Palmiro Togliatti

Contro il regime democristiano,
per il rispetto del voto popolare

Discorso pronunciato il 27 luglio 1953 alla Camera dei deputati, sulle di­chiarazioni programmatiche di De Gasperi; il governo monocolore costituito da quest'ultimo non avrebbe ottenuto la fiducia al termine del dibattito. Alle dimis­sioni di De Gasperi sarebbe seguita, il mese successivo, la costituzione del go­verno Pella. Da Palmiro Togliatti, op. cit., pp. 612-638.


  Ella mi consentirà, signor presidente, e credo che molti di voi saranno consenzienti con me, onorevoli colleghi, nel rilevare il carattere strano, non del tutto normale di questa discussione. Ci sono state le elezioni. Con saputa lentezza, si forma e ci si presenta un nuovo go­verno. Sembra evidente che il compito dovrebbe consistere nel definire da un lato, contestare e dibattere dall'altro le grandi linee di una politica nuova, valida per tutta una legislatura o per lo meno valida fino a che modificazioni profonde non abbiano a prodursi. Pietra di paragone di questa politica dovrebbe essere prima di tutto la situazione reale del paese ed internazionale. Da essa dovremmo partire.

   Oserei anche dire che la lista dei particolari provvedimenti legisla­tivi, concreti, dovrebbe venire poi. Avremmo anche potuto rinviarla ad altri, successivi dibattiti, fatta eccezione forse, come si faceva nel passato, per quelle due o tre misure nuove, e di peso che servivano a dare alla politica proposta e al governo che la proponeva la sua fisionomia nuova.

   Oggi non vi è stato niente di questo. Il solo contributo serio, ampio, onesto che è stato dato secondo questo metodo alla elaborazione di una nuova politica nazionale, è stato quello dell'on. Pietro Nenni. Occorre riconoscerlo, egli ha indicato prima di tutto un indirizzo di governo, quindi ha accennato a un concreto programma anche legislativo e nelle grandi linee delle proposte che egli ha fatto, non può non consen­tire chi veda con chiarezza la situazione che oggi sta davanti a noi e le necessità che da essa derivano.

   Dalle altre parti, però, per lo più nulla di simile è stato fatto. Vi è stato chi ha sciorinato affermazioni programmatiche, che sono prive di qualsiasi efficacia, qui, per la stessa genericità demagogica che forse garantì loro qualche successo - onorevole Caroleo - nei comizi elet­torali.

   Altri, come l'onorevole Saragat, ha parlato in modo tale che rende ancora difficile distinguere chiaramente, in ciò che egli ha detto, la manovra politica condotta allo scopo di restaurare in qualche modo le compromesse sorti del suo partito dalla reale ricerca di un programma di governo nuovo, adeguato alla situazione del popolo e alla volontà popolare.

   Altri infine mi sembra abbiano già assunto il tono delle dichiara­zioni di voto, giungendo così immediatamente a quello che dovrebbe invece essere l'ultimo momento del dibattito, quello in cui si dice se si voterà a favore, o contro, oppure ci si asterrà.

   Nel complesso non si sfugge all'impressione non solo di una per­plessità profonda, di un'incertezza diffusa, ma anche di una vera dimi­nuzione della capacità di funzionamento dell'assemblea, quasi che attra­verso l'esperienza dei cinque o sei anni passati, quando tutti sapevano, all'inizio di un dibattito, quale ne sarebbe stato l'esito, sia andata non dico perduta, ma ridotta la capacità dell'assemblea parlamentare di ela­borare seriamente - attraverso il contrasto delle opinioni, il confronto dei programmi e l'esame dei fatti - una giusta linea politica; perduta o ridotta la capacità di chinarsi sui dati della situazione, di cogliere i desideri, le aspirazioni del popolo, di avvertire quei sussulti dell'animo popolare che annunciano alle volte cose assai più gravi.

   Non stupisce che sia andata perduta questa capacità nel partito democratico cristiano, il quale trasse il maggiore beneficio e insieme il più grave danno dalla preesistente situazione di maggioranza assoluta precostituita a suo favore. Questo partito in sostanza ha tentato, attra­verso l'approvazione della legge elettorale maggioritaria e attraverso la campagna elettorale, quello che ha potuto essere chiamato, e non soltanto da parte nostra, un colpo di Stato. Ha tratto il bilancio del risultato elettorale con le dichiarazioni del proprio segretario, piene di tracotante sicurezza, al legger le quali sembrava non esistessero più né per esso né per il parlamento altri problemi che quello di andare avanti a governare come aveva governato finora. Qui invece, dopo le dichiarazioni fatte dal presidente del consiglio, i suoi oratori sono stati piuttosto campioni di estrema incertezza, per cui sembrava andassero solo implorando pietà, tranquillità e voti per il vecchio uomo di governo che hanno voluto porre alla prova di questo dibattito e mandare allo sbaraglio della votazione che avrà luogo domani.

   Stupisce invece che un imbarazzo simile e un certo grado di incapacità di adeguarsi alla situazione del paese, affiorino negli altri partiti, quasi vi fosse in essi sfiducia in se stessi e perfino sfiducia nell'istituto parlamentare, come se noi, dopo una battaglia elettorale quale quella che si chiuse il 7 giugno, non fossimo più in grado di elaborare, attra­verso una discussione approfondita, le grandi linee di una politica na­zionale.

   Non è vero: il parlamento è in grado di fare questo e lo farà. Lo farà anzi tanto più rapidamente quanto più presto ci libereremo dai fantasmi delle maggioranze assolute precostituite, le quali veramente sono quelle che hanno intaccato, indebolito, in parte perfino distrutta la capacità di funzionamento dell'istituto parlamentare.

   La colpa più grave di questa situazione, in sostanza, credo ricada sul presidente del consiglio, nuovo e vecchio. Egli ci ha dichiarato che non ha maggioranze precostituite e cercherà una maggioranza caso per caso. È un sistema che venne talora adottato nel passato, e nel nostro paese e in altri paesi a governo parlamentare, per affrontare situazioni gravi, nel corso di una legislatura nella quale si fossero realizzate deter­minate rotture politiche, e fossero quindi sorte situazioni nuove. Mai una posizione simile è stata presa deliberatamente all'inizio di una nuova legislatura, e dopo una così solenne consultazione elettorale. In questo modo si cade sin dall'inizio nella inconsistenza completa.

   Tanto meno è ammissibile questa posizione del nostro presidente del consiglio in quanto egli sembra non accorgersi che nel parlare di maggioranze di ricambio, le quali dovrebbero permettergli di ottenere di volta in volta il maggior numero di voti, che una di queste maggio­ranze dovrebbe derivare dall'apporto al proprio partito, a lui, a deter­minate sue proposte o a certi aspetti della sua politica, dal partito mo­narchico, il quale, per definizione stessa, si colloca non dico al di fuori, ma contro l'ordinamento costituzionale del nostro Stato.

   Voci a destra. No! No!

   Togliatti. Il nostro Stato è uno Stato repubblicano, ed io non credo che voi siate monarchici per altra cosa che non sia quella di preparare un rovesciamento del regime repubblicano e il ritorno all'ordi­namento monarchico.

   Lucifero. Riforme costituzionali!

   Togliatti. Perfettamente. Ma per questo io dico che un presidente del consiglio della repubblica non può dichiarare che fra le proprie maggioranze di ricambio prevede una maggioranza la quale possa essere formata da una parte con l'apporto di voti che avrebbero come condi­zione la preparazione di un più o meno lontano rivolgimento del nostro attuale ordinamento costituzionale.

   La vera questione è che lo stesso onorevole De Gasperi si è troppo abituato a lavorare sul dato immutabile di una maggioranza assoluta nella Camera dei deputati. Egli si è troppo abituato a precostituire le maggioranze al di fuori dell'assemblea parlamentare, come avvenne l'anno passato, per esempio, nei mesi di estate, per la legge elettorale maggioritaria, e tutto il parlamento soffrì di quello che venne fatto allora dall'onorevole De Gasperi violando le corrette norme di funzio­namento del nostro parlamento.

   Oggi dopo una consultazione del paese, nel momento in cui gravi problemi incombono all'interno e sull'arena internazionale, una maggio­ranza può costituirsi soltanto attraverso il confronto onesto, obiettivo dei programmi dei singoli partiti e attraverso la ricerca di una linea comune che dia una soluzione almeno alle più gravi delle questioni che stanno davanti a tutti.

