte, della delineazione di una strategia di lotta che, muovendo da un'analisi aggiornata della composi­zione sociale del paese, indicava in una più vasta allean­za tra la classe operaia e i ceti medi intellettuali e produttivi e nella ricerca del massimo di unità fra le grandi forze popolari di orientamento comunista, sociali­sta e cattolico, la strada maestra per andare avanti verso una piena attuazione della Costituzione e per dare così le basi per una trasformazione della società italiana «in senso democratico e socialista».

Ma il valore di quella svolta si intende, soprattutto, se si guarda alle sue conseguenze sul piano interno e su quello internazionale. Nella realtà italiana, essa consentì al Partito comunista non solo di respingere l'offensiva che - facendo leva sia sulle conseguenze della ristrutturazio­ne capitalistica in atto sia sui problemi aperti nella sini­stra dalla denuncia dello stalinismo - tendeva a isolarlo e a porlo in crisi; ma gli consentì altresì di dare avvio a un profondo rinnovamento della sua politica, della sua cultura, della sua presenza sociale, caratterizzando sem­pre più il suo ruolo nella società italiana come quello di una grande e moderna forza democratica e riformatrice.

Sul piano internazionale, il modo in cui il Pci rispon­deva ai problemi aperti dagli avvenimenti del 1956 accentuava l'autonomia e l'originalità della sua elabora­zione e della sua iniziativa politica. La prima conseguen­za è l'esplicito esplodere di una polemica tra comunisti italiani e francesi, che si manifesta nella critica rivolta da Roger Garaudy, sui Cahiers du communisme, alle posizioni dell'VIII Congresso e nella chiara risposta pubbli­cata da Togliatti su Rinascita. La polemica riguarda alcune scelte di importanza fondamentale: il valore delle libertà politiche, la possibilità di una «via democratica» al socialismo, il ruolo del parlamento, la strategia delle riforme di struttura.

Questa discussione tra Pci e Pcf consente di intendere meglio la portata delle novità contenute nelle prese di posizione dei comunisti italiani. Non si tratta - già lo si è detto - di stabilire tra oggi e allora un rapporto di «continuismo», che rappresenterebbe un'arbitraria forza­tura e non terrebbe conto di tanti altri fatti. Troppe cose sono cambiate, nel corso di questo trentennio. Ma non v'è dubbio che non è un caso se il partito che reagì ai problemi posti dal XX Congresso sviluppando in modo più dispiegato l'elaborazione della via italiana al sociali­smo, è poi andato avanti arricchendo, con il Memoriale di Yalta di Palmiro Togliatti, la riflessione sul legame tra democrazia e socialismo; giungendo, con Enrico Berlin­guer, all'affermazione del valore universale della demo­crazia politica e della necessità di una «terza fase» dopo quella del socialismo reale e del compromesso storico; per arrivare infine alla formulazione, contenuta nel progetto di tesi per il XVII Congresso, che «il Pci è parte inte­grante della sinistra europea. Lo è con la sua peculiare fisionomia che abbiamo costruito in questi anni, con la sua piena autonomia internazionale, con la sua scelta irreversibile di un socialismo fondato sul pieno dispiegarsi della democrazia e della libertà». E non è un caso, anche, se questo partito ha saputo liberarsi da schematismi e dogmatismi, approfondire l'analisi della realtà in cui opera, consolidare ed estendere la sua presenza nella società italiana: sino a proporsi - come oggi fa - come fondamentale forza di alternativa per un rinnovamento del governo del paese.

Niente «continuismi», dunque. Ma la consapevolezza del rapporto che intercorre tra la ricerca di allora e quella di oggi è invece senza dubbio necessaria.

Giuseppe Chiarante