LA STRATEGIA E LA TATTICA DEL KOMINTERN
NELLE CONDIZIONI DELL'APPROFONDIRSI DELLA CRISI ECONOMICA NEL MONDO CAPITALISTICO

Crisi economica mondiale
e sviluppo della lotta rivoluzionaria dei lavoratori


Da Storia dell'Internazionale Comunista, Edizioni Progress, URSS 1974, pp. 299-310. Saggio a cura dell'Istituto di marxismo-leninismo presso il CC del PCUS, scritto, come si legge dal frontespizio "con la collaborazione di esponenti dell'Internazionale Comunista e di compagni che hanno lavorato nell'apparato e negli organi di stampa del Komintern: Walter Ulbricht, Dolores Ibarruri, Jacques Duclos, Tim Buck, Khaled Bagdashe, Victorio Codovilla, Georges Cogniot, Inkeri Lehtinen, Boris Ponomariov, R. Palme Dutt, Dezso Nemes, Friedl Fürnberg, Emilio Sereni, Ruben Avramov, Andrew Rothstein".


L'Internazionale Comunista già negli anni della stabilizza­zione del capitalismo aveva previsto l'inevitabilità di una nuova grave crisi economica mondiale. Questa conclusione si basava su una profonda analisi marxista-leninista delle condizioni dello sviluppo capitalistico. Il VI congresso del Komintern dichiarò che lo sviluppo relativamente rapido dell'economia nei paesi capi­talistici avrebbe portato alla riproduzione delle contraddizioni capitalistiche in proporzioni più ampie di quelle precedenti, che il periodo della stabilizzazione precaria del capitalismo volgeva alla fine e che andava delineandosi l'ombra minacciosa di una crisi.

Al X plenum del Comitato Esecutivo del Komintern, nelle relazioni e negli interventi, si indicava che, benché la congiuntura economica nei maggiori paesi capitalistici si svilupasse seguendo una linea ascendente, «erano già evidenti i sintomi indubbi di una nuova crisi economica» [1]. Trascorse pochissimo tempo e queste previsioni del Komintern si confermarono in pieno.

Nell'autunno 1929 negli USA si scatenò in Borsa un panico senza precedenti. Il crollo finanziario e creditizio, estesosi anche agli altri paesi, fu la prima manifestazione della crisi economica mondiale.

La crisi del 1929-1933 fu non soltanto la più lunga, ma anche la più profonda e la più devastatrice di tutte le crisi economiche che abbia mai conosciuto la storia del capitalismo. Sviluppandosi nelle condizioni della crisi generale del capitalismo, la crisi inve­stì tutti i paesi del mondo capitalistico ed inferse durissimi colpi all'economia, alle basi politiche e ideologiche della borghesia. La crisi generale del capitalismo si acutizzò ancora di più.

La crisi abbracciò tutti gli aspetti dell'economia capitalistica: l'industria, l'agricoltura, il sistema finanziario e creditizio, il commercio, i rapporti economici internazionali. La produzione capitalistica, che aveva raggiunto in precedenza un alto livello di sviluppo urtò nell'estrema ristrettezza della capacità di assor­bimento del mercato e cominciò rapidamente a calare. Soltanto nel corso di un anno, dalla fine del 1929 alla fine del 1930. la pro­duzione industriale nei maggiori paesi capitalistici si ridusse del 10-17%. Il punto più basso della caduta dell'economia capitali­stica si ebbe nel 1932. In quell'anno la produzione industriale fu inferiore, rispetto a prima della crisi: negli USA del 46%, in Ger­mania del 47%, in Inghilterra del 16,5%, in Francia del 31%, in Italia del 33%; in Cecoslovacchia, Belgio e Olanda, quasi del 37%. [2] Complessivamente la produzione industriale del mondo capi­talistico nel periodo 1930-1933 si ridusse del 38%.[3] Enormi po­tenziali produttivi creati nei paesi capitalistici, restavano ino­perosi. Le miniere deserte, gli altiforni spenti, i padiglioni delle fabbriche e delle officine deserti, trasformatisi in un cimitero di macchine, erano la testimonianza evidente di come il capitalismo stesso distrugge le sue forze produttive. Nel tentativo di ridurre le scorte di prodotti rimasti invenduti e di impedire l'ulteriore calo dei prezzi e dei profitti, i monopoli distruggevano enormi quantita­tivi di merci, facevano demolire nuove macchine e impianti.