   Nella sua dichiarazione programmatica il presidente del consiglio ha creduto di poter superare questa questione e toglierla persino, direi, dalla scena del dibattito, dichiarando che la situazione oggettiva non è cambiata. Ma che cosa è la situazione oggettiva? È vero, non è scop­piata una guerra, non è scoppiata ancora una profonda crisi economica, non sono in corso movimenti di masse i quali rompano la legalità del­l'ordinamento dello Stato. Tutto questo è vero, ma la situazione ogget­tiva è un'altra cosa, o almeno deve essere un'altra cosa per l'uomo di Stato e di governo attento e responsabile. La situazione oggettiva risulta da un complesso di fattori che sono in continuo sviluppo, alle volte graduale, alle volte attraverso salti e rotture. È uomo di Stato e uomo di governo capace colui che sa cogliere il momento preciso di questo sviluppo e ad esso adattare un'azione. La situazione di oggi non è quella di un anno fa, né all'interno né internazionalmente. Non solo, ma se noi prendiamo a esaminare la situazione che l'onorevole De Gasperi ebbe davanti a sé da quando è alla testa del governo italiano, direi che ogni anno la situazione è cambiata. Vi fu, nel 1947, la euforia degli aiuti americani, presto scomparsa lasciando tracce amare. Vi fu, nel 1948, la euforia della vittoria schiacciante della Democrazia cristiana e del tentativo di porre al di fuori della legalità il partito comunista, severamente colpendolo con misure di persecuzione e di repressione illegittime. Poi vi furono i gravi fatti della fine del 1948 e del 1949 che indussero a parlare della necessità di un nuovo tempo di sviluppo dell'azione governativa, ma poco di nuovo e poco di buono ne venne fuori. Nel 1950 scoppiò la guerra in Corea, dalla quale si tentò, ma invano, di derivare per il nostro paese, una formula che servisse per mettere al bando le grandi organizzazioni politiche e sindacali dei lavo­ratori e creare, quindi, una situazione di tipo fascista.

   In sostanza la sola cosa che non è cambiata in tutti questi anni è il fatto che l'onorevole De Gasperi è sempre stato lui alla presidenza del consiglio, ma non mi pare che questo basti a caratterizzare una situazione oggettiva.

   Nel momento attuale stanno davanti a noi e attirano la nostra attenzione perlomeno alcuni problemi fondamentali da cui sta matu­rando, e nell'ordine delle cose e nell'ordine delle coscienze e delle vo­lontà, una situazione profondamente diversa da quella che esisteva pri­ma del voto del 7 giugno.

   In questo ordine di idee, i punti su cui desidero attirare l'atten­zione della Camera sono essenzialmente questi: la stagnazione econo­mica del paese nei suoi aspetti sempre più evidenti e gravi; la inade­guatezza del tenore di vita della maggior parte dei lavoratori italiani; una grave situazione che matura nelle fabbriche, per quanto riguarda i rapporti di salario e per quanto riguarda i rapporti tra il padronato e le maestranze; il maturare di una situazione altrettanto e forse più grave ancora nelle campagne e, in particolare, nel Mezzogiorno; ultimo elemento, infine, una crisi evidente del nostro ordinamento legale, cioè dei rapporti tra i cittadini e lo Stato in tutto quello che è l'ambito dei diritti garantiti dalla Costituzione. Permettetemi di consacrare brevi considerazioni a ciascuno di questi elementi.

   L'on. De Gasperi ha detto che, in base a studi fatti da determinati organismi, che egli non ha meglio precisato, prevede, nei prossimi cin­que anni, un aumento della produzione industriale italiana del 40% e della produzione agraria del 15%. Chi abbia elaborato questi dati, sopra quali basi concrete di previsione si sia giunti a queste cifre noi non sappiamo e non sapremo. Ci si trova quindi subito di fronte a una profonda contraddizione che tocca la impostazione generale della politica del partito di maggioranza. O si accetta il principio di una certa pianificazione dell'economia e in questo caso se ne devono accet­tare tutte le conseguenze e il principio deve essere applicato in un modo serio, creando gli istituti all'uopo adatti, facendoli funzionare e informando il paese dello sviluppo delle cose in modo da mettere tutti i cittadini, e in modo particolare i lavoratori, in condizione di poter giudicare e dare il loro contributo, oppure si rinuncia a una piani­ficazione qualsiasi. Buttare là una simile cifra senza che esista una mi­nima parte di ciò che ho indicato come necessario fondamento di essa, francamente non è serio. La realtà, purtroppo, è ben diversa. La realtà è che ci troviamo di fronte, e questo è forse il fatto economico di più grave peso che sta davanti a noi, a una decadenza palese dell'indu­stria italiana e quindi di tutta la nostra vita economica. Guardiamo le cifre. Esse non sono nostre, ma di istituti statistici nazionali e inter­nazionali. Dal 1937-39 al 1951 in Italia l'occupazione industriale è di­minuita del 2,2%, mentre la popolazione, nello stesso periodo, è aumen­tata del 6,8%. Acciocché le cose risultino più chiare, sarà bene ricorrere a un confronto mettendo accanto alle cifre che ho letto quelle di altri paesi europei, pur essi capitalistici. In Austria l'occupazione industriale è aumentata nel 1951, rispetto al 1938, del 69%, in Olanda del 62%, in Norvegia del 57%, in Danimarca del 55%, in Svizzera del 50%, in Finlandia del 40%, in Svezia del 35%, nella Germania occidentale del 24%, in Inghilterra del 20%, in Francia del 14%. Noi abbiamo invece una cifra negativa e tanto più negativa se la mettiamo in rap­porto con l'aumento della popolazione. Se prendiamo cifre più recenti, se confrontiamo cioè indici della occupazione industriale di anni più vicini, del periodo che passa dal '48 al '51, il quadro è analogo ed è anche qui spaventoso. Nella Germania occidentale, in questi tre ultimi anni, abbiamo un aumento della produzione industriale del 24%, in Austria del 22%, in Danimarca del 14%, in Olanda del 12%, in Norve­gia del 9%, 'in Finlandia del 7%, in Inghilterra del 6%, in Francia del 5%, in Svezia del 3%. In Italia abbiamo invece una diminuzione dell'1%.

   Le cifre diventano poi ancora più preoccupanti se ci limitiamo ad un settore dell'industria, che è per noi il più importante, quello meccanico. Vi è una caduta continua del peso di questa industria nel quadro generale della nostra attività produttiva.

   La percentuale del prodotto netto dell'Industria meccanica sul to­tale del prodotto netto industriale mentre era del 21 per cento nel 1938, è del 18,8 per cento nel 1952. Dato tanto più grave, questo, se d'altro canto si considera qual è lo stato degli impianti di tutte o quasi tutte le branche della nostra industria. È constatazione generale che ci troviamo di fronte a impianti che debbono essere rinnovati, che son eccessivamente vecchi, logori, che non resistono a un confronto internazionale.

   Questo è oggi il problema più grave dell'economia italiana. La nostra industria sta decadendo. Noi stiamo attenuando, in parte per­dendo, la nostra caratteristica di grande paese industriale. Quali le cau­se? Lascio da parte, abbandono agli storici che si occuperanno di queste cose negli anni futuri le considerazioni più generali che potrebbero essere fatte circa l'intenzione, che possa esserci in determinati gruppi delle nostre classi dirigenti, di diminuire il peso della nostra economia industriale, perché questo significa anche diminuire il peso specifico della classe operaia nella vita della nazione.

   Non giungo a considerazioni di questa natura, quantunque sappia che in Italia queste cose nel passato sono avvenute, quando venne posto consapevolmente un freno allo sviluppo capitalistico e manifatturiero, per favorire forme economiche più arretrate. Questa è stata, in sostanza, da noi, la politica economica della Controriforma. Ma questo è un tema molto più vasto. Fermiamoci per ora a considerare che la nostra indu­stria si è sviluppata tardi e che in una situazione economica di debolezza generale si sono troppo presto formati i nodi monopolistici che sono diventati alla fine strozzature dello sviluppo di tutto il nostro sistema industriale. Non si deve mai dimenticare che dal 1925 in poi l'industria italiana si è sviluppata in regime di soppressione di tutte le libertà sindacali, e in regime di corporativismo, cioè del prevalere di una corru­zione paternalistica attraverso la quale l'industriale, protetto dalle istan­ze governative, riusciva a vivere con le commesse statali. Oggi, in so­stanza, siamo ancora a questo punto. La situazione che esistette al tempo del corporativismo fascista è ancora l'ideale dell'industriale italiano, che è democristiano oggi con lo stesso animo con cui ieri aderiva e appog­giava il partito fascista. Occorre uscire da questa situazione; ma, per uscirne occorrono cose nuove.

