ANSCHLUSS
L'ANNESSIONE

La distruzione dell'economia della RDT

"Anschluss, l'annessione: l'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa" è il titolo di un libro di Vladimiro Giacché (Imprimatur, Reggio Emilia 2013) , che racconta in dettaglio come la riunificazione delle due Germanie, ma in realtà l'annessione pura e semplice della RDT da parte della RFT abbia comportato "la quasi completa deinsustrializzazione della Germania orientale, la perdita di milioni di posti di lavoro e un'emigrazione di massa verso ovest che perdura tuttora spopolando intere città". Gli strumenti attraverso i quali è stata realizzata questa spoliazione sono significativi anche per la storia della UE dopo il trattato di Maastricht e la moneta unica. Riprendiamo dalle conclusioni di Vladimiro Giacché le pagine 253-263.


L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa

La storia che abbiamo raccontato in queste pa­gine è la storia di un'annessione. Il concetto di «annessione» è un concetto imbarazzante in Ger­mania. Perché il termine che esprime più diretta­mente questo concetto è «Anschluss», e con questo termine fu designata, e si designa storicamente, l'annessione dell'Austria al Terzo Reich di Hit­ler avvenuta nel 1938 (i nazisti all'epoca in verità parlarono anche di «riunificazione»).

Per questo motivo il termine è stato accurata­mente evitato da chi desiderava portare rapida­mente a compimento il processo, e viceversa ado­perato polemicamente da chi lo osteggiava. «La parola annessione - ricordò anni dopo Gerhard Haller, della Cdu - era tabù, perché si temeva che con vocaboli del genere si sarebbe gravemente pregiudicata la voglia di cambiamento nella Rdt» (Haller in Waigel/Schell 1994: 149). Il gruppo parlamentare di «Bündnis 90» alla Volkskammer - che sosteneva l'unificazione attraverso l'art.146 della Legge fondamentale della Rft e con una nuova Costituzione, e non attraverso l'art. 23 e il semplice recepimento dell'ordinamento della Germania Federale nel territorio della Rdt - fece non a caso la sua battaglia sotto lo slogan: «Art. 23: no all'annessione con questo numero!»

L'annessione invece si realizzò, e rapidamen­te. A differenza di quella del 1938 - e non si trat­ta di un dettaglio - l'annessione del 1990 non è avvenuta per mezzo di un esercito d'invasione, ma con il consenso almeno indiretto della popo­lazione, che aveva eletto partiti e parlamentari in maggioranza favorevoli a questa soluzione. In compenso, dal punto di vista dell'ordinamen­to giuridico essa è stata più radicale: se infatti la Germania hitleriana aveva apportato alle leggi austriache soltanto alcune modifiche (benché assai rilevanti: tra le altre, l'introduzione nell'or­dinamento austriaco delle odiose leggi razziali e dei reati di alto tradimento e di tradimento della patria), alla Rdt è stato semplicemente e total­mente esteso il diritto della Germania Federale (Buchholz 2009:116-119).

Del resto, Schäuble - che pure, in un'intervista a «Der Spiegel» pubblicata il 19 marzo 1990, ave­va parlato dell'«annessione» come di un «concet­to fuori luogo» - fu molto chiaro sul punto du­rante le trattative con la delegazione della Rdt: «Cari signori, si tratta di un ingresso della Rdt nella Repubblica Federale, e non del contrario... Non si tratta di un'unione tra pari di due Stati» (Schäuble 1991: 131). E come abbiamo visto la negazione a posteriori dell'esistenza stessa come Stato della Rdt fu sostenuta autorevolmente e la necessità di «delegittimare la Rdt» fu espressa nientemeno che dal ministro della giustizia della Repubblica Federale, Klaus Kinkel.