La crisi industriale si fuse con quella agraria e la rese più grave. La caduta dei prezzi delle materie prime e dei generi alimentari portò alla riduzione della produzione agricola. Il suo volume nel 1929-1933 diminuì di oltre un terzo. Il sistema finanziario e credi­tizio fu disorganizzato fino alle fondamenta. Migliaia di banche fallirono. In 56 paesi fu svalutata la moneta. Il commercio estero nel mercato capitalistico si ridusse quanto al valore di tre volte.

La crisi accentuò sensibilmente la lotta dei paesi imperiali­stici per i mercati di sbocco. Tutti gli accordi precedenti sulla ripartizione del mondo in zone di influenza furono di fatto abban­donati: di essi non si tenne più conto. Il sistema dei trattati di Versailles e di Washington cominciò a disgregarsi. La crisi inflis­se un colpo demolitore alle teorie borghesi della «prosperità eter­na» e alla teoria opportunistica di destra del «capitalismo organiz­zato» che si sarebbe ormai liberato dei suoi vizi fondamentali. Queste illusioni borghesi e socialiste di destra fondate su concezio­ni antiscientifiche, crollarono completamente. La crisi mandò all'aria anche le affermazioni opportunistiche di destra secondo cui la stabilizzazione capitalistica sarebbe stata di lunga durata.

Sullo sfondo dell'azione distruttrice della crisi che aveva inve­stito tutto il mondo capitalistico, producevano particolare impres­sione gli elevati ritmi di sviluppo dell'economia dell'Unione So­vietica. Proprio in quegli anni i lavoratori sovietici realizzavano con successo sotto la direzione del partito comunista i grandiosi compiti del primo piano quinquennale, sorprendendo il mondo con i risultati da essi raggiunti. La vita metteva in luce con una forza senza precedenti il carattere diametralmente opposto delle vie di sviluppo dei due sistemi economico-sociali, il socialismo e il capitalismo. Mentre nei paesi capitalistici la produzione industria­le andava a rotoli, nell'URSS, nel periodo 1929-1932, essa crebbe di due volte. Negli anni del primo piano quinquennale, adempiuto con anticipo nel 1932, l'Unione Sovietica compì un passo gigan­tesco sulla via della industrializzazione: furono cosruite 1.500 nuo­ve grandi aziende industriali, entrarono in esercizio la fabbrica di trattori di Kharkov, il kombinat metallurgico di Kuznetsk, la centrale idroelettrica del Dnepr, il kombinat chimico di Beresniki ed altri giganteschi stabilimenti.

Andava sviluppandosi rapidamente la cooperazione in agricol­tura: al posto delle piccole aziende contadine private scarsamente produttive, sorgevano le aziende collettive; era in corso la liquida­zione della classe dei kulak, l'ultima classe sfruttatrice nel paese.

Un'importante conquista sociale della società sovietica fu la completa liquidazione della disoccupazione. Si realizzava con suc­cesso la rivoluzione culturale.

Il grande significato dei successi del popolo sovietico stava nel fatto che si trattava della prima esperienza di costruzione delle basi del socialismo nella storia dell'umanità. I lavoratori sovietici dimostravano con le loro realizzazioni a tutto il mondo che essi non solo erano capaci di distruggere i vecchi ordinamenti sociali basati sullo sfruttamento, ma potevano anche costruire vittoriosa­mente una nuova società traducendo in atto i luminosi ideali del comunismo. Lo sviluppo dell'URSS dimostrava in modo evidente gli immensi vantaggi del socialismo rispetto al capitalismo, la su­periorità dell'economia socialista pianificata sull'economia capi­talistica in cui regna l'anarchia della produzione. I partiti comu­nisti dei paesi capitalisti valutavano i successi dell'URSS nella costruzione delle basi del socialismo come una vittoria di tutto il movimento operaio internazionale, come un fattore che rafforzava l'autorità e l'influenza delle idee del socialismo in tutto il mondo. Aveva immensa importanza anche il fatto che il socialismo, venen­do in possesso di una tecnica moderna, diveniva una grande forza materiale che si contrapponeva all'imperialismo. Lo sviluppo nell'URSS era in stridente contrasto con quanto avveniva nel mondo del capitalismo.

