Lettera di Gramsci a Togliatti, Terracini e altri

9 febbraio 1924


Da "La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924", op. cit. pp. 186-201.



   A Palmi, Urbani e C.

   Cari compagni,
  volentieri accolgo l'invito rivoltomi dal comp. Urbani di fis­sare almeno nelle grandi linee le ragioni per le quali io credo necessario in questo momento venire non solo ad una discussione a fondo dinanzi alle masse del partito sulla nostra situazione interna, ma anche ad un nuovo schie­ramento dei gruppi che tendono alla dirigenza del partito. Ragioni di opportunità mi obbligheranno tuttavia a non ap­profondire troppo determinate questioni; conosco la psico­logia diffusa nel nostro movimento e so come l'assenza che finora c'è stata di ogni polemica interna e di ogni energico tentativo di autocritica abbiano lasciato anche tra di noi una mentalità soverchiamente puntigliosa ed irascibile, che si inal­bera per ogni nonnulla.

   La situazione interna dell'Internazionale. - Non sono persuaso affatto dell'analisi fatta da Urbani sui nuovi orien­tamenti che si rivelerebbero nel Comintern dopo gli avve­nimenti di Germania. Come non ho creduto un anno fa che l'Internazionale andasse a destra, secondo l'opinione diffusa nel nostro CE, così non credo oggi che essa vada a sinistra. La stessa nomenclatura politica adoperata dal comp. Urbani mi pare assolutamente sbagliata e, perlomeno, estremamente superficiale. Per ciò che riguarda la Russia, io ho sempre saputo che nella topografia delle frazioni e delle tendenze Radek, Trotzki e Bukharin occupavano una posizione di si­nistra, Zinoviev, Kameniev, Stalin una posizione di destra mentre Lenin era al centro e fungeva da arbitro in tutta la situazione. Ciò naturalmente, nel linguaggio corrente poli­tico. Il nucleo cosiddetto leninista, come è noto, sostiene che queste posizioni «topografiche» sono assolutamente illusorie e fallaci e nelle sue polemiche ha continuamente dimostra­to come i cosiddetti sinistri non siano altro che dei mensce­vichi che si ammantano di linguaggio rivoluzionario, men­tre sono incapaci di valutare i reali rapporti delle forze ef­fettive. È noto infatti che in tutta la storia del movimento rivoluzionario russo Trotzki era politicamente più a sinistra dei bolscevichi, mentre nelle questioni di organizzazione spesso faceva blocco o addirittura si confondeva con i men­scevichi. È noto che nel 1905 già Trotzki riteneva che in Russia potesse verificarsi una rivoluzione socialista e operaia, mentre i bolscevichi intendevano solo stabilire una dittatura politica del proletariato alleato ai contadini, la quale servisse d'involucro allo sviluppo del capitalismo, che non doveva essere intaccato nella sua struttura economica. È noto anche che nel novembre 1917, mentre Lenin e la maggioranza del partito era passato alla concezione di Trotzki e intendeva manomettere non solo il governo politico, ma anche il go­verno industriale, Zinoviev e Kameniev erano rimasti nella opinione tradizionale del partito, volevano il governo di coa­lizione rivoluzionaria con i menscevichi e con i social-rivo­luzionari, uscirono perciò dal CC del partito, pubblicarono dichiarazioni ed articoli in giornali non bolscevichi e per poco non giunsero fino alla scissione. È certo che se nel no­vembre 1917 il colpo di Stato fosse fallito, come è fallito nell'ottobre scorso il movimento tedesco, Zinoviev e Kameniev si sarebbero staccati dal partito bolscevico e probabilmente sa­rebbero andati con i menscevichi. Nella recente polemica av­venuta in Russia si rivela come Trotzki e l'opposizione, in ge­nerale, vista l'assenza prolungata di Lenin dalla dirigenza del partito si preoccupino fortemente di un ritorno alla vec­chia mentalità, che sarebbe deleteria per la rivoluzione. Do­mandando un maggior intervento dell'elemento operaio nella vita del partito e una diminuzione dei poteri della burocra­zia essi vogliono, in fondo, assicurare alla rivoluzione il suo carattere socialista e operaio e impedire che lentamente si addivenga a quella dittatura democratica, involucro di un capitalismo in isviluppo, che era il programma di Zinoviev e comp. ancora nel novembre 1917. Questa mi pare la situa­zione nel partito russo, la quale è molto più complicata e più sostanziale di quanto non veda Urbani; unica novità è il passaggio di Bukharin al gruppo Zinoviev, Kameniev, Stalin *