   Le cose nuove potevano essere due: la libertà del movimento sin­dacale e l'attuazione delle riforme scritte nella Costituzione repubbli­cana. Il movimento sindacale è divenuto libero, sì; però questa libertà sindacale voi avete l'intenzione di limitarla e di sopprimerla. Come compenso, inoltre, alla libertà sindacale che i lavoratori si sono conqui­stata attraverso la lotta con cui hanno abbattuto il fascismo e respinto l'invasione straniera, come compenso a favore degli industriali per la conquista della libertà sindacale, voi avete completamente abbandonato la vecchia posizione liberale e democratica della neutralità e imparzialità dello Stato e degli organi governativi nei conflitti del lavoro. Comple­tamente l'avete abbandonata! Non appena si accenna un conflitto pro­fondo del lavoro non appena una grande organizzazione sindacale avan­za, per esempio, una richiesta di aumento di salario, prima ancora che le forze si siano affrontate non dico in una serie di scioperi, ma persino in un dibattito, interviene il presidente del consiglio a dire che questo aumento di salario non è possibile. Quanto più si scende, tanto più le cose diventano intollerabili. In qualsiasi conflitto del lavoro, sia esso dell'industria, o dell'agricoltura, alla porta delle officine dove gli operai manifestano per chiedere lavoro, sull'aia dove i contadini chiedono una più equa ripartizione del prodotto e, spesso, non rivendicano altro che l'applicazione delle leggi, voi trovate le forze della polizia, gli uomini armati dallo Stato che stanno a difesa non dei principi sociali della Costituzione, ma a difesa del privilegio sociale, della prepotenza, del padronato! Ecco la situazione in cui oggi si svolge la nostra vita sociale.

   L'altra cosa nuova erano le grandi riforme di struttura previste dalla Costituzione. Esse sono state tutte messe in disparte. L'orienta­mento di politica economica di tutti i governi che si sono succeduti dal 1947 in poi è stato determinato da un assurdo feticismo liberista, al di sotto del quale, poi, esiste una realtà corporativa. Questa è la sostanza della vita economica italiana al giorno d'oggi. Nessuna lotta contro questi nodi monopolistici che strozzano lo sviluppo della nostra industria e di tutta la nostra economia. Nemmeno un accenno a quella lotta contro i monopoli che la nostra Costituzione prevede debba andare fino alla nazionalizzazione. Nessuno accenno all'introduzione di quel con­trollo democratico sulla produzione che deve partire dal luogo di lavoro attraverso la partecipazione attiva di tutti gli elementi della produzione, per riuscire a conoscere, per lo meno, come si formi il profitto, e quindi sapere come si debba mantenere allo sviluppo e alla distribuzione delle ricchezze un carattere sociale, quale richiede la nostra Costituzione. Né si tratta solo di leggi, che però non sono mai state approvate.

   Si tratta di avvicinare allo Stato le grandi organizzazioni sindacali e le grandi masse di lavoratori che fanno capo a queste organizzazioni. Soltanto in questo modo le istanze di riforma della struttura economica del nostro paese si potranno attuare, soltanto in questo modo la lotta contro le classi privilegiate potrà essere condotta con serietà e senza demagogia, perché si potrà attribuire ai lavoratori e alle loro organizza­zioni la loro responsabilità, renderli coscienti di essa, non dico renderli partecipi del potere (che questo è problema di altra natura), ma per lo meno farli consapevoli del modo come si sviluppano le cose econo­miche, e capaci quindi di dare un contributo effettivo alla trasforma­zione delle strutture del paese. Solo in questo modo si possono creare condizioni favorevoli per quelle profonde riforme della nostra economia le quali ci devono consentire di superare lo stato di stagnazione, di crisi incipiente, di decadenza industriale e di decadenza agraria nel quale oggi ci troviamo.

   Per quanto si riferisce al tenore di vita delle popolazioni e dei lavoratori, sono noti a tutti i risultati delle grandi inchieste che sono state fatte sulla disoccupazione e sulla miseria.

   Oramai è diventato quasi un luogo comune che il tenore di esi­stenza della maggioranza degli uomini che in Italia vivono soltanto di lavoro è inadeguato e insopportabile. Ma quali vie si possono seguire per affrontare e risolvere anche questo problema? Un arricchimento generale di tutta la nostra società, che si produca rapidamente, non è oggi prevedibile. Il paternalismo di partito, d'altra parte, che è in sostanza la soluzione che voi avete adottato, o che almeno una parte di voi sostiene, dicendo che per questa strada riuscireste a ostacolare lo sviluppo del movimento comunista e socialista, si è rivelato cosa contraddittoria e inconsistente. Esso da un lato può portare, sì, al soddi­sfacimento temporaneo di qualche bisogno urgente di qualche gruppo di cittadini, ma dall'altro lato crea problemi ancora più acuti di ingiu­stizia e quindi distrugge le basi della democrazia. Il risultato ultimo lo avete veduto. La grande maggioranza degli operai, dei lavoratori e del ceto medio disagiato si orienta verso questi nostri partiti, cerca in noi una guida per risolvere i problemi fondamentali dell'economia e della politica italiana.

   Una giusta e larga politica sociale non è possibile se non attraverso la collaborazione diretta con gli organismi dello Stato e del governo delle grandi associazioni dei lavoratori. Ma per questo si richiede un capovolgimento totale delle posizioni del governo prima di tutto e poi di tutti gli apparati statali e governativi verso le grandi organizzazioni politiche e di massa degli operai e dei lavoratori. Lo Stato deve smet­terla di concepirsi e di essere lo Stato dei privilegiati, lo Stato dei ricchi. Lo Stato italiano deve diventare lo Stato di tutti, ma prima di tutto dei lavoratori. Il governo deve diventare il governo che proteg­ga i poveri, gli indigenti, i diseredati, i privi di lavoro, i giovani. Sol­tanto quando si sia compiuta questa trasformazione politica, potranno essere fatti passi seri nella direzione di una grande ed efficace lotta contro la miseria, con misure economiche e sociali adeguate.

   In questa situazione economica, maturano nelle fabbriche e nei campi situazioni nuove e gravi. Al fatto oggettivo qui si unisce il fatto di coscienza e di volontà, il fatto politico. Da un lato vi è il grande padronato industriale e agrario, il quale cerca una via di uscita dalla situazione persistendo nella vecchia strada. Vuole un governo reazio­nario di tipo corporativo che faccia i suoi interessi e mobiliti la forza armata contro i lavoratori quando questi rivendicano anche una sola parte dei loro diritti. Vuole ciò che chiama accrescimento della produtti­vità e che è aumento ad ogni costo e oltre ogni limite dello sfruttamento della mano d'opera. Vuole, quindi, la soppressione delle libertà fonda­mentali del cittadino, quando esse riguardano l'operaio che entra a lavo­rare e lavora in fabbrica.

   Di qui una situazione politicamente piena di pericoli e anche tra­gica! Ma non leggete ogni giorno le notizie terrificanti di operai che perdono la vita perché non vi sono misure di sicurezza; perché per ottenere da loro un prodotto maggiore si è intensificato in tal modo il ritmo della loro attività, che qualsiasi misura di sicurezza diventa inefficace? Non colpisce il vostro cuore l'impressionante aumento degli infortuni sul lavoro, per cui il nostro paese anche in questo campo fa eccezione rispetto a tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale?

   Dall'altro lato vi è ormai la generale, la giusta, sacrosanta insoffe­renza degli operai delle nostre grandi officine per il regime a cui sono sottoposti, per cui l'operaio, quando entra in fabbrica, può essere per­quisito senza ordine di nessuno, per ordine del padrone, può essere perquisito in qualsiasi momento, durante il lavoro e all'uscita dal lavoro, può essere cacciato dalla fabbrica se gli si trova in tasca un giornale socialista o comunista o la tessera di una organizzazione politica.

   Una voce dal centro. E le armi!

   Togliatti. Voi vi irritate, onorevoli colleghi, ma credete davvero che in questo modo, in un paese civile, si possa durare a lungo? Io vi rispondo di no, che non si può durare a lungo.