La crisi economica mondiale colpì duramente le masse popolari dei paesi capitalistici. La borghesia cercava di riversare sulle loro spalle tutti i gravami della crisi. In modo particolarmente sensi­bile peggiorò la condizione del proletariato il quale soffriva sia a causa della riduzione costante dei salari, che a causa del dilagare spaventoso della disoccupazione. Nella maggioranza dei paesi capitalistici, il fondo dei salari e degli stipendi corrisposti agli operai e agli impiegati si ridusse del 30-50%. La disoccupazione assunse dimensioni senza precedenti. Più di 35 milioni di persone furono gettate sul lastrico, di cui: 16 milioni negli USA, 5,5 in Germania, 3 in Inghilterra, oltre 2,8 in Giappone, 2,3 milioni in Francia, 900 mila in Cecoslovacchia, 800 mila in Ungheria. Un numero ancora maggiore di operai venne a trovarsi nella condizione di disoccupati parziali. I governi borghesi, sulla base dei «piani di economia», riducevano sistematicamente i sussidi di disoccupazio­ne, decurtavano tutte le altre forme di indennità previdenziali. In molti paesi, poi, mancava in generale un sistema statale di assicurazione contro la disoccupazione. Milioni di persone vaga­bondavano per le strade degli USA, Germania, Inghilterra e di altri paesi alla ricerca di lavoro e di un tozzo di pane.

La crisi mandò in rovina molti milioni di contadini. Negli USA nel periodo 1929-1933 circa un milione di fattorie furono ven­dute all'asta a causa dei debiti. Il numero delle vendite all'asta del­le aziende contadine, di regola di quelle piccole, aumentò nella maggior parte dei paesi capitalistici di oltre 3 volte. Gli abitanti delle campagne, ridotti alla miseria, andavano così ad ingrossare l'esercito dei disoccupati.

Sotto i colpi della crisi centinaia di migliaia di artigiani, pic­coli imprenditori, commercianti, impiegati, perdevano la base materiale di sussistenza, andavano in rovina.

Particolarmente dure erano le condizioni di miseria dei popoli delle colonie e delle semicolonie. La produzione fondamentale di questi paesi - materie prime agricole e prodotti alimentari - perdeva il suo valore sul mercato mondiale. Contemporaneamente si accrebbe la spoliazione delle colonie ad opera degli imperialisti. Le terre di milioni di contadini nelle colonie passavano agli usurai e ai feudatari, decine di milioni di persone vennero a trovarsi sull'orlo della morte per inedia. Tutto ciò rafforzava l'odio delle masse per gli imperialisti-colonialisti.

L'eccezionale peggioramento della condizione economica e giuridica dei proletari e dei ceti medi nei paesi capitalistici ebbe per conseguenza un brusco acutizzarsi della lotta di classe. Si intensifica l'attività delle forze rivoluzionarie. Cresce il movi­mento di scioperi. Negli anni 1929-1932 in 15 paesi fra i più grandi ebbero luogo circa 19 mila scioperi ai quali parteciparono 8,5 mi­lioni di persone. [4]

La classe operaia sviluppa la lotta contro la riduzione dei salari, i licenziamenti, il taglio dei sussidi previdenziali, contro le mi­sure eccezionali dei governi che distruggevano le conquiste demo­cratiche dei lavoratori. Negli USA, in Germania, Francia, Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, molti scioperi già nei primi anni della crisi sfociano in aspri scontri con le autorità e la polizia. Nell'ottobre 1930 scesero in sciopero 130 mila metalmeccanici berlinesi. All'inizio del 1931 si tennero imponenti scioperi dei minatori della Ruhr e dei bacini carboniferi di Dombrow e Cra­covia, in Polonia.

