Dario Lanzardo

La rivolta di Piazza Statuto

Torino, luglio 1962

Da Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto, Feltrinelli, Milano, 1979, parte seconda, "La memoria di parte, Gli antefatti", pp. 95-100


Dal febbraio al giugno '62 alla Fiat


  Già nell'autunno del '61 ci sono in alcune sezioni della Fiat fermate spontanee contro tempi, ritmi, orario di lavoro, sistema di comando dei capi, politica repres­siva e discriminatoria dell'azienda. Sono iniziative molto isolate - ma stimolate e attentamente seguite da Fiom e Fim - che trovano fatica a collegarsi fra loro e a generalizzarsi. Il 2 febbraio c'è una fermata nel nuovo stabilimento Spa-Stura dove la direzione, approfittando della ristrutturazione tecnologica, ha tagliato i tempi al limite del sopportabile e tenta anche qui di prolungare l'orario di lavoro. Notevole tensione c'è pure in altre offi­cine di Mirafiori (soprattutto le "ausiliarie" e le "fon­derie") e di Lingotto e la Fiom tenta il "colpo grosso" dichiarando sciopero in tutta la Fiat.

   Non riesce - salvo una fermata di alcune ore degli elettricisti delle "ausiliarie" - e l'organizzazione sinda­cale torinese è criticata dallo stesso Togliatti che ne accusa i dirigenti di massimalismo e scarso senso della realtà... "non basta dichiarare gli scioperi, bisogna anche farli riuscire". A maggio cominciano i "preparativi" per l'avvio della vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici; a Roma non si prevede la partecipazione della Fiat, ma a Torino "la pentola bolle". Ma seguiamo il resoconto di alcuni attenti os­servatori. [1]

   "La prima giornata di lotta nazionale dei metalmec­canici è fatta, alla Fiat, dai 100.000 operai delle altre fabbriche che scioperano. Gli operai della Fiat attraver­sano Torino in sciopero sui tram deserti, gli altri operai li insultano, lanciano contro di loro pezzi di pane e monetine. Davanti alle sezioni trovano gli operai delle altre fabbriche che già sapevano che la loro lotta si sarebbe risolta tra questi 93.000 'conigli', ed erano stufi di fare la pappa per loro". Sin dal mattino questi ope­rai sono davanti ai cancelli per insultarli, senza mezzi termini e senza falsi richiami di solidarietà per questa "massa di molluschi".

   Poi alla sera, tornando dal lavoro nei borghi e nei paesi-dormitorio, gli operai Fiat trovano gli operai che hanno scioperato e si formano dei gruppi e delle discus­sioni. Se c'era un'avanguardia nella Fiat, che era stata ricomposta dalle lotte precedenti, interne ed esterne alla Fiat, e dalla pressione del capitale, è questa che viene colpita questo primo giorno di sciopero, spinta a porsi il problema del momento generale della lotta operaia e dell'occasione per spezzare definitivamente l'isolamento nei confronti di Valletta e dei capi. È que­sta minoranza che, tornata in fabbrica, nello spazio di tempo tra il 13 e il 19, organizza lo sciopero dei 7.000.

   Dal primo giorno si verifica quel che è la costante più importante dell'azione operaia alla Fiat, il picchet­taggio, che in questa prima giornata di sciopero va visto come picchettaggio generale, diretto e indiretto, degli altri operai di Torino verso la Fiat, di tutta la massa operaia della città sugli operai Fiat che entrano in massa a lavorare.

   Da essi direttamente gli operai Fiat apprenderanno questa forma di disciplina, iniziativa ed organizzazione operaia all'esterno della fabbrica. Prendiamo, ad esempio, la testimonianza di un ope­raio della Spa:


Siamo entrati, ma a mezzogiorno siamo andati a man­giare nel cortile, col baracchino. Fuori dei cancelli c'erano due compagni che avevano scioperato. Si sono fermati lì tutto il giorno. Li abbiamo sentiti gridare contro di noi. "Le 40 ore, la grana, come volete ottenerli? Quando vi muo­vete?" Ci siamo avvicinati ed abbiamo parlato. Avevamo l'intenzione di fermarci fuori, ma non ne abbiamo avuto il coraggio. Ma se la prossima volta ci sarà più gente ai cancelli, siamo decisi a farlo. Per tutto il pomeriggio ab­biamo discusso come essere di più ai cancelli la prossima volta. Il nostro è un reparto lontano, non conosciamo i membri di CI, salvo uno che ha girato anche da noi per­ché faceva un'inchiesta sulle macchine.