   O si provvede in altro modo, modificando la situazione politica e iniziando quelle trasformazioni della situazione economica che devono creare condizioni nuove per gli operai e per le grandi masse lavoratrici, altrimenti è inevitabile che si vada incontro a conflitti di lavoro sempre più acerbi. Avete avuto ieri uno sciopero di 600 mila tessili. Avete oggi in agitazione quasi tutte le officine del nord in sacrosanta lotta per la difesa delle libertà del cittadino nelle fabbriche. La previsione è che, se si va avanti per questa strada, si avrà un periodo di grandi movimenti, in cui operai e padronato si affronteranno con le unghie e con i denti, con danno per la sicurezza, per la quiete pubblica, per tutto l'ordinamento politico e sociale del paese.

   Nelle campagne, la situazione è forse anche più matura per movi­menti nuovi, gravi, che porranno davanti ai governanti e davanti a noi questioni che dovranno ad ogni modo essere risolte.

   Ciò che è stato fatto nel campo della riforma agraria ha posto dei problemi, ma non li ha risolti; ha accresciuto la fame di terra di masse sterminate di contadini e non ha risolto le questioni dell'orga­nizzazione dell'azienda dell'assegnatario, il quale si trova oggi quasi dap­pertutto in lotta aspra contro gli enti che hanno fatto la riforma e contro i vecchi padroni.

   In altre zone, dove le limitatissime leggi di riforma agraria non hanno ancora iniziato la loro applicazione, i rapporti si acutizzano in­torno al problema dei contratti agrari. Avete tutta la pianura padana irrigua, dove sta emergendo la questione dei rapporti tra i salariati fissi e l'azienda. La ricerca fatta in questa direzione scopre che ivi esi­stono sopravvivenze vergognose di rapporti inumani tra proprietari di terre, tra i ricchi conduttori di fondi e i salariati che vivono sull'azienda. Si tratta di problemi che non possono essere più rinviati perché vi sono masse di uomini, migliaia e migliaia di famiglie che vogliono vivere in modo diverso e ci riusciranno. A questi si affiancano i problemi delle popolazioni agricole del grande arco alpino, popolazioni che esse pure, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni, si stanno risve­gliando, forse in maniera più lenta di altri strati della popolazione lavo­ratrice, ma avanzano anch'esse e chiedono qualche cosa di nuovo.

   La previsione è che nel campo agrario o si affrontano tutte le questioni con un assieme di misure che consenta di fare un passo avanti sulla strada indicata dalla Costituzione della repubblica, altrimenti avre­mo anche qui una situazione acutissima e nuove lotte verranno aspra­mente combattute, con danno per tutta la collettività nazionale.

   Infine, una delle più gravi questioni che stanno oggi davanti a noi è quella che ho chiamato dell'ordinamento legale dello Stato, cioè della posizione di tutti i cittadini di fronte allo Stato, dei rapporti tra i cittadini e lo Stato.

   Siamo arrivati a un punto tale che oggi non vi è certezza di nessuna delle libertà scritte nella nostra Costituzione, quando il cittadino chiede di esercitarle, e vuole esercitarle in modo che non sia gradito ai gover­nanti e al ceto privilegiato. Gli esempi sono infiniti e li conoscete. Ancora oggi voi sapete che dal 7 giugno viviamo in un regime di piccolo stato di emergenza: sono proibiti tutti i comizi pubblici. E badate che, con la temperatura che vi è oggi, non vi era alcun partito il quale si proponesse una campagna nazionale con comizi. La proibizione è stata fatta unicamente perché si voleva affermare che nonostante il po­polo avesse votato, la polizia doveva avere infine il sopravvento.

   Esaminate i conflitti di lavoro che hanno avuto luogo nelle ultime settimane e che sono tutti legati alla chiusura di nuove fabbriche, al licenziamento di nuove decine e centinaia di operai. In tutti questi conflitti, ancora una volta, le forze armate dello Stato, le autorità go­vernative, il prefetto, il questore, il maresciallo dei carabinieri, la celere, sono mobilitati a difesa dei ceti privilegiati, contro l'operaio che non chiede altro se non lavoro e pane.

   Abbiamo una Costituzione e delle leggi che garantiscono le auto­nomie delle amministrazioni locali. Non vi è campo dove in modo più spudorato la Costituzione e le leggi non siano messe sotto i piedi. Potrei qui parlare per un'ora, citando gli esempi di amministratori comunali sospesi, destituiti, di amministrazioni sciolte e non perché si siano commessi reati, perché in questo caso vi sarebbe una giustificazione legit­tima, no, unicamente perché si è fatto qualcosa che non andava a genio all'autorità governativa, all'autorità di pubblica sicurezza, del prefetto, del maresciallo dei carabinieri. Ecco il caso di un sindaco sospeso perché nel refettorio della fabbrica in cui lavora, quale membro della commis­sione interna, ha invitato gli operai a protestare contro la legge truffa. Eccone un altro, sospeso perché ha preso le difese di una organizzatrice di operaie alla quale il maresciallo dei carabinieri aveva notificato il foglio di via obbligatorio. Questo è il regime nel quale viviamo in Italia! Vi è il foglio di via obbligatorio per una organizzatrice di operaie che abbia fatto qualche cosa di inviso al proprietario della fabbrica o all'agrario locale. Ecco un altro sindaco sospeso, e poi rimesso, per aver partecipato a una manifestazione popolare contro la legge truffa; eccone un altro sospeso per aver autenticato le firme di un referendum contro la legge truffa, mentre questo era suo dovere, come pubblico ufficiale comunale. Eccone un altro, sospeso per tre mesi perché ha «consentito» che i dipendenti comunali si astenessero dal lavoro per un'ora in occasione della morte del compagno Stalin. Un altro, sospeso per tre mesi per aver proposto al Consiglio comunale la votazione di una mozione contro la legge truffa: una simile mozione, credo, è stata approvata anche dal parlamento sardo e dal parlamento siciliano; ma il sindaco, qui, è stato sospeso. Un altro è sospeso per aver parlato sulla legge elettorale ai dimostranti che si erano portati sotto gli uffici del municipio. Un altro ancora perché il 1° maggio rivolse, dal balcone del municipio, un saluto ad un corteo di lavoratori.

   Potrei continuare per un'ora: questo è il regime infame nel quale oggi viviamo. Se ne accorgono, le autorità cui spetta la tutela della nostra Costituzione? Che cosa è necessario ancora, perché se ne accor­gano?

   Debbo riconoscere che questa denunzia non viene oggi solo da parte nostra. Ho rilevato con soddisfazione che anche la rivista del partito socialdemocratico, la Critica sociale, ha preso posizione, e aspra­mente, su questi problemi, con un articolo di Gaetano Salvemini, il quale elenca altri numerosissimi casi di aperta violazione della legalità a danno delle amministrazioni locali. Si è arrivati al punto che un sin­daco è stato sospeso perché in occasione della visita pastorale dell'arci­vescovo di Chieti «serbava un contegno di ostentata indifferenza». Uno Stato in cui una misura simile può esser presa non è più uno Stato democratico. Qui si ritorna a prima del 1870.

   Vi è poi il regime di discriminazione tra i cittadini, di guerra fredda contro una parte della popolazione, che abbiamo denunciato durante la campagna elettorale, e che va dalle cose più piccole alle cose più grandi.

   Dalle cose più piccole. Guardate: se uno di voi va chiedere il passaporto alla questura della Camera, glielo danno per tutti i paesi; sul mio, cancellano l'Austria. Perché non posso andare - che so io? - a fare esercizi di sci a Zell am See, onorevole De Gasperi, se questa è una cosa che mi diletta? Perché sono un comunista, i miei diritti sono diversi da quelli che avete voi. I diritti degli uomini che siedono in questo settore, forse perché sono sempre stati e sono migliori com­battenti della libertà di quanto voi non siate stati, sono minori dei vostri.