In Ungheria il 1° settembre 1930 si svolse una manifestazione di 100 mila operai, cui i comunisti e i socialdemocratici di sinistra impressero il carattere di un'azione combattiva rivoluzionaria. La polizia sciolse la manifestazione aprendo il fuoco sugli operai. Un anno dopo il paese fu scosso nuovamente da grandi dimostra­zioni politiche di operai. Il governo lanciò contro gli operai non soltanto la polizia, ma anche reparti dell'esercito appoggiati dal­l'artiglieria.

A metà del 1931 negli USA scoppiò uno sciopero di minatori sotto la parola d'ordine: «Contro la morte per fame». Gli operai dovevano battersi contro la polizia che impiegò le armi e i gas la­crimogeni. Il movimento di scioperi cresceva nella maggior parte dei paesi capitalistici.

Con l'aumento della disoccupazione acquistava un'ampiezza sempre maggiore il movimento dei disoccupati che chiedevano le assicurazioni sociali, l'adozione di un programma di lavori pub­blici, la salvezza delle loro famiglie dalla fame. Sotto la parola d'ordine «Pane e lavoro!» negli USA, Germania, Polonia, Ceco­slovacchia, Inghilterra, Francia, Austria, Canada e in altri paesi hanno luogo marce della fame di disoccupati, dappertutto sorgono comitati di disoccupati.

L'Internazionale Comunista in quel periodo rivolgeva grande attenzione allo sviluppo del movimento dei disoccupati per creare un fronte unico degli operai che lavoravano e dei disoccupati ed impedire così alla borghesia di seminare zizzania tra di loro. Nel gennaio 1930 il Segretariato politico del CEIC nelle sue direttive alle sezioni del Komintern rilevò che a tal fine era necessario inclu­dere nei consigli dei disoccupati rappresentanti dei lavoratori occupati, «è necessario collegare la lotta dei disoccupati per le loro rivendicazioni con la lotta economica e politica della classe operaia. E' necessario avanzare, oltre alle parole d'ordine generali di lotta contro la borghesia, parole d'ordine concrete e popolari, adattate alle condizioni del vostro paese». [5]

Su iniziativa dei partiti comunisti e del Komintern, il 6 marzo 1930 e il 25 febbraio 1931, si svolsero giornate internazionali di lotta contro la disoccupazione, caratterizzate da manifestazioni di massa, comizi, assemblee di disoccupati. Nelle lotte della clas­se operaia si manifestava l'odio crescente di milioni di proletari per gli ordinamenti borghesi che condannavano i lavoratori alla miseria e alle sofferenze.

Si estendeva la lotta di classe anche nelle campagne. I conta­dini chiedevano che venisse posto fine alla vendita all'asta delle loro terre a causa dell'indebitamento, che venissero ridotte le tasse e annullati i debiti. In una serie di paesi maturavano lotte conta­dine di massa.

Il malcontento e il fermento nella misura in cui si approfondi­va la crisi, investivano anche i ceti medi urbani. Molti rappre­sentanti di questi strati si inserivano in una lotta decisa a fianco degli operai. Ma una notevole parte dei ceti medi, presa da senti­menti di disperazione e di pessimismo, abboccava alla demagogia dei partiti reazionari o tentennava. La borghesia temeva che que­sto numeroso «elemento irrequieto» potesse seguire la classe operaia.

Il mondo capitalistico attraversava un periodo di acuta lotta di classe. L'attivizzazione delle forze rivoluzionarie si manifestò in avvenimenti così importanti quali l'abbattimento, nel 1931, della monarchia e lo sviluppo della rivoluzione democratico-borghese in Spagna, l'ascesa del movimento operaio in Germania, Polonia, Cecoslovacchia e alcuni altri paesi.