   Anche per ciò che riguarda la situazione tedesca, mi pare che le cose si svolgano alquanto diversamente da quanto ha descritto Urbani.

   I due gruppi che in Germania si contendono la diri­genza del partito sono entrambi insufficienti e incapaci. Il gruppo della cosiddetta minoranza (Fischer-Maslov) rappre­senta indubbiamente la maggioranza del proletariato rivolu­zionario; ma esso non ha né la forza organizzativa neces­saria per condurre una rivoluzione vittoriosa in Germania, né una direttiva ferma e sicura che garantisca da catastrofi ancora peggiori di quelle dell'ottobre. Esso è composto di ele­menti giovani nell'attività di partito, i quali si sono trovati alla testa dell'opposizione solo per l'assenza di dirigenti che è caratteristica della Germania. Il gruppo Brandler-Thalheimer è ideologicamente e come preparazione rivoluzionaria più forte del primo, ma anch'esso ha le sue debolezze che per certi riguardi sono molto più grandi e deleterie di quelle dell'altro gruppo. Brandler e Thalheimer sono diventati dei talmudisti della rivoluzione. Volendo trovare a tutti i costi alleati alla classe operaia hanno finito col trascurare la fun­zione della classe operaia stessa; volendo conquistare l'aristo­crazia operaia controllata dai socialdemocratici hanno credu­to di poter fare ciò non già con lo svolgere un programma di carattere industriale, che si imperniasse sui Consigli di fab­brica e sul controllo, ma hanno voluto fare la concorrenza ai socialdemocratici nel campo della democrazia, portando alla degenerazione la parola d'ordine del governo operaio e contadino. Quale dei due gruppi è a destra e quale è a sini­stra? La questione è un po' bizantina. È naturale che Zino­viev, il quale non può attaccare Brandler e Thalheimer come incapaci e nullità individuali, ponga la questione su un pia­no politico, e ricerchi, nei loro errori, gli spunti per accu­sarli di destrismo. La questione d'altronde si complica ma­ledettamente. Sotto certi rispetti Brandler è un puccista più che un destro e si può anche dire che è un puccista perché è un destro. Egli aveva assicurato che per l'ottobre scorso era possibile fare il colpo di Stato in Germania, aveva assi­curato che il partito era tecnicamente pronto a ciò. Zinoviev era invece molto pessimista e non riteneva che la situazio­ne fosse matura politicamente. Nelle discussioni avvenute alla Centrale russa Zinoviev fu messo in minoranza e ap­parve invece l'articolo di Trotzki : «Se la rivoluzione si può fare a data fissa». In una discussione avvenuta al Presidium ciò fu abbastanza chiaramente detto da Zinoviev. Ora, in che consiste il nocciolo dell'affare? Fin dal mese di luglio, dopo la Conferenza per la pace dell'Aja, Radek, rientrato a Mosca dopo una tournée, fece un rapporto catastrofico sulla situa­zione tedesca. Da essa appariva che il CC, guidato da Bran­dler, non godeva più la fiducia del partito; che la mino­ranza, pur essendo costituita di elementi incapaci e qualche volta loschi, aveva con sé la maggioranza del partito e avreb­be potuto, al Congresso di Lipsia, avere la maggioranza se il centralismo e l'appoggio del Comintern non lo avessero impedito; che il CC applicava solo formalmente le decisioni di Mosca, che per il fronte unico e per il governo operaio non era stata fatta alcuna campagna sistematica, ma solo degli articoli di giornale di carattere teorico e astruso che non venivano letti dagli operai. È evidente che dopo questo rapporto di Radek il gruppo Brandler si mise in movimento e per evitare il soppravvento della minoranza preparò un nuovo marzo 1921. Se errori ci furono essi furono commessi dai tedeschi. I compagni russi, cioè Radek e Trotzki, ebbero il torto di credere alle vendite di fumo di Brandler e com­pagni, ma di fatto anche in questo caso la loro posizione non era di destra, ma piuttosto di sinistra, tanto da poter incorrere nell'accusa di puccismo.