   Ho citato un fatto piccolo, di scarso valore, insignificante anche per un uomo come me che ha passato tutte le frontiere senza avere passaporto di sorta e che, se occorra, è ancora capace di farlo. Ma la discriminazione diventa cosa intollerabile quando essa è norma di condotta degli uffici che organizzano il lavoro, l'assunzione, il collocamento, i corsi di qualificazione per disoccupati, oppure de­gli organismi che organizzano l'assistenza ai bambini dei lavoratori. Siamo arrivati a questo, che nella repubblica italiana, governata da un partito che si chiama democratico e cristiano, alle grandi organizzazioni di massa dei lavoratori è negato l'aiuto dello Stato quando esse vogliono organizzare con le proprie forze l'assistenza ai figli dei propri soci. Que­sto, che è un elementare diritto democratico, a loro è negato. Noi non facciamo parte dello Stato democratico cristiano. Le tasse naturalmente le paghiamo, diamo anche noi il denaro che serve a organizzare l'assi­stenza, ma ci è negato quello che è uno dei diritti che il movimento operaio ha rivendicato a se stesso dai primi suoi passi. Liberali e demo­cratici di tutte le tendenze riconobbero sin da un secolo fa che doveva esser riconosciuto ampiamente questo diritto, perché questo apriva la via alla formazione di organismi nuovi, che in questo modo si afferma­vano nel campo civile, anche prima che nel politico. Oggi, da noi, questo diritto ai lavoratori non è più riconosciuto.

   E non parliamo di ciò che avviene nel campo della cultura, del­l'arte, della scuola, del modo come viene esercitata la censura, come vengono calpestati i diritti e le libertà dei professori delle scuole medie, dei professori universitari, degli scrittori, degli attori cinematografici. Tutto in questo campo viene risolto secondo un criterio di discrimi­nazione. Siete o non siete a favore del regime dominante? Siete o non siete della gente che simpatizza con i reprobi che siedono all'estrema sinistra di questo parlamento? Accettate o non accettate il vangelo stupido dell'anticomunismo fazioso? Da questo dipendono tutti i vostri meriti e tutti i vostri diritti!

   Si giunge in questo modo fino a fatti estremi che offendono pro­fondamente la dignità nazionale e l'onore del cittadino, come, per esem­pio, le dichiarazioni fatte all'inizio di giugno dal generale di corpo d'ar­mata signor Efisio Marras, capo di stato maggiore dell'esercito ad Ate­ne, dove egli ha osato dire in un'intervista pubblica che «le autorità militari italiane esercitano un controllo così severo sui comunisti dipen­denti dagli organismi ad essi sottoposti da non potersi ritenere che tali elementi di sinistra costituiscano in qualche modo una minaccia per la sicurezza nazionale».

   Questo ha osato dichiarare questo generale ai fascisti che lo interro­gavano ad Atene.

   Onorevoli colleghi, soltanto qui, nell'ambito del nostro gruppo parlamentare, vi sono quattro compagni nostri decorati di medaglia d'oro al valor militare, e due di essi sono donne. Possiamo quindi guar­dare da una certa altezza, noi, questo generale di corpo d'armata i cui servizi di guerra - che non so se esistano - devono per lo meno essere cercati molto lontano nel tempo! Di questo generale ha potuto es­sere detto, nell'Assem­blea costituente della nazione italiana, dall'onore­vole Pacciardi, che faceva parte di una «cricca monarchica». La sua car­riera non soltanto egli l'ha fatta negli uffici - il che sarebbe anche leci­to - ma negli uffici di collegamento coi nazional-socialisti hitleriani, presso i quali fu per dodici anni addetto militare. Questi sono stati i soli suoi meriti quando si è trattato del suo avanzamento. Credo egli sia stato l'ini­ziat­ore della proposta di invio di aerei italiani ai bombardamenti hitle­riani di Londra. Certamente fu nel novero dei consiglieri musso­liniani du­rante quel convegno di Feltre, nel 1943, dove furono poste, purtroppo, alcune delle premesse dell'invasione d'Italia, da parte dei tedeschi. Lo so che dopo fu arrestato dalle autorità repubblichine. Ma sapete che cosa gli è capitato, allora? Era rinchiuso non so in quale casa di pena del Piemon­te meridionale ed è stato proprio un battaglione di partigiani comandato da comunisti che l'ha messo in libertà. Quei nostri compagni, tra i i quali vi sono alcuni dei migliori dirigenti delle nostre organizzazioni piemontesi, ebbero allora lo spettacolo degradante di questo generale che con voce bianca, rotta dall'emozione, diceva loro che avrebbe dato a ciascuno di loro la medaglia al valor militare! E i nostri compagni adirgli che stesse tranquillo, perché era ancora in corso il com­bat­timento, si doveva ancora battere il nemico, e alcuni versarono il loro sangue in quell'azione. Questo è l'uomo che dovrebbe controllare i co­munisti!

   On. Codacci Pisanelli, signor ministro della difesa io non so se sia vero, e mi auguro che non corrisponda a verità, la voce che corre oggi nell'esercito italiano e cioè che Ella sia stato destinato a quel posto perché fra i differenti candidati risultò il solo che sappia parlare cor­rentemente l'inglese. Onorevole Codacci Pisanelli, si ricordi qualche volta di parlare italiano. Agisca da italiano alla testa del nostro esercito, liberi l'esercito italiano da questi inveterati servitori di qualsiasi stra­niero, i quali non possono insegnare alla nostra gioventù che sta sotto le armi né l'amor di patria, né la fierezza, né lo spirito di sacrificio...

   Da questo complesso di questioni economiche e politiche, di pro­blemi non risolti, di situazioni che si stanno aggravando e che già esplo­dono in inquietudini diffuse, di minacce che incombono nel campo og­gettivo e nel campo delle coscienze deriva la situazione che sta oggi davanti a noi. Di qui è uscito il voto del 7 giugno sul quale non voglio svolgere ampie considerazioni, perché già sono state svolte da altri ora­tori. Vi invito soltanto a non voler troppo sottovalutare il voto che noi abbiamo avuto e a non sopravvalutare il vostro. Tenete conto delle condizioni in cui noi abbiamo lavorato e combattuto e in cui avete lavorato e combattuto voi. Contro di noi fu mobilitato l'apparato dello Stato, con tutti i suoi mezzi, dall'apparato della propaganda giornalistica o radiofonica, fino alla Banca d'Italia e ai prefetti, i questori, e via via. Voi avete avuto tutte queste leve al vostro servizio e in più la mobilitazione totale, contraria alla legge, delle autorità religiose. Non sopravvalutate dunque il vostro voto, e non sottovalutate il nostro. Lo so, ci sono stati per voi, alle volte, risultati impressionanti. Ho qui per esempio, i risultati di sei sezioni di Torino nelle quali erano iscritti 3.131 elettori e nelle quali voi avete raccolto - è innegabile - 3.021 voti, mentre agli altri sono andati poco più di cento voti. Però, si tratta di sei sezioni organizzate nell'ospedale del Cottolengo, che è un ricovero di cronici, di malati incurabili, di morenti e anche di mentecatti, dove il prestigio dell'autorità ecclesiastica, che organizza il voto di questi poveretti, non può nemmeno essere controllato oltre che messo in dubbio.

   Ha ragione l'onorevole Nenni, quando osserva che in sostanza il voto che voi avete ottenuto più che altro indica qual è la superficie sulla quale in Italia ancora agisce la soggezione politica di determinate parti della popolazione all'autorità religiosa. Non è vero quello che di­ceva il collega dell'estrema destra che per noi avrebbero votato gli uo­mini e per il partito democratico cristiano le donne. Hanno votato 15 milioni e mezzo di donne, tredici milioni e mezzo di uomini. Se si prende la cifra dei vostri voti si vede che rimangono fuori ancora quattro milioni di donne che non hanno votato per voi, anche se si ammette che tutti i vostri voti siano femminili. Ma questa affermazione non è esatta perché per voi ha votato senza dubbio una notevole parte del­l'elettorato maschile. Vero è che anche in questo campo il nostro paese ha fatto un grande passo avanti.

   Alle volte, osservando come in sostanza la sfera di influenza asso­luta delle autorità religiose sul corpo elettorale si stia riducendo sempre più, mi sorprendo a pensare che voi in fondo state adempiendo in Italia a una funzione positiva. Ricordo cosa era l'Italia della Controriforma, l'Italia paternalistica e pretina del 700. Nell'800 il popolo italiano volle creare il proprio Stato unitario, nazionale, indipendente, libero, con Roma capitale. Furono le autorità della Chiesa che lottarono con tutti i mezzi affinché questo obiettivo non venisse raggiunto. Quale fu il risultato? L'obiettivo venne raggiunto ugualmente, forse con un po' di fatica; ma nel corso della lotta borghesia e ceto intellettuale diventarono miscredenti: hegeliani gli uni, gli altri volterriani o mas­soni. Il quadro intellettuale dell'Italia dal principio alla fine dell'800 cambia radicalmente e in sostanza per farlo cambiare una funzione posi­tiva - malgrado tutto - hanno avuto le alte autorità ecclesiastiche che in quel modo combatterono per impedire che si realizzasse l'unità del nostro paese. Oggi al popolo italiano si pone un altro problema di fondo. Si deve trasformare la struttura sociale attraverso profonde riforme, o con quegli altri mezzi che la storia renderà necessari. Ebbene, la difesa disperata delle posizioni del ceto privilegiato contro i dise­redati che reclamano, che avanzano, che vogliono vivere un'esistenza meno misera e più degna, questa difesa è fatta ancora una volta dalle alte autorità ecclesiastiche e dal loro enorme apparato. Ho l'impres­sione che questo serva a trasportare e approfondire nel popolo, in condi­zioni diverse, s'intende, quel processo di distacco dalla Chiesa che av­venne nell'800 nelle classi dirigenti. Questa è, forse una funzione posi­tiva che la storia vi ha riserbato. Naturalmente non credo che l'adem­piate consapevolmente, o almeno non credo che l'adempia consapevol­mente la maggioranza di voi, perché so bene che fra voi qualche framassone c'è ancora.