Dunque dovevamo essere noi della squadra a fermar­ci ai cancelli. Era chiaro. Io sono l'elemento più deciso del­la squadra, per questo sono anche puntato dal capo. La mattina ero stato con la testa bassa. Mi era penato en­trare. Ho cominciato immediatamente a portare la discus­sione nella squadra. E cosi si è trasmessa la discussione a tutto il reparto. Più in là altri l'hanno ripresa. Il martedi il picchetto l'abbiamo fatto noi, la massima parte è stata fuori...


Il 19 giugno le avanguardie scioperano. È lo sciopero dei 7.000! Esso si registra alla Spa di Stura, alle Fon­derie, alle Ausiliarie, alla Lingotto, all'Avio e all'Aero­nautica, alle Ferriere.

   Altrettanti operai scioperano all'interno della fabbri­ca. All'esterno la necessità di esperire direttamente nel­l'azione l'iniziativa operaia e di collegarsi si concreta nell'organizzazione del picchettaggio, nel controllo dei cartellini dei nuovi assunti e nella decisione operaia su chi può entrare e chi no; nello scambio di nuclei operai da una sezione all'altra e tra fabbriche e fabbriche.

   Lo sciopero segue, nelle percentuali e nelle forme di organizzazione, il processo di ricomposizione avve­nuto all'interno e ne registra le difficoltà ancora aperte. Alla Spa gli operai fanno una gran massa attorno ai giovani "attivisti sindacali" che tutta la fabbrica rico­nosce come veri rappresentanti operai.

   Alle Ausiliarie il collegamento è avvenuto in misura più limitata, i giovani picchettano reparto per reparto e squadra per squadra, il fatto più notevole è che l'officina 1 sciopera in questa maniera. Da questi fatti nasce la pressione interna che porterà allo sciopero dei 60.000 il 23.

   Finalmente la famosa "pentola" è esplosa. Forti del­l'esperienza del 19, i picchetti perfezionano al massimo la loro efficienza e in ciò è prezioso l'aiuto degli operai delle fabbriche che hanno reso incandescente, nei primi tre mesi dell'anno, lo scontro di classe a Torino come Lancia e Michelin e che sono presenti in gran numero. Malgrado ciò, l'esito non è scontato, anzi, c'è una mez­z'ora, fra le 5,30 e le 6 in cui è sospeso ad un filo. La gran massa vuole restare fuori, ma rode ancora il dub­bio, la paura di essere gli unici, di restare isolati, come lo erano state per nove anni le avanguardie. Così i picchetti diventano di massa ma hanno al loro interno an­cora un elemento di precarietà: ci si guarda a vicenda, ci si controlla e quando suona l'ultima sirena, l'ondeg­giamento sembra divenire sbandamento. Ma pochissimi, all'ultimo momento entrano, anzi, alcuni di questi arri­vano a metà poi tornano indietro fra gli applausi. Poi quando ci si rende conto che il gioco è fatto, c'è un boato, un'esplosione di gioia e rabbia che si esprime con fischi, urla, danze, abbracci. Viene allora in mente il passo del comunicato che Valletta aveva fatto appen­dere in fabbrica dopo lo sciopero dei 7.000: "alla Fiat ogni vertenza di lavoro viene esaminata e risolta tra le parti interessate senza inutili e dannose sospensioni di lavoro."

   Al secondo turno c'è la conferma, ed è più facile. Al picchetto ci sono anche quelli del mattino e così tutta la Fiat è bloccata, anche in quelle sezioni, come la Grandi Motori, dove i "giovani operai" e gli immigrati sono rari e dove lo sciopero era parzialmente fallito.