   Ho creduto opportuno di dilungarmi un po' su questo argomento, perché occorre avere un orientamento abbastanza chiaro in questo campo. Lo Statuto dell'Internazionale dà al partito russo l'egemonia di fatto dell'organizzazione mon­diale. È certo quindi che bisogna conoscere le diverse cor­renti che si verificano nel partito russo per comprendere gli orientamenti che volta per volta sono impressi all'Interna­zionale. Bisogna tener conto inoltre della situazione supe­riore in cui si trovano i compagni russi, i quali oltre all'avere a loro disposizione la massa di informazioni più propria della nostra organizzazione, hanno anche quelle più ab­bondanti e più precise, per certe questioni, che sono proprie dello Stato russo. I loro orientamenti pertanto sono fondati su una base materiale che noi non potremo avere se non dopo una rivoluzione e ciò dà alla loro supremazia un carat­tere permanente e difficilmente intaccabile.

   Il manifesto della sinistra comunista. - Vengo ora alle questioni più strettamente nostre. Il compagno Urbani scrive che io ho molto esagerato nel mio apprezzamento sul carat­tere del manifesto. Sostengo ancora che esso è l'inizio di una battaglia a fondo contro l'Internazionale e che in esso si domanda una revisione di tutto lo sviluppo tattico avvenuto dopo il Terzo Congresso.

   Tra i punti conclusivi del manifesto quello alla lettera b) dice che bisogna provocare negli organi competenti della Internazionale una discussione sulle condizioni della lotta pro­letaria in Italia negli ultimi anni, con ampia portata e al di­fuori delle sistemazioni contingenti e transitorie che spesso soffocano l'esame e la soluzione dei più importanti problemi. Cosa significa ciò se non che si domanda e si ritiene possibile una revisione non solo della tattica del Comintern in Italia do­po il Terzo Congresso, ma anche una discussione sui princípi generali che sono alla base di questa tattica? Non è vero che dopo il Terzo Congresso, come si afferma nell'ultimo pe­riodo del capitolo (La tattica comunista in Italia), l'Inter­nazionale non abbia detto che cosa volesse fosse fatto in Ita­lia. Nel numero 28 della rivista Internazionale comunista è pubblicata una lettera aperta dell'Esecutivo internazionale al CC del PCI, lettera scritta verso la metà del marzo 1922, cioè dopo l'Es. allargato del febbraio [**]. In essa tutta la conce­zione delle tesi sulla tattica presentate al Congresso di Roma, viene confutata e rigettata e si afferma che essa è in com­pleto disaccordo con le risoluzioni del Terzo Congresso. Nella lettera sono specialmente trattati questi punti: 1) il proble­ma della conquista della maggioranza, 2) le situazioni in cui la battaglia diviene necessaria e le possibilità di lotta, 3) il fronte unico, 4) la parola d'ordine del governo operaio.

   Nel terzo punto si fissa la questione del fronte unico nel campo sindacale e nel campo politico. Cioè si dice esplicita­mente che il partito deve entrare a far parte di comitati misti per la lotta e l'agitazione. Nel punto quarto si cerca di trac­ciare una linea tattica immediata per la lotta italiana, che deve condurre al governo operaio. La lettera finisce con questa frase: è preferibile che il partito si accontenti delle tesi elaborate dal Terzo Congresso e dall'Es. A. di febbraio e che rinunzi a delle tesi proprie piuttosto che presentare le tesi in questione, che costringerebbero l'Esecutivo a combat­tere apertamente e nel modo più energico le concezioni del CC italiano. Io non so se dopo questa lettera dell'Es., che ha un valore e un significato ben preciso, si possa domandare, come è detto nel manifesto, che si rifaccia tutta la discus­sione al disopra dei fatti contingenti. Ciò significherebbe dire apertamente che il partito italiano, dopo il Terzo Congresso, si è sistematicamente e permanentemente trovato in disac­cordo con l'indirizzo del Comintern, e che vuole iniziare una lotta di principio.