In seguito all'approfondirsi della crisi economica nei paesi coloniali e dipendenti, alla sempre maggiore pressione imperia­listica su questi paesi, in seguito allo sfruttamento sempre più intenso degli operai e alla rovina in massa dei contadini e degli artigiani, cresceva il malcontento di tutti gli oppressi, assumeva proporzioni sempre più ampie la lotta antimperialistica. Nei paesi coloniali si ebbe un'ondata di scioperi operai, di dimostrazioni di massa, di insurrezioni nelle città, di agitazioni contadine. Si acuivano le contraddizioni tra la borghesia nazionale e l'imperialismo e ciò la spingeva a partecipare più attivamente al movimento di liberazione nazionale. In molti paesi diveniva reale la possi­bilità di unire forze di classe eterogenee in un fronte unico nazio­nale di lotta contro l'imperialismo.

In India si svolge una campagna di disobbedienza civile alle autorità coloniali. La partecipazione di massa degli operai, dei contadini, dei poveri delle città conferisce a questa campagna un carattere combattivo, d'offensiva. Nel 1930 scoppiano rivolte anti-imperialistiche a Cittagong, a Peshawar; scesero in lotta gli operai del grosso centro industriale di Shiolapur, i quali cacciarono dalla città i rappresentanti delle autorità inglesi e la polizia locale, costi­tuirono gli organi dell'autogoverno rivoluzionario e per alcuni giorni sostennero sanguinosi combattimenti con i reparti punitivi; un'insurrezione popolare contro i colonialisti investì la Terra di frontiera Nord-Ovest. La ripresa della lotta di liberazione del popo­lo indiano fu accolta dai colonialisti con repressioni in massa. Nel 1930 furono arrestati oltre 60 mila patrioti, tra cui anche i dirigenti del partito nazional-riformista - il Partito del Congresso nazionale indiano - con alla testa M. Gandhi. La maggioranza della direzione del Congresso nazionale, intimidita dalla mole e dal carattere del movimento delle masse, nonché nella speranza di ottenere certe concessioni da parte delle autorità inglesi, venne a patti con i colonialisti. I combattenti più conseguenti per l'indi­pendenza - i comunisti indiani - intervenivano energicamente contro gli accordi dei riformisti con le autorità coloniali.

In Cina si estendeva in quel periodo la lotta antifeudale dei contadini in una serie di province meridionali; in vaste zone sorge­vano capisaldi della rivoluzione. In queste zone sotto la direzione dei comunisti, si costituivano i Soviet come organi del potere ope­raio-contadino. Sul territorio delle zone rivoluzionarie andavano formandosi sulla base dei reparti partigiani le forze armate della rivoluzione, l'Esercito Rosso della Cina. Nel 1931 esso contava più di 100 mila combattenti e respingeva con successo gli attacchi delle truppe del Quomintang contro le zone sovietiche.

Si intensificò il movimento antimperialistico in Indocina. Nel 1930 insorsero contro i colonialisti francesi la guarnigione vietna­mita del forte di Ienbai (Vietnam del Nord) e alcune altre unità militari locali. I colonialisti riuscirono a spegnere rapidamente questi isolati focolai di resistenza. Poco dopo, sotto la direzione dei comunisti, i contadini di alcune zone del Vietnam Centrale pre­sero il potere nelle proprie mani, costituirono i Soviet e confi­scarono le terre dei latifondisti. Il potere popolare durò in queste zone tre mesi. I colonialisti impiegarono contro i contadini insorti i più crudeli metodi di repressione, compresi i bombardamenti dall'aria dei villaggi ribelli. Le autorità riuscirono ad arrestare la direzione del Partito comunista dell'Indocina.

Nel 1930-1931 la guerra contadina antifeudale e antimperiali­stica scosse la Birmania. In quegli stessi anni le lotte dei lavoratori egiziani contro i colonialisti inglesi sfociarono per due volte in insurrezioni armate. Si levarono alla lotta armata anche i conta­dini delle Filippine che si battevano per la liberazione del paese dall'imperialismo degli USA. Nel 1933 si ebbero agitazioni fra i marinai indonesiani della Marina da guerra olandese.