   Tutto questo spiega perché quando fu proclamato il voto del 7 giugno, esso venne accolto con tanta gioia dal popolo italiano: senza comizi, senza manifestazioni per le strade, ma abbracciandosi nelle vie e piangendo di gioia.

   Di qui per tutti una situazione difficile: perché si è accesa una grande speranza, si è iniziata una trepida attesa; vi sono masse stermi­nate di uomini, di donne, di operai, di coltivatori, di poveri, di pensionati, di impiegati dello Stato, di disoccupati, di giovani che dal voto del 7 giugno e nella situazione che ne è derivata attendono qualcosa di nuovo e di diverso. Cerchiamo e soprattutto voi cercate di non delu­dere questa speranza, perché ciò sarebbe per noi, per voi, per l'intiero paese la più grave delle cose che possano accadere.

   A questo si aggiunge la situazione internazionale, profondamente diversa oggi da quella che era sei mesi fa, un anno fa, nel corso degli ultimi cinque anni. Essa è profondamente diversa soprattutto per due ragioni: perché il fronte delle forze che si muovono per ottenere una distensione internazionale e garantire una pace permanente si è esteso anche al campo dei governanti di alcuni dei paesi occidentali; dall'altro lato perché lo smascheramento dei fautori di guerra è andato avanti. Oggi si ragiona più apertamente, si capisce meglio chi vuole la pace e chi vuole la guerra.

   Moro. Perché, non lo si era ancora capito?

   Togliatti. Lei non lo aveva capito ancora, per lo meno. Ma oggi è un grande giorno, collega: è stata firmata la tregua in Corea. Laggiù non si spara più, non muoiono più uomini per opera di armi manovrate da altri uomini. È un grande fatto, che ci riempie di gioia anche perché è un trionfo della nostra politica. Guardate come ci si è arrivati, leggete le dichiarazioni che vengono fatte nel momento stesso in cui la tregua viene firmata. Mentre da tutte le parti del mondo si leva un grido che chiede che dalla tregua si passi alla pace e a una pace stabile in quella parte del mondo e in tutto il mondo, voi vedete nell'ombra manovrare ancora il fantoccio che scatenò questa guerra nell'estate del 1950, e adesso apertamente proclama il suo giuoco infernale, all'ombra del vostro Stato-guida, di quegli Stati Uniti d'America che sono davvero la guida dei fautori e dei provocatori di guerra.

   Ad ogni modo, vorrei dirvi che per quello che si riferisce alla situazione internazionale non sono così ottimista come altri ha manife­stato di essere. Le cose non vanno avanti, e non andranno avanti da sole, perché vi sono forze le quali hanno tramato i conflitti del passato, li hanno provocati, ne preparano nuovi, non si adattano all'idea che si apra un lungo periodo di convivenza pacifica fra tutti i popoli, qua­lunque sia il loro regime interno. È necessaria, dunque, un'azione consa­pevole per fare andare avanti la situazione internazionale nella direzione della pace, è necessaria una lotta. Da questa nostra visione deriva la richiesta che facciamo al governo italiano, e al parlamento prima che al governo. L'Italia deve partecipare a questa azione, l'Italia deve parte­cipare a questa lotta.

   Il governo attuale lo vuole questo o non lo vuole? Non lo sappiamo. Quando abbiamo sentito leggere la parte delle dichiarazioni del presidente del consiglio relativa alla politica internazionale, veramente abbiamo avuto l'impressione, alquanto umiliante, che nel dirigente del nostro governo si sia perduta perfino la coscienza della possibilità di una azione autonoma italiana di politica estera. L'onorevole De Gasperi ci ha letto i comunicati della riunione di Washington, ma questi sono i comunicati di una riunione a cui l'Italia non ha partecipato e di cui ancora oggi il più esperto conoscitore di problemi internazionali non è in grado di dire esattamente che cosa significhi quella parola, quel­l'aggettivo, quella virgola. Come si fa a presentare questo documento, che potrà essere un capolavoro di compromesso fra le parti che lo hanno redatto, come la linea direttrice di una politica italiana?

   In seguito, l'onorevole De Gasperi si è limitato a dirci che dob­biamo aspettare, vedere quello che faranno gli altri e che cosa ne verrà fuori. Questa, onorevole De Gasperi - mi permetta di dirlo - è mentalità di vassallo. È l'adesione al Patto atlantico, è la intromissione continua e sempre più pesante nella vita del nostro paese dello Stato-guida americano, che pretende dettare tutta la politica che i nostri gover­nanti dovrebbero fare per riconoscenza di ciò che gli americani avreb­bero fatto per noi, è l'accettazione persino di basi di eserciti stranieri sul nostro territorio, è tutto questo che ha creato nei nostri governanti una mentalità di vassalli che oggi deve essere liquidata, e liquidata non per fare pazzie nazionalistiche, come nel passato, ma per sviluppare una iniziativa italiana a favore della pace.

   A questo punto occorre tirare ile somme. È necessario indicare almeno in generale una linea di governo la quale corrisponda alla situa­zione che sta davanti a noi, così come noi la vediamo. Voi ci avete detto che non si tratta che di continuare la politica passata, tanto più - avete aggiunto - che la politica passata è stata una politica di centro. Ho avuto occasione rivolgendomi all'opinione pubblica da altra tribuna, di dire che in sostanza né oggi né prima una politica vera di centro non è mai stata fatta dall'onorevole De Gasperi. Una politica di centro, oggi, esigeva non un governo di minoranza che andasse mendi­cando maggioranze a destra e a sinistra a seconda dei casi e degli intri­ghi, ma una serie di posizioni politiche nelle quali fosse tenuto conto delle esigenze presentate anche da altre parti.

   Questo non vi è stato, oggi, ma si deve osservare che nel passato è sempre stato così. È vero, hanno collaborato al governo i liberali, ma l'altro giorno in un gruppo di colleghi discutendo di questa que­stione ci chiedevamo quali ministeri erano stati gestiti dai liberali nel corso degli ultimi cinque o sei anni, per cui si potesse dire che avevano fatto qualcosa, che era stata data loro l'occasione di mettere l'impronta del loro pensiero e della loro azione su una parte dell'attività governa­tiva, e nessuno si ricordava di qualcosa di simile. Questo non c'è mai stato per i socialdemocratici, e nemmeno per i repubblicani se non sbaglio.

   La realtà è che quella che voi chiamate politica di centro non è stata altro, dall'inizio alla fine, che un governo, sempre meno control­lato sia da altri partiti che dal parlamento, di una oligarchia di partito, di un piccolo gruppo dirigente del partito democristiano, il quale rispec­chiava ciò che avveniva nel seno di quel partito, e non lo ha sempre nemmeno rispecchiato sinceramente, perché molte volte era anche diffi­cile comprendere come tenesse conto, per esempio, delle esigenze sociali avanzate da una parte di voi, delle esigenze politiche avanzate da un'altra parte, delle esigenze di politica internazionale di cui un tempo alcuni di voi erano i portatori. Si è arrivati in questo modo a quel monopolio poli­tico di una oligarchia democratico cristiana che il 7 giugno è stato rotto e sulla base del quale non si può più andare avanti. Non è possibile oggi presentarci un governo nel quale a un ministro è stata data quella carica perché bisognava toglierlo di mezzo come segretario della Demo­crazia cristiana, l'altro ha ricevuto un posto perché era diventato ingom­brante come presidente del gruppo parlamentare del partito di maggio­ranza, e così via. Queste non sono cose serie. Questo è puro intrigo. In questo modo non si forma né un governo di centro né un governo di maggioranza né un governo di minoranza. In questo modo si man­tiene al potere, fino a che resiste una piccola oligarchia non controllata nella quale poi inevitabilmente devono allignare e dilagare sia l'intrigo che la corruzione.