   La tradizione del partito. - Nego recisamente che la tradizione del partito sia quella che si riflette nel manifesto. Si tratta della tradizione, cioè della concezione di uno dei gruppi che hanno inizialmente costituito il nostro partito e non già di una tradizione di partito. Allo stesso modo nego che esista una crisi di fiducia tra l'Internazionale e il par­tito nel suo complesso. Questa crisi esiste solo tra l'Interna­zionale e una parte dei dirigenti del partito. Il partito si è formato a Livorno non sulla base di una concezione che poi abbia continuato a persistere e a svilupparsi, ma su una base concreta e immediata: il distacco dai riformisti e da coloro che si mettevano dalla parte dei riformisti contro l'Interna­zionale. La base più larga, quella che ha portato al comi­tato provvisorio di Imola le simpatie di una parte del prole­tariato, era la fedeltà alla Internazionale comunista. Si può perciò affermare tutto il contrario di quanto il manifesto so­stiene. I suoi firmatari potranno essi, ed a ragione, essere ac­cusati di non aver saputo interpretare e di essere usciti fuori dalla tradizione del partito. Ma questa questione è puramente verbale e bizantina. Si tratta di un fatto politico: Amadeo, trovatosi alla dirigenza del partito, ha voluto che la sua con­cezione predominasse e diventasse quella del partito. Oggi ancora, col manifesto, egli vorrebbe ciò. Che noi si sia per­messo che per il passato questo tentativo riuscisse è una que­stione; che oggi si continui a volerlo e, firmando il manife­sto, si sanzioni tutta una situazione e si incapsuli il partito è un'altra. In verità non abbiamo mai, in senso assoluto, la­sciato che questa situazione si consolidasse. Io, almeno pri­ma del Congresso di Roma, nel discorso fatto all'assemblea di Torino, avevo detto abbastanza chiaramente che accettavo le tesi sulla tattica solo per una ragione contingente di or­ganizzazione del partito, ma mi dichiaravo favorevole al fronte unico fino alla sua conclusione normale del governo operaio. Del resto tutto il complesso delle tesi non era stato mai discusso a fondo dal partito e, al Congresso di Roma, la questione fu abbastanza chiara; se l'Esecutivo non avesse conchiuso con i delegati del Comintern un compromesso per il quale le tesi erano presentate solo a titolo consultivo e sarebbero state mutate dopo il Quarto Congresso, non è molto probabile che la maggioranza dei delegati sarebbe stata con l'Esecutivo. Essa, dinanzi ad un ultimatum del Comintern, non avrebbe esitato e avrebbe seguito la sua tradizione di fe­deltà internazionale. Certo io avrei fatto così e con me le dele­gazioni piemontesi con le quali io avevo avuto una riunione dopo il discorso di Kolarov e con le quali mi ero trovato d'ac­cordo su questi punti: impedire alla minoranza di conqui­stare per sorpresa il partito, ma non dare al voto un signifi­cato che andasse al di là della questione organizzativa.

   La concezione del manifesto. - A parte queste que­stioni più o meno giuridiche, ritengo che sia giunto il mo­mento di dare al partito un indirizzo diverso da quello che esso ha avuto fino ad ora. Incomincia una nuova fase nella storia non solo del nostro partito, ma anche del nostro paese. Bisogna quindi che si entri in una fase di maggiore chia­rezza nei rapporti interni di partito e nei rapporti tra il par­tito e l'Internazionale. Non voglio dilungarmi troppo, trat­terò solo alcuni punti nella speranza che essi riescano ad illuminare anche le questioni lasciate in disparte.