Anche per questo appare privo di fondamento lo scandalo che fu sollevato quando, nel venten­nale del 1990, il presidente del Brandeburgo, il socialdemocratico Mathias Platzeck, si permise di dire: «Allora si spinse per una rapida annes­sione anziché per un'unificazione tra pari... Que­sto "atteggiamento annessionistico" è responsa­bile di molti sconvolgimenti sociali all'Est dopo il 1990» (Platzeck 2010: 42). Si tratta di parole che descrivono con precisione ciò che accadde.

Il capitalismo reale al lavoro

Cosa può insegnare, oggi, la storia di questa an­nessione? Molte cose. Essa offre in primo luogo uno spaccato del funzionamento del capitalismo - del capitalismo reale, non quello delle teorie del­la concorrenza perfetta che viene insegnato nelle scuole di management - in uno dei Paesi più avan­zati del mondo e in condizioni ideali: ossia con la reale possibilità di prendere rapidamente e com­pletamente possesso di un nuovo territorio, senza alcun vincolo se non quello derivante dall'applica­zione delle proprie regole, interpretate dai propri giudici e organismi di controllo, e con il maggiore sostegno possibile da parte dei propri gruppi di pressione e dei partiti politici di riferimento.

La realtà che emerge è per certi versi sorpren­dentemente lontana dall'immagine, assai diffusa anche nel nostro paese, di un capitalismo tedesco ossessivamente ligio alle procedure e rispettoso delle regole, rigoroso e ottemperante alle norme, con un'attitudine alla trasparenza sconosciuta alle nostre latitudini.

Nelle pagine che precedono, in effetti, si è visto qualcosa di diverso: privatizzazioni su enorme scala condotte in dispregio di tutte le più ele­mentari regole per privatizzazioni ben fatte, a cominciare dal rifiuto del meccanismo dell'asta a beneficio del meccanismo della trattativa pri­vata; potenziali acquirenti di imprese di grandi dimensioni di cui non si verificava né la fedina penale né le attività svolte in precedenza; la ri­petuta complicità dell'ente privatizzatore con gli acquirenti tedesco-occidentali nello scoraggiare investitori esteri; funzionari incapaci, in conflitto d'interesse o collusi con gli acquirenti; una tota­le copertura sia finanziaria che legale per il loro operato da parte dello Stato, ma nessun controllo efficace; atti segretati senza alcun valido motivo; truffe su larga scala; e, dulcis in fundo, una giu­stizia singolarmente benevola nei confronti di colpevoli di sperpero del danaro pubblico e di malversazioni su vasta scala.

Quanto agli effetti delle privatizzazioni, essi sono stati invariabilmente un rafforzamento del potere di oligopolio delle grandi imprese dell'O­vest, che sono riuscite a eliminare concorrenti reali o potenziali, a ottenere che fosse distrutta altrove capacità produttiva così da poter utilizza­re in pieno ed eventualmente accrescere (preferi­bilmente all'Ovest) la propria, e nel migliore dei casi a trasformare imprese indipendenti in loro succursali operative e centri di assemblaggio di prodotti. A differenza di quanto viene insegnato nei manuali, questa guerra tra capitali non ha vi­sto sempre soccombere il meno adatto e il meno competitivo (del resto, a fronte della rivalutazio­ne in una notte dei prezzi dei prodotti tedesco-orientali del 350 per cento, il concetto stesso di competitività diventa una barzelletta), ma, come abbiamo potuto osservare, in alcuni casi ha visto al contrario l'eliminazione del prodotto miglio­re da parte di quello peggiore. I casi di Foron e delle miniere di potassio della Turingia sono em­blematici da questo punto di vista. Anche questo è molto istruttivo, perché riconduce a una verità banale quanto spesso dimenticata: le guerre eco­nomiche che si combattono tra imprese, al pari di quelle guerreggiate tra Stati, sono guerre senza quartiere vinte dal più forte.