La lotta antimperialistica incomincia in una serie di paesi dell'America Latina. Nel 1931, nel Cile, i marinai insorti issano le bandiere rosse e formano i comitati rivoluzionari. Il governo fa bombardare le navi insorte. L'anno successivo gli operai insorti cercano di proclamare il potere sovietico nel Cile. Nei paesi colo­niali e dipendenti sorgono nuovi focolai di lotta, altri milioni di lavoratori oppressi scendono in campo contro l'imperialismo.

Così, dopo il periodo della stabilizzazione relativa del capita­lismo, si assiste nel mondo ad una nuova ripresa del movimento operaio rivoluzionario e del movimento di liberazione nazionale. L'approfondirsi della crisi economica e l'intensificarsi della lotta di classe facevano vacillare i regimi capitalistici, suscitavano nella borghesia paura per le sorti di questi regimi. Se nel primo anno del­la crisi gli economisti e i politici borghesi esprimevano la speranza che si sarebbe presto tornato alla «prosperità» economica, con l'ap­profondirsi della crisi essi presero a parlare dei pericoli, cui era esposto l'«ordine» esistente, e proponevano programmi di ogni genere per uscire dalla crisi. La sostanza di questi programmi era una sola: trovare le vie per salvare e consolidare il regime di sfrut­tamento capitalistico. I maggiori esponenti della scienza economica borghese, fra cui l'economista inglese J. M. Keynes, giungevano alla conclusione che il meccanismo del mercato capitalistico e della libera concorrenza non poteva più essere l'unico regolatore dell'economia capitalistica, non poteva liberarla dai colpi tre­mendi della crisi. J. Keynes proponeva di adottare una politica economica che consentisse di perfezionare il meccanismo della riproduzione capitalistica, fondato sulle leggi del libero mercato, e di instradarsi sulla via dell'intervento dello Stato nell'economia, ossia, sulla via della sua regolamentazione nel quadro del capita­lismo monopolistico di Stato.

Le misure volte a regolare l'economia mediante l'intervento statale, alle quali cominciarono a ricorrere intensamente i circoli dirigenti di molti paesi capitalistici, furono determinate non soltanto da cause economiche, ma anche dall'inizio della competi­zione fra l'economia socialista e quella capitalistica, dall'aggravarsi delle contraddizioni politiche e sociali all'interno dei paesi capitalistici e delle contraddizioni interimperialistiche. Con l'aiu­to della ristrutturazione basata sul capitalismo monopolistico di Stato, il capitalismo cercava di consolidare le sue posizioni inde­bolite. Nella maggioranza dei paesi la ristrutturazione si traduceva nel rafforzamento dell'oppressione economica e politica dei lavo­ratori, nell'instaurazione di regimi sempre più reazionari.

La reazione borghese, i vertici agrari e militari, in una situa­zione in cui i metodi della democrazia borghese non potevano più fermare lo sviluppo della lotta di classe, manifestavano una ten­denza sempre maggiore a passare alla violenza aperta e all'avven­turismo politico. Essi erano pronti a perpetrare qualsiasi atrocità e a commettere qualsiasi delitto, pur di instaurare una dittatura terroristica aperta, pur di soffocare il movimento rivoluzionario degli operai e dei contadini. In molti paesi la reazione imperiali­stica faceva assegnamento sul fascismo come l'unico mezzo per frenare l'ascesa delle forze della rivoluzione mediante la repres­sione spietata delle lotte dei lavoratori. I monopoli vedevano nel fascismo la forza capace di far ricadere «con mano ferma» tutto il peso della crisi sulle spalle dei lavoratori e di assicurare elevati profitti al capitale. La variante fascista del capitalismo monopo­listico di Stato, con il potere totale dello Stato, era la più allet­tante per i circoli più reazionari della borghesia imperialistica. I circoli imperialistici riponevano speranza nel fascismo anche come in una forza d'urto nella lotta contro l'Unione Sovietica i cui successi rendevano l'esempio del socialismo particolar­mente attraente per i lavoratori di tutto il mondo. E che la reazione im­perialistica considerava il fascismo come l'ancora di salvezza, era comprovato dal fatto che in molti paesi era in corso la graduale fa­scistizzazione dei regimi borghesi e che crescevano rapidamente i partiti fascisti.