   Uno dei più gravi errori che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano l'attività del nostro partito può essere riassunto con le stesse parole con cui si esprime la seconda delle tesi sulla tattica: «Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si pos­sano ottenere e si debbano pretendere dai singoli, poiché si realizzano solo per la integrazione dell'attività di molti indi­vidui in un organismo collettivo unitario».

   Questo concetto, giusto se riferentesi alla classe operaia, è sbagliato ed estremamente pericoloso se riferito al partito. Prima di Livorno esso era il concetto di Serrati, il quale so­steneva che il partito nel suo complesso era rivoluzionario anche se in esso coabitavano socialisti di diverso pelo e co­lore. Nel congresso di scissione della socialdemocrazia russa questo concetto era sostenuto dai menscevichi, i quali dice­vano che il partito nel suo complesso conta e non i singoli individui. Per questi, basta che essi dichiarino di essere sociali­sti. Nel nostro partito questa concezione ha solo parzialmente determinato il pericolo opportunista. Non si può negare in­fatti che la minoranza sia nata e abbia fatto proseliti per la assenza di discussioni e di polemiche nell'interno del par­tito, cioè per non aver dato importanza ai singoli compagni e non aver cercato di indirizzarli un po' più concretamente di quanto non possa avvenire coi comunicati e le disposi­zioni tassative. Nel nostro partito si è avuto a lamentare un altro aspetto del pericolo: l'isterilirsi di ogni attività dei sin­goli, la passività della massa del partito, la ebete sicurezza che tanto c'era chi a tutto pensava e a tutto provvedeva. Que­sta situazione ha avuto gravissime ripercussioni nel campo organizzativo. Mancò al partito la possibilità di scegliere, con criteri razionali, gli elementi di fiducia ai quali asse­gnare determinati lavori. La scelta fu fatta empiricamente, secondo le conoscenze personali dei singoli dirigenti, e cadde il più delle volte su elementi che non godevano la fiducia delle organizzazioni locali e quindi si vedevano sabotare. E si aggiunga che il lavoro svolto non veniva controllato che in minima parte, e quindi nel partito si produsse un vero e proprio distacco tra la massa e i dirigenti. Questa situazione permane ancora e mi pare piena di innumerevoli pericoli. Nella mia permanenza a Mosca non ho trovato uno solo degli emigrati politici, ed essi venivano dai punti più di­versi d'Italia e sono tra gli elementi più attivi, che com­prendesse la posizione del nostro partito e che non criticasse acerbamente il CC pur facendo si capisce le premesse più ampie di disciplina e di obbedienza. L'errore del partito è stato quello di aver messo al primo piano e in modo astratto il problema della organizzazione del partito, che poi ha vo­luto dire solamente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero ortodossi verso la concezione ufficiale. Si cre­deva e si crede tuttora che la rivoluzione dipende solo dalla esistenza di un tale apparecchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa determinare la rivoluzione.

   Il partito ha mancato di una attività organica di agita­zione e propaganda, che invece avrebbe dovuto avere tutte le nostre cure e dar luogo al formarsi di veri e propri specia­listi in questo campo. Non si è cercato di suscitare fra le masse, in ogni occasione, la possibilità di esprimersi nella stesso senso del partito comunista. Ogni avvenimento, ogni ricorrenza di carattere locale o nazionale o mondiale avreb­be dovuto servire per agitare le masse attraverso le cellule comuniste, facendo votare mozioni, diffondendo manifestini. Ciò non è stato casuale. Il partito comunista è stato perfino contrario alla formazione delle cellule di fabbrica. Ogni par­tecipazione delle masse alla attività e alla vita interna del par­tito, che non fosse quella delle grandi occasioni e in seguito a un ordine formale del centro, era vista come un pericolo per la unità e per l'accentramento. Non si è concepito il par­tito come il risultato di un processo dialettico in cui conver­gono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia pro­pizia e la cresta dell'ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimo­larla e portarla all'azione. Naturalmente, poiché le cose non procedono in questo modo, si sono formati all'insaputa del centro dei posti di infezione opportunistica. E questi avevano il loro riflesso nel gruppo parlamentare e poi lo ebbero, in una forma più organica, nella minoranza.