   Bisogna uscire da questa situazione. Ma che cosa chiediamo noi per uscirne? Nel passato avanzammo la richiesta di una distensione. In una riunione del Comitato centrale del nostro partito, all'inizio del 1952, formulammo alcune condizioni per una distensione: chiedemmo il rinvio delle spese militari straordinarie, la liquidazione di qualsiasi ostilità preconcetta verso qualsiasi paese e di qualsiasi discriminazione fra i cittadini a seconda che aderissero a una idea politica o a un'altra e, quindi, il ritorno del governo alla legalità della Costituzione repubbli­cana. Queste però erano le condizioni che avanzavamo in un momento in cui avevate la maggioranza nel parlamento e volendo tener conto di questa configurazione politica. Sarebbe sbagliato se ci limitassimo a presentare le stesse rivendicazioni dopo l'evento del 7 giugno, che ha spezzato il vostro monopolio politico. Oggi noi chiediamo qualche cosa di più e precisamente: 1) una azione attiva del governo italiano per la pace; 2) l'inizio e lo sviluppo di una grande lotta contro la miseria e i privilegi sociali attraverso un'azione che, applicando i prin­cipi della nostra Costituzione, attui le riforme sociali di cui il popolo ha bisogno.

   Naturalmente riconosco la difficoltà di trovare una maggioranza che esprima il governo capace di attuare una siffatta politica. Non condi­vido a questo proposito l'ottimismo superficiale di coloro che affermano che, dal momento che la maggioranza è stata contraria alla truffa propo­sta dal governo, essa deve e può senz'altro esprimere una nuova forma­zione governativa. Purtroppo la maggioranza che si è espressa contro la legge truffa ed ha spezzato il monopolio politico democristiano è divisa in due parti eterogenee, l'una di destra, che non ha ottenuto quella affermazione trionfante che alcuni si attendevano, ma che per il momento non si presenta ancora con una forza preoccupante, l'altra, prevalente, che si stringe attorno ai partiti della classe operaia. Eviden­temente è difficile elaborare un programma di governo davanti a un simile stato di cose, tuttavia la possibilità di fatto non è esclusa. È vero infatti che nello stesso partito democristiano non esiste una com­pleta omogeneità di vedute. In questo partito però vi è una parte che non può non consentire con noi, se non vuole tradire le aspirazioni di quei lavoratori che hanno votato per essa. Anche qui però le diffi­coltà sono gravi, soprattutto perché, non appena si accenni ad un muta­mento di indirizzo governativo, ci si trova di fronte alla resistenza acca­nita del ceto privilegiato, del grande industriale, del grande agrario, dei grandi gruppi finanziari, i quali si sono abituati, prima con il fasci­smo e adesso con l'onorevole De Gasperi, ad essere coloro che gover­nano effettivamente l'Italia nei loro propri esclusivi interessi.

   Noi lavoriamo perché si crei una situazione in cui l'Italia non sia più governata nell'interesse di questi ceti privilegiati, ma nell'interesse della grande maggioranza del popolo. Occorre quindi tendere a creare un blocco di forze relativamente omogeneo per la loro base e per una parte dei loro programmi, le quali tendano allo scopo che ab­biamo indicato, che possano affermarsi nel paese e vincere. In questo senso va lo sforzo che stanno compiendo con abilità e di cui noi ren­diamo loro merito i nostri amici socialisti; in questo senso va il nostro sforzo.

   In direzione opposta, invece, onorevole Saragat, mi sembra vada lo sforzo che Ella sta compiendo. In direzione opposta: mi permetta di dirglielo apertamente. Quand'Ella, dopo le elezioni, immediatamente ha indicato la sua nuova, attuale posizione, non le nascondo che la mia prima reazione è stata scettica, negativa. Mi sono ricordato dei tempi dell'origine del nostro partito, di quando eravamo una piccola minoranza di fronte al grande partito socialista e alla grande Confede­razione del lavoro che i riformisti dirigevano e dirigevano male. Noi ci ponevamo un obiettivo unitario: volevamo una nuova unità antifa­scista e rivoluzio­na­ria. Vi erano però alla testa del nostro partito, allora, dei settari ignoranti che non capivano niente. Essi credevano che la lotta per l'unità delle forze dei lavoratori si potesse fare con delle propo­ste assurde, contrad­dittorie nello spirito e nei termini, dove scoperta­mente si diceva a colui al quale si faceva la proposta, che avrebbe dovuto, per far realizzare l'unità, accettare condizioni tali che erano contrarie a quello che l'avversario aveva sempre detto. E in questo modo si credeva di poterlo smascherare e andare avanti. Ma era un giuoco infantile. Non si poteva fare nessun passo avanti, in quel modo. Noi stessi ce ne accorgemmo.

   Questa è stata la mia prima reazione, onorevole Saragat, alla sua nuova posizione: debbo però dire che in seguito ho modificato alquanto la mia prima impressione, perché mi è parso che nella posizione che Ella ha assunto vi sia un elemento di sincerità, uno sforzo, cioè, per tener conto sia di quella che è stata la volontà espressa dal popolo il 7 giugno, sia della situazione obiettiva del paese e soprattutto della situazione che hanno davanti a sé i lavoratori italiani.

   Ma qui si aprono altre questioni. Ella ci ha detto che la legge truffa l'avrebbe approvata, nel mese di gennaio scorso, precedentemente e in seguito, per motivi di ordine internazionale. Meglio sarebbe stato se allora Ella avesse spiegato ciò più chiaramente. Ritengo però che Ella abbia approvato quella legge unicamente perché riteneva che avreb­be avuto successo. Non riesco però a immaginare quale sarebbe stato il suo discorso in caso di successo di quella legge, di fronte a un partito democratico cristiano, che è orientato com'Ella sa, alme­no nel suo gruppo dirigente attuale, e il quale avrebbe avuto qui una maggioranza assoluta, schiacciante. Ma, ad ogni modo, riconosco che Ella vuol tener conto del voto del 7 giugno. Qui sorge però una contraddizione di cui mi sembra strano che una persona intelligente come lei non si accorga. Il 7 giugno le masse lavoratrici hanno votato in prevalenza per il partito socialista e per il partito comunista, e non per il partito socialdemocratico. Ella riconosce questo, presenta anzi questo fatto al partito e al governo democristiano come un fatto di cui bisogna tener conto. Se non si parte di qui - Ella dice - si fa una politica sbagliata. Subito dopo Ella aggiunge il suo attacco al cosiddetto patto di unità d'azione fra noi e i socialisti.

   Ma perché il suo riconoscimento della realtà Ella non lo spinge fino in fondo? Il partito socialista si è presentato alle elezioni con un suo programma, che ha elaborato nella sua piena autonomia. Tutti abbiamo ascoltato e letto i discorsi dei dirigenti più autorevoli del par­tito socialista, che hanno esposto questo programma. Non ho letto però uno solo di questi discorsi dove non si dicesse che la posizione dei socialisti comprendeva anche il mantenimento e la difesa dell'unità della classe operaia e dei lavoratori, così come si esprime nel patto di unità di azione. Le masse operaie hanno votato per un partito socialista che diceva questo, non hanno votato per un partito socialista che dicesse di voler rompere il patto d'unità d'azione! Hanno votato per un partito socialista che esalta, al pari di noi, la politica di unità della classe operaia e dei lavoratori come base per il rinnovamento della società civile ita­liana. Nella loro maggioranza, gli operai e i lavoratori hanno votato per questo. Perché dunque Ella, dopo aver fatto il primo passo nel riconoscimento della realtà, non fa anche il secondo? Perché non rico­nosce che, se il suo partito ha perduto i suoi voti, non è soltanto perché si era in modo abbastanza indecoroso alleato col partito della Demo­crazia cristiana per cercare di fare scattare la legge truffa, ma anche perché Ella ha fatto una politica conseguente di ostilità contro l'unità della classe operaia e dei lavoratori per cui noi, invece, combattiamo?