Da un punto di vista sistemico, il risultato delle privatizzazioni delle imprese della Germania Est (più precisamente: dell'intera economia di quel Paese) è consistito in una gigantesca distruzione di valore: svalorizzazione e distruzione fisica di capitale fisso e svalorizzazione di capitale umano. La misura stessa in cui essa si è consumata (900 miliardi di marchi di valore, cui vanno aggiunte le successive spese sostenute dallo Stato per il so­stegno al reddito di milioni di disoccupati e pre­pensionati) impedisce di ascriverla alla «distru­zione creatrice» teorizzata da Schumpeter. Quan­to è successo all'Est non è infatti rubricabile né come un fenomeno di consolidamento industria­le, né come l'abbandono selettivo di vecchi rami della produzione a favore dello sviluppo di bran­che più moderne o dotate di un vantaggio tecno­logico. È, più semplicemente, deindustrializza­zione su una scala sconosciuta sinora in Europa. Sono i fatti a dimostrare che, a quasi un quarto di secolo da quando questo processo è avvenu­to, nulla di economicamente comparabile è cre­sciuto dalle rovine di quanto era stato distrutto. E che, per conseguenza, un paese in precedenza in grado di autosostenersi è finito per dipendere, e in misura inusitata, dalle sovvenzioni dell'Ovest. L'entità stessa della distruzione di capacità indu­striale della Germania Est ne favorisce il confron­to con episodi di distruzione bellica. Resta il fatto che, se dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale il prodotto aveva impiegato soltanto 5 anni per tornare ai livelli precedenti il conflitto (e questo nonostante le onerosissime riparazioni di guerra), il livello del 1989 non era stato raggiunto neppure dopo 10 anni, e anzi era ancora lontano (Wenzel 2003: 25).

Tra le lezioni impartite da questa vicenda vi è quindi senza dubbio il valore strategico, il carat­tere assolutamente prioritario della difesa e del mantenimento della capacità e della produzione industriale: non è un aspetto di poco conto né di scarsa attualità se consideriamo che il nostro pae­se, dall'inizio della crisi tuttora in corso, ha perso quasi un quarto della propria produzione indu­striale. Siamo per fortuna lontani dalla ex Rdt del 1991 e dal suo incredibile -67 per cento rispetto al 1989. Ma siamo già, e da tempo, ben oltre la soglia di un rischio accettabile. L'altra lezione, di carattere più generale, è che la distruzione di ca­pitale non è sempre razionale dal punto di vista macroeconomico: c'è infatti un livello di distru­zione di capitale oltre il quale l'accumulazione, anziché riavviarsi più rapida, semplicemente non trova più le basi materiali per ripartire.

Altri aspetti di quanto abbiamo esaminato ri­cordano vicende molto più recenti. Il privilegio attribuito alle banche rispetto ai debitori nella vicenda dei «vecchi debiti», e più in generale la generosità delle loro modalità di privatizzazione (cessione a prezzo di occasione di banche con un portafoglio crediti ingentissimo, per giunta con copertura pubblica sui crediti inesigibili), rappre­senta senz'altro il più rilevante sostegno pubbli­co alle banche della Repubblica Federale prima della crisi del 2008/09. Il denaro speso o impe­gnato dal governo tedesco per salvare banche e assicurazioni durante la crisi di questi ultimi anni ammonta alla cifra strabiliante di 646 mi­liardi di euro, una cifra superiore a quanto spe­so per salvare le banche dal governo degli Stati Uniti (Frühauf 2013). Ma si tratta almeno di un sostegno che, a differenza dei generosi aiuti alle banche tedesco-occidentali dei primi anni No­vanta, è in qualche modo giustificabile in base a motivazioni di emergenza.

L'aspetto in comune tra i due episodi consiste nel fatto che in entrambi i casi si è avuta una gi­gantesca socializzazione delle perdite, avvenuta marginalizzando il ruolo del parlamento e attri­buendo un ruolo spropositato ad agenzie e istitu­zioni «tecnocratiche», la cui accountability, a sua volta, è stata decisamente insufficiente (Laabs 2012: 343). Nel caso della Treuhand, l'istituzione che ha privatizzato o liquidato l'intera economia della Germania Est, molti atti sono stati sottratti anche alla commissione d'inchiesta parlamenta­re, e saranno accessibili soltanto dal 2050. Questo legittima il sospetto che oggi i peggiori nemici della «società aperta» si trovino al suo interno, e più precisamente alla sua guida.