   Questa concezione ha influito nella questione della fusio­ne. La domanda che sempre veniva rivolta al Comintern era questa: si crede che il nostro partito sia ancora allo stato di nebulosa, oppure che esso sia una formazione compiuta? La verità è che storicamente un partito non è mai definito e non lo sarà mai. Poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popolazione e cioè sarà sparito. Fino alla sua sparizione per aver raggiunto i fini massimi del comunismo esso attraverserà tutta una serie di fasi transitorie e assorbirà volta per volta elementi nuovi nelle due forme storicamente possibili: per adesione individuale o per l'adesione di gruppi più o meno grandi. La situazione era resa ancor più difficile per il nostro partito, date le dissenzioni con il Comintern. Se l'Internazio­nale è un partito mondiale, anche inteso ciò con molti grani di sale, è evidente che lo sviluppo del partito e le forme che esso può assumere dipendono da due fattori e non solamente da uno.

   Non solo cioè dall'Esecutivo nazionale, ma anche e spe­cialmente dall'Esecutivo internazionale, che è il più forte. Per sanare la situazione, per ottenere di imprimere allo sviluppo del nostro partito l'impulso che Amadeo vuole è necessario conquistare l'Esecutivo internazionale, cioè diventare il per­no di tutta un'opposizione. Politicamente si arriva a questo risultato ed è naturale che l'Esecutivo internazionale cerchi di spezzare le reni all'Esecutivo italiano.

   Amadeo ha tutta una concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è logicamente coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell'Internazionale risenta i riflessi della situazione russa, sia cioè nata sul terreno di una civiltà capita­listica arretrata e primitiva. Per lui questa tattica è estrema­mente volontaristica e teatrale, perché solo con un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un'atti­vità rivoluzionaria che non era determinata dalla situazione storica. Egli pensa che per i paesi più sviluppati dell'Europa centrale ed occidentale questa tattica sia inadeguata o addirit­tura inutile. In questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici: c'è la determinazione che mancava in Russia, e perciò il compito assorbente deve essere quello di organizzare il partito in sé e per sé. Io credo che la situazione sia molto diversa. In primo luogo perché la conce­zione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell'Europa centrale ed occidentale lo sviluppo del ca­pitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati proletari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l'aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sinda­cale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all'assalto rivoluzionario, nell'Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l'a­zione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel perio­do tra il marzo ed il novembre 1917. Ma che Amadeo abbia questa sua concezione e che cerchi di farla trionfare non solo su scala nazionale, ma anche su scala internazionale, è una cosa: egli è convinto e lotta con molta abilità e con molta elasticità per ottenere il suo scopo, per non compromettere le sue tesi, per dilazionare una sanzione del Comintern che gli impedisca di continuare fino alla saldatura col periodo storico in cui la rivoluzione nell'Europa occidentale e cen­trale abbia tolto alla Russia il carattere di egemonia che oggi essa ha. Ma che noi, che non siamo persuasi della sto­ricità di questa concezione, continuiamo politicamente ad affiancarla e a darle quindi tutto il suo valore internazionale è un'altra cosa. Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale. Non possiamo perciò volere che il governo del partito sia dato a rappresentanti della minoranza perché questi sono d'accordo con l'Inter­nazionale, anche se dopo la discussione aperta del manifesto la maggioranza del partito rimane con gli attuali dirigenti. È questo secondo me il punto centrale, che deve politica­mente determinare il nostro atteggiamento. Se poi fossimo d'accordo con le tesi di Amadeo, naturalmente dovremmo porci il problema se avendo con noi la maggioranza del partito convenga rimanere nell'Internazionale, diretti nazio­nalmente dalla minoranza per dar tempo al tempo e giun­gere fino a un capovolgimento della situazione che ci dia ragione teoricamente, o se convenga romperla. Ma se non siamo d'accordo con le tesi, firmare il manifesto significa assumersi tutta la responsabilità di questo equivoco. Se si ot­tiene la maggioranza sulle tesi di Amadeo accettare la dire­zione della minoranza noi che non siamo d'accordo con queste tesi e che potremmo quindi risolvere la situazione organicamente, oppure rimanere in minoranza, quando per le nostre concezioni siamo d'accordo con la maggioranza, che si schiererebbe intorno all'Internazionale. Ciò signifi­cherebbe la nostra liquidazione politica e il distacco da Ama­deo in seguito a un tale stato di cose assumerebbe l'aspetto più antipatico e odioso.