V. I. Lenin ebbe a rilevare a suo tempo che dell'imperialismo è caratteristico il trapasso dalla democrazia alla reazione politica sia in politica estera che in politica interna, che l'imperialismo ten­de a violare la democrazia, aspira alla reazione. [6] Lo sviluppo delle tendenze fasciste negli anni della crisi economica mondiale e del­l'acutizzazione della lotta di classe, testimoniava dell'ulteriore rafforzamento del carattere reazionario della borghesia imperialistica. Essa si presentava sempre più come forza antipopolare e antiumana.

La socialdemocrazia di destra che seguiva la politica di col­laborazione con la borghesia si mostrava assolutamente incapace di indicare alle masse una via d'uscita dalle difficoltà della crisi. Durante gli anni dalla crisi essa applicava una linea volta a salvare il capitalismo dallo sfacelo, dalla rivoluzione e si oppone­va attivamente al movimento rivoluzionario. I capi della social­democrazia chiamavano i lavoratori ad armarsi di pazienza per attendere la fine della crisi, ad affrontare sacrifici, anche al prezzo della perdita di una serie di conquiste, pur di evitare la guerra civile. Nel 1931, al congresso di Lipsia della socialdemocrazia tedesca, uno dei suoi capi F. Tarnow dichiarò apertamente: «Noi siamo al capezzale del capitalismo ammalato non soltanto per compiere una diagnosi. Noi siamo condannati... proprio ad essere il medico che vuol seriamente curare e a non venir meno, al tempo stesso, alla convinzione che noi siamo gli eredi».[7] «S'intende - scrisse il capo del gruppo socialdemocratico al Landtag prussiano E. Heilmann - che tutta la socialdemocrazia lavora per impedire il crollo del capitalismo» [8].

I capi socialdemocratici dirigevano i colpi principali contro gli operai rivoluzionari, contro i comunisti, accusandoli di volere il caos, anche se del caos economico, della miseria e della fame era responsabile proprio il capitalismo che la socialdemocrazia difendeva. I socialdemocratici di destra intimidivano le masse lavoratrici affermando che le conseguenze di una qualsiasi rivolu­zione sarebbero state molte volte più gravi e dolorose della più profonda delle crisi. La rivoluzione, dicevano i socialdemocratici, avrebbe provocato la guerra civile, la sofferenza delle masse, la distruzione delle forze produttive. Con questi e con altri argomenti del genere la socialdemocrazia di destra cercava di distogliere gli operai di tendenze riformistiche dalla lotta attiva. La socialde­mocrazia temeva più di ogni altra cosa l'idea della lotta per il potere proletario, la rivoluzione, la guerra civile [9].

La socialdemocrazia di destra si limitava a porre soltanto al­cune modeste rivendicazioni parziali nell'interesse dei lavoratori. Così, in una speciale dichiarazione approvata dalla commissione congiunta dell'Internazionale operaia socialista e dell'Internazionale sindacale di Amsterdam, riunitasi nel gennaio 1931 a Zurigo, era detto che la socialdemocrazia appoggia «non la limi­tazione delle iniziative dello Stato nel periodo delle crisi econo­miche, ma i massimi stanziamenti per lavori produttivi...». In tal modo la socialdemocrazia si pronunciava a favore della regola­mentazione monopolistica di Stato, che avrebbe dovuto «attenua­re» le conseguenze della crisi. Si avanzava la parola d'ordine della lotta contro la riduzione dei salari e si proponeva anche di iniziare la lotta per la settimana lavorativa di cinque giorni «per creare così possibilità di lavoro per i disoccupati»[10]. I capi socialisti di destra esprimevano la preoccupazione che l'ulteriore riduzione dei salari e l'aumento della disoccupazione avrebbero soltanto ap­profondito la crisi e avrebbero creato una minaccia ancora mag­giore agli ordinamenti esistenti.

Al IV congresso dell'Internazionale operaia socialista (luglio-agosto 1931), l'attenzione principale fu dedicata non al problema della lotta contro l'offensiva del capitale, ma al modo di salvare la Germania dal crollo economico. Secondo i capi riformisti, pro­prio ciò avrebbe fermato l'offensiva del fascismo.