   Poi ci si prepara per le 48 ore successive di sciopero che, a ridosso di questo successo, i sindacati dichiarano per il 26 e 27. Ma Valletta parte al contrattacco; da un lato accusa la polizia di non essere stata sufficiente­mente dura nel neutralizzare i picchetti; da un altro col­pisce direttamente, nel picchetto, il punto di forza ope­raio: chiude la fabbrica, fa la serrata; così queste due giornate diventano una sorta di battaglia contro i mu­lini a vento aggravata dal fatto che quasi tutti gli altri industriali hanno seguito l'esempio della Fiat. Nelle mo­tivazioni reali di questa iniziativa, c'è la consapevolezza che gli operai possano cominciare a prendere coscienza della vulnerabilità di un ciclo produttivo - integrato e decentrato ad un tempo - come quello dell'auto e a trarne le conseguenze sul piano della lotta. Così ci si rende conto che il paternalismo o la rappresaglia indivi­duale non sono più sufficienti, e che bisogna rafforzare il "fronte padronale del ciclo" concordando le iniziative di una strategia che è di lotta ma che può anche com­portare la neutralizzazione (con la serrata) dello scontro diretto:


Si è dovuto constatare la seria difficoltà a garantire il libero accesso e la libera uscita dei dipendenti a causa di una massiccia organizzata opera di intimidazione e violenza fisica che è sfociata anche in gravi episodi. Questa situa­zione si è estesa da tempo ad altre aziende dalle quali provengono approvvigionamenti indispensabili alla realizzazio­ne delle produzioni terminali della Fiat. Occorre pertanto prendere atto che ci si trova di fronte ad un vero tentativo sistematico e preordinato di violenza diretta oltre che con­tro le persone anche contro le possibilità produttive... e... poiché nei prossimi 26 e 27 sono preannunciati altri scio­peri da parte delle organizzazioni sindacali, considerata la situazione [...] la direzione ritiene indispensabile disporre la sospensione del lavoro... [2]


E poi la blandizia:


Il Consiglio di amministrazione della Fiat, riunitosi nei giorni scorsi, ha esaminato l'andamento delle attività pro­duttive aziendali nel corso del primo semestre dell'anno, ed ha constatato il permanere dell'atteggiamento collabo­rativo dei lavoratori anche in questo periodo. Il Consiglio ha perciò deliberato di corrispondere un premio di L. 27.000 agli operai ed impiegati in segno di riconoscimento del contributo arrecato al buon andamento del lavoro ed allo sviluppo dell'azienda. Il pagamento di tale premio verrà effettuato entro la prima decade del mese di luglio. [3]


Lo sciopero del 7-8-9 luglio, diventa così alla Fiat, un po' la verifica per le due parti in lizza: i padroni che contano ancora sulla lunga esperienza di repressione-in­tegrazione; i sindacati che si basano su una continuità di egemonia ritrovata grazie ad una sorta di risveglio del "gigante addormentato" che ha "riportato Torino al­la normalità" [4]. Ma la classe operaia Fiat, come quella cittadina e nazionale, è assai diversa da quella di nove anni prima: è questo l'unico elemento di anormalità della situazione (non la ripresa della lotta che ne è la conseguenza). Se ne accorgeranno un po' tutti in quei tre giorni di luglio anche se ben pochi potranno rico­noscerlo pubblicamente così presto e rimanderanno in sede di "ricostruzione storica" la constatazione dei pro­pri errori di analisi ovvero della propria impotenza politica.

Note

[1] Note sulle condizioni e lo svolgimento dello sciopero alla Fiat, in "Cronache dei Q. R.", cit., pp. 35-37.
[2] Dal comunicato affisso in bacheca alla Fiat il 24 giugno 1962, cfr. l'arch. dell'Ist. Morandi, cit.
[3] "La Stampa", 26 giugno 1962.
[4] Il concetto, ad esempio, è sviluppato su "Unità Operaia", 24 giugno 1962.