   Indicazioni per il lavoro avvenire. - Non voglio dilun­garmi molto in questa parte perché essa domanderebbe mol­to spazio per essere trattata adeguatamente.

   Mi accontenterò di alcune indicazioni. Il lavoro futuro del partito dovrà essere rinnovato nei due punti, organizza­tivo e politico.

   Nel campo organizzativo penso che sia necessario valo­rizzare il CC e farlo lavorare di più, per quanto è possibile data la situazione. Penso che sia necessario stabilire meglio i rapporti che devono intercorrere tra i vari organismi di partito, stabilendo più esattamente e rigorosamente la divi­sione del lavoro e la fissazione delle responsabilità. Due organi e due attività nuove devono essere create: una com­missione di controllo costituita prevalentemente di vecchi operai che deve giudicare in ultima istanza le questioni liti­giose che non abbiano una immediata ripercussione politica, per le quali non sia quindi necessario l'immediato intervento dell'Esecutivo. E deve esaminare continuamente la situazione dei membri del partito per le revisioni periodiche; un co­mitato di agitazione e propaganda che deve raccogliere tutto il materiale locale e nazionale necessario e utile per il lavoro di agitazione e di propaganda del partito. Esso deve studiare le situazioni locali, proporre agitazioni, compilare manifestini e tesine per indirizzare il lavoro degli organismi locali; esso deve poggiare su tutta una organizzazione nazionale, il cui nucleo costitutivo sarà il rione per i grandi centri ur­bani e il mandamento per le campagne; esso deve comin­ciare il suo lavoro da un censimento dei soci del partito i quali devono essere divisi ai fini della organizzazione a se­conda della anzianità e delle cariche che hanno coperto, della capacità che hanno dimostrato oltre evidentemente alle doti morali e politiche.

   Dovrà essere stabilita una precisa divisione del lavoro tra l'Esecutivo e l'UI. Stabilite precise responsabilità e competen­ze che non possano essere violate senza gravi sanzioni disci­plinari. Io penso che questo sia uno dei lati più deboli del nostro partito e quello che più ha dimostrato come il centra­lismo instaurato fosse più una formalità burocratica e una ba­nale confusione delle responsabilità e delle competenze che un rigoroso sistema organizzativo.

   Nel campo politico occorre stabilire con esattezza delle tesi sulla situazione italiana e sulle possibili fasi del suo svilup­po ulteriore. Nel 1921-22 il partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile l'avvento di una dittatura fasci­sta o militare; a gran stento io riuscii a far togliere dalle tesi che questa concezione avesse a diventar scritta, facendo modi­ficare fondamentalmente le tesi 51 e 52 sulla tattica. Ora mi pare che si cada in un altro errore strettamente legato a quello d'allora. Allora non si valutava l'opposizione sorda e latente della borghesia industriale contro il fascismo e non si pensava che fosse possibile il governo socialdemocratico, ma solo una di queste tre soluzioni: dittatura del proletariato (soluzione meno probabile), dittatura dello stato maggiore per conto della borghesia industriale e della corte, dittatura del fasci­smo; questa concezione ha legato la nostra azione politica e ci ha condotto a molti errori. Ora nuovamente non si tiene conto della emergente opposizione della borghesia industriale e specialmente di quella che si delinea nel Mezzogiorno con carattere più recisamente territoriale e quindi affacciando alcuni aspetti della questione nazionale. È un po' opinione che una ripresa proletaria possa e debba avvenire solo a beneficio del nostro partito. Io credo invece che ad una ripresa il nostro partito sarà ancora di minoranza, che la maggioranza della classe operaia andrà con i riformisti e che i borghesi democra­tici liberali avranno ancora da dire molte parole. Che la si­tuazione sia attivamente rivoluzionaria non dubito e che quindi entro un determinato spazio di tempo il nostro partito avrà con sé la maggioranza; ma se questo periodo forse non sarà lungo cronologicamente esso sarà indubbiamente denso di fasi suppletive, che dovremo prevedere con una certa esat­tezza per poter manovrare e non cadere in errori che prolun­gherebbero le esperienze del proletariato.