I capi socialdemocratici facevano di tutto affinché i lavoratori si astenessero dal partecipare agli scioperi. Essi avanzarono per­sino la parola d'ordine: scioperare durante la crisi è un delitto in quanto ciò porta ad un peggioramento ancora maggiore della condizione dei lavoratori. Appoggiando le misure antioperaie rea­zionarie dei governi borghesi, essi dichiaravano che era necessario fare questo in nome del «minor male», cioè per evitare il fascismo o «il radicalismo di sinistra». In realtà, invece, la linea della colla­borazione con i circoli moderati della grande borghesia portava a fare una concessione dopo l'altra alla reazione, a rinunciare alla lotta decisa contro l'offensiva del fascismo. La socialdemocrazia di destra riteneva i regimi parlamentari borghesi l'unico terreno sul quale era possibile realizzare la politica riformistica e perciò essa sosteneva questi regimi nonostante che essi negli anni della crisi divenivano sempre più reazionari e in una serie di paesi favo­rivano il processo di fascistizzazione.

Rimanendo inattiva di fronte alla pressione del fascismo, la socialdemocrazia di destra intensificava al tempo stesso la cam­pagna antisovietica e anticomunista. I capi socialdemocratici cercavano di annegare in un mare di menzogne e di calunnie la verità sul socialismo in via di costruzione nell'URSS. Essi pro­pagandavano intensamente la tesi che nell'URSS si costruiva «non il socialismo, ma il capitalismo di Stato» e che il piano quinquen­nale era soltanto un tentativo di compiere con metodi violenti ciò che era già stato fatto negli altri paesi capitalistici.

Attaccava rabbiosamente l'URSS e il movimento comunista anche K. Kautsky. Nel libro II bolscevismo in un vicolo cieco egli, avendo perso ogni idea dell'effettiva lotta di classe nel mondo, affermava che la controrivoluzione delle guardie bianche era meno pericolosa del bolscevismo. Kautsky giunse al punto di dichiarare che una delle cause principali della crisi nel mondo era il dominio del bolscevismo in Russia, la separazione del suo mercato dall'Eu­ropa industriale. Egli fu esplicito nel suo appello: «togliere di mezzo il bolscevismo... significa aprire la via della prosperità non soltanto alla Russia, ma anche a tutta l'Europa» [11]. Sul terreno dell'anticomunismo il rinnegato Kautsky finì per trovare un linguaggio comune con i sostenitori aperti della guerra imperia­listica antisovietica.

La politica di connivenza con la reazione e di persecuzione anticomunista seguita dai capi di destra della socialdemocrazia, portava ad approfondire la scissione della classe operaia, ad inde­bolirla di fronte all'offensiva della reazione.


NOTE

[1] X plenum Ispolkoma Kominterna, vyp. 1. Mezhdunarodnoie polozhenie i zadaci Kommunisticeskogo Internatsionala. M., 1929, pag. 210.
[2] Cfr. Mirovoie khosiaistvo v 1936 godu. Ezhegodnik, M., 1937, pagg. 180, 184, 188, 192, 200, 214, 222.
[3] E. Varga, Kapitalism i sotsialism za dvdatsat let. M. 1938, pag. 37.
[4] W. Foster, Ocerki mirovogo profsoiuznogo dvizhenia. M., 1956, pag. 385.
[5] ZPA IML, f. 495, op. 19, ed. khr. 242, 1. 14.
[6] Cfr. V. I. Lenin, Opere complete, cit., vol. 23, pag. 40.
[7] Sozialdemokratischer Parteitag in Leipzig - 1931 - Protokoll. Berlin, 1931, pag. 45.
[8] Das freie Wort, 1931, N. 29
[9] Julius Braunthal, Geschichte der Internationale, Bd. II. Hannover, 1963, pag. 384.
[10] Vorwärts, 27.I. 1931.
[11] K. Kautsky, Il bolscevismo in un vicolo cieco. Berlino, 1930, pagg. 110-152.