Dall'unità monetaria tedesca all'unità monetaria europea

Già gli aspetti che abbiamo ricordato fanno ca­pire che la storia della fine della Rdt è anche la nostra storia. Il modo di funzionamento del capitalismo tedesco-occidentale impegnato in questa operazione non è lontano da forme di capitali­smo a noi più vicine nel tempo e nello spazio. Ma per altri aspetti, e fondamentali, della nostra vita economica attuale, il rapporto non è di vicinan­za bensì di causazione. La configurazione attuale del capitalismo europeo e dei rapporti di forza interni a esso è semplicemente impensabile sen­za l'annessione della Rdt. Per diversi motivi.

Il primo motivo è che grazie all'incorporazione dell'ex Rdt la Germania ha riconquistato la centrali­tà geopolitica (e geoeconomica) nel continente europeo che aveva perduto nel 1945 con l'esito catastrofi­co della guerra di Hitler. E questa riconquista ha alterato gli equilibri in Europa.

Il secondo motivo è il legame tra l'unità tedesca e l'Unione Europea. Si tratta di un rapporto com­plesso e per certi versi contraddittorio.

Da un lato, infatti, l'unità tedesca ha rappre­sentato un formidabile acceleratore del proces­so d'integrazione europea. Il 4 ottobre 1990, non erano passate neppure 24 ore dalla solenne pro­clamazione dell'unità tedesca e già il consiglie­re del presidente francese Mitterrand, Jacques Attali, annotava sul suo diario la decisione del presidente di «stemperare» la Germania nell'U­nione politica dell'Europa (Baale 2008: 280). Il pegno che la Germania avrebbe pagato per la propria unità riconquistata sarebbe stata l'in­tegrazione europea, in cui la Germania stessa avrebbe potuto essere imbrigliata. La stessa moneta unica europea era concepita come un tas­sello di questo disegno.

D'altra parte, proprio l'unità tedesca e le sue conseguenze hanno in realtà rallentato l'integra­zione europea, e in particolare l'unione moneta­ria. Sono infatti gli alti tassi d'interesse imposti all'Europa dalla Germania (per poter attrarre più capitali e finanziare l'unificazione) a causare, nel 1992, la brusca uscita della lira (e della sterlina inglese) dal sistema monetario europeo.

L'operazione euro è poi andata in porto, ma ha avuto effetti contrari a quelli sperati dal go­verno francese: la Banca Centrale Europea è di­ventata una sorta di Bundesbank continentale, e l'ortodossia neoliberale (e mercantilista) tedesca si è imposta in tutta l'Europa. Inoltre con l'euro la Germania ha potuto giovarsi della rigidità del cambio, che ha impedito che i Paesi meno com­petitivi potessero recuperare competitività attra­verso svalutazioni della loro moneta.

Con questo siamo arrivati a ciò che probabil­mente rappresenta il motivo principale di interes­se attuale delle vicende dell'unificazione tedesca: caratteristiche e conseguenze del vincolo valuta­rio. Se c'è una cosa che la storia dell'annessione della Germania Est mostra con chiarezza, questa è la forza del vincolo monetario, e la sua potenza fon-dativa anche dal punto di vista dell'unione politi­ca. La Germania politicamente unita nasce infatti il giorno stesso della raggiunta unione monetaria. Il vero trattato che unifica la Germania è quello entrato in vigore il 1° luglio del 1990 con l'unione monetaria: il secondo trattato, quello che ha dato il via all'unione politica il 3 ottobre dello stesso anno, ne è stata una pura e semplice conseguen­za, non per caso assai ravvicinata anche in termi­ni temporali. Non è vero, insomma, che l'unione monetaria sia un'unione debole, come spesso si sente dire («in Europa c'è solo l'euro, manca l'u­nione politica»). E' vero il contrario.