   Credo inoltre che il partito debba porsi praticamente alcu­ni problemi che non sono stati mai affacciati e la cui soluzio­ne è stata lasciata agli elementi che ad essi erano strettamente legati. Il problema della conquista del proletariato milanese è un problema nazionale del nostro partito, che deve essere risolto con tutti i mezzi che il partito ha a sua disposizione e non solo con i mezzi milanesi. Se non abbiamo con noi sta­bilmente la maggioranza schiacciante del proletariato milane­se non possiamo vincere e mantenere la rivoluzione in tutta Italia. Occorre perciò portare a Milano elementi operai di altre città, introdurli a lavorare nelle fabbriche, arricchire l'or­ganizzazione legale ed illegale di Milano con i migliori ele­menti di tutt'Italia. Penso che così ad occhio e croce sia neces­sario immettere nel corpo operaio milanese almeno un centi­naio di compagni disposti a lavorare a corpo perduto per il partito. Un altro problema di questo tipo è quello dei lavora­tori del mare, strettamente legato al problema della flotta militare. L'Italia vive del mare; non occuparsi come di uno dei problemi più essenziali e ai quali il partito deve dedicare le sue maggiori attenzioni, del problema marinaro vorrebbe dire non pensare concretamente alla rivoluzione. Quando penso che per molto tempo il dirigente della nostra politica tra i marinai è stato un ragazzo come il figlio di Caroti mi vengono i brividi. Altro problema è quello dei ferrovieri, che noi abbiamo sempre guardato da un punto di vista puramente sindacale, mentre esso trascende questa qualità ed è proble­ma nazionale e politico di prim'ordine. Quarto ed ultimo di questi problemi è quello del Mezzogiorno, che noi abbiamo misconosciuto così come facevano i socialisti e abbiamo cre­duto fosse risolvibile nell'ambito normale della nostra attività politica generale. Io sono sempre stato persuaso che il Mez­zogiorno diventerebbe la fossa del fascismo, ma credo anche che esso sarà il maggiore serbatoio e la piazza d'armi della reazione nazionale e internazionale se prima della rivoluzio­ne noi non ne studiamo adeguatamente le questioni e non siamo preparati a tutto.

   Credo di avervi dato un'idea abbastanza chiara della mia posizione e le differenziazioni che esistono tra essa e quella che risulta dal manifesto. Poiché penso che voi in gran parte siate più d'accordo con la mia posizione, nella quale ci siamo trovati insieme per non breve tempo, spero che abbiate ancora la possibilità di decidere diversamente da quanto eravate in procinto di fare. Coi più fraterni saluti

     Masci

Note

  [*] I giudizi contenuti in questo capitolo, circa la posizione dei vari dirigen­ti del partito bolscevico, non sono tutti giusti. Alcuni sono nettamente errati e possono venire corretti da chi conosce la storia di quel partito. Gramsci non aveva avuto ancora la possibilità, allora, di approfondire questa conoscenza. (Nota di Palmiro Togliatti)

   [**] La lettera è stata da noi pubblicata nel secondo fascicolo dedicato al PCI "Il PCd'I alla prova. L'avanzata del fascismo e lo scontro con l'Internazionale" [qui].