   Ma questo è soltanto un aspetto polemico della questione. Il fondo è un altro. Il fondo è che, se vogliamo riuscire a creare una base solida, larga, efficiente, sicura, per quelle trasformazioni di ordine sociale che Ella dice di rivendicare, non possiamo in nessun modo rinunciare all'uni­tà della classe operaia e delle masse lavoratrici! La rivendicazione di rompere l'unità della classe operaia e dei lavoratori così come essa si è storicamente realizzata ed è in atto nel nostro paese, è la rivendica­zione di quel padronato privilegiato che non vuole nessuna riforma sociale, nessuna trasformazione delle nostre strutture, che vuole unica­mente la difesa dei propri privilegi, e come uno degli strumenti della difesa dei propri privilegi considera la lotta contro l'unità della classe operaia e dei lavoratori.

   So che Ella, onorevole Saragat, ha vissuto come noi gli anni duris­simi dell'emigrazione, ha seguito come noi con passione le vicende del movimento operaio e del movimento democratico internazionale in que­gli anni. Ebbene, noi abbiamo ricavato da quelle vicende un insegna­mento dal quale non ci stacchiamo. Per la difesa della democrazia e per il progresso sociale è necessaria l'unità della classe operaia e delle masse lavoratrici. Quando questa unità venga offesa, lesa, distrutta, o per un attacco reazionario o ad opera della socialdemocrazia che non ne comprende le necessità e non la vuole, o anche, alle volte, ad opera di un'avanguardia comunista la quale non sia in grado di comprendere a fondo quali sono i compiti di un'azione unitaria, quando questa unità viene spezzata ivi è il nemico che va avanti, ivi è il nemico che vince!

   Perché, onorevole Saragat, Ella, invece di dolersi della unità che in Italia esiste, non se ne compiace e non cerca, da uomo politico sagace, di servirsi di questa situazione per far progredire e condurre alla vittoria la lotta che dice di voler condurre per il rinnovamento sociale del paese? Ci dica chiaramente, onorevole Saragat: Ella, con la posizione che ha preso, vuole effettivamente, come ci ha detto, dare aiuto a che venga condotta una lotta efficace per una trasformazione sociale nell'interesse dei lavoratori, oppure vuole soltanto raggiungere l'obiettivo di estendere un poco il fronte anticomunista? Perché se il suo obiettivo è quest'ul­timo, questo obiettivo distrugge il primo.

   Saragat: Vogliamo l'unità socialista sul piano della democrazia e nel quadro internazionale.

   Togliatti. Noi vogliamo l'unità come essa esiste oggi in Italia. La­voriamo in Italia, siamo figli della storia del popolo italiano e della classe operaia italiana, siamo l'espressione di questa storia. I suoi obiet­tivi di partito li potremo discutere in altra sede. Quello che ci interessa è l'obiettivo sociale, che è comune a tutti i lavoratori italiani anche se sono socialdemocratici, che mette in movimento anche il ceto medio ancora orientato in senso socialdemocratico. Se si vuole raggiungere, in Italia, nelle condizioni in cui si trova oggi il movimento dei lavora­tori italiani, qualcosa in quella direzione, nella direzione della socialità del governo, della legislazione e del regime, non si può non partire dalla unità che oggi esiste. Questa unità è punto di partenza e condizione di tutto il rinnovamento cui si tende, Ella non vuole ipoteche di dittature. Non so cosa voglia dire questa espressione, soprattutto per qualcuno che abbia letto Marx.

   Una voce al centro. Non siamo in Russia.

   Togliatti. Onorevole collega, non c'è bisogno di farsi eleggere de­putato per tirar fuori una battuta simile. Ci studi meglio!

   Una voce al centro. È la forza delle cose.

   Togliatti. Per chi conosca il marxismo e le dottrine sociali preva­lenti oggi nel campo operaio, dittatura è una forma di governo che esce da una rivoluzione. Orbene, l'ipoteca rivoluzionaria esiste su tutte le società le quali non siano capaci di staccarsi dalla condizione in cui si trova oggi la società italiana, da questo sopravvento indiscusso, prepo­tente del ceto privilegiato, che non accetta nessuna limitazione di nessun genere dei suoi privilegi. Marciate per un'altra strada se volete evitare l'ipoteca rivoluzionaria: ma per marciare per un'altra strada, non potete non marciare con tutti coloro che sinceramente lo vogliono.

   Ad ogni modo, noi non crediamo di aver commesso seri sbagli nel determinare la nostra linea politica in seno al movimento operaio, fra i lavoratori, nel parlamento e nel paese nel corso degli ultimi anni. Non abbiamo mai violato la Costituzione repubblicana. Abbiamo re­spinto le provocazioni democristiane alla guerra civile. Non abbiamo mai piegato nella difesa degli interessi, delle libertà, dei diritti di tutti i lavoratori e del ceto medio. Per questo siamo riusciti a mantenere e consolidare una grande unità di forze di operai e lavoratori. Ma qui la questione che si pone è assai più ampia. Non investe soltanto noi, dirigenti di partiti che si richiamano alle tradizioni della classe operaia, ma investe tutti i partiti politici italiani. Non si tratta in Italia oggi di avviare soltanto determinate riforme le quali poi, anche quando fos­sero avviate, farebbero sorgere certamente nuovi problemi e richiede­ranno impegni di lavoro e impegni di massa per farle giungere ad un esito favorevole; quello che occorre oggi all'Italia prima di tutto è una nuova classe politica dirigente. Questo è il problema dei problemi e questo è il problema che è venuto fuori con estrema acutezza dalla consultazione del 7 giugno, che ha posto fine al monopolio democri­stiano. La vecchia classe politica dirigente fascista è fallita. Là ne vedete i rimasugli, gli spettri.

   Voi lo sapete, onorevole signor sottosegretario alle poste, di non so quale governo fascista, ma non sarà male ripetervelo ancora una volta. Sino a che vi presentate qui come l'espressione paradossale di un malcontento, di una incertezza, di uno smarrimento che esistono ancora in determinati strati dell'opinione pubblica nelle regioni meridio­nali del nostro paese e anche fra i giovani, la vostra presenza pone una questione che deve essere affrontata e risolta. Voi stessi però sapete che il giorno che cercaste di fare qualche cosa di più, per voi il destino è già segnato (interruzione del deputato De Marsanich).

   Pertini. Nel 1945 eravate ai nostri ginocchi e ai nostri piedi! Avete chiesto pietà, voi! State zitti! Voi e il vostro Mussolini siete stati dei vigliacchi!

   Togliatti. Ripeto, la vecchia classe dirigente fascista è fallita, una nuova classe dirigente, dotata di sufficiente prestigio e autorità davanti al popolo, non la troviamo ancora alla testa dello Stato.

   Almirante. Il che vuol dire che è fallito l'antifascismo ufficiale!

   Togliatti. Il partito che pretendeva avere maggiori possibilità di ri­solvere questa questione, il Partito d'azione, è completamente fallito allo scopo. Ma oggi è fallito a questo scopo anche il partito cattolico, perché non ha saputo presentare al paese altro che una piccola oligarchia, la qua­le ha oramai perduto qualsiasi credito politico. È vero che questa oli­garchia si muove da un lato all'ombra del suo Stato-guida e dall'altro cerca e usufruisce ampiamente per mantenersi in piedi dell'appoggio delle autorità ecclesiastiche. Ma il giudizio su questo aspetto della que­stione l'ho già dato. Anche per questa strada, essa perde di autorità e di prestigio, perché solleva contro di sé i sentimenti patriottici e di demo­crazia che sono così profondi nell'animo popolare.

   Il problema di creare e far avanzare alla testa dello Stato e del governo italiano gli uomini di una nuova classe politica dirigente, è il problema più profondo che esce da uno studio attento della consulta­zione del 7 giugno. Occorre risolvere questo problema. Questa nuova classe dirigente non può sorgere oggi che da un accordo su una politica di pace e per quelle trasformazioni sociali che sono indispensabili se si vuol combattere efficacemente contro la miseria e per il progresso economico. Deve sorgere da un accordo di forze le quali siano collegate strettamente con la classe operaia, con il ceto medio lavoratore, con le loro organizzazioni sindacali e politiche, con tutte le organizzazioni popolari di massa. Giusto è cercare questo accordo in parlamento; più giusto ancora però, e indispensabile cercarlo prima di tutto nel paese. Questo è il tema fondamentale del nostro lavoro, onorevoli colleghi, che affrontiamo oggi con maggior fiducia di ieri, per la consapevolezza della nostra forza e del valore della unità che siamo riusciti a realizzare, per la fierezza che ci dà il nostro successo del 7 giugno.

   Stanno davanti a me nel ricordo gli anni duri che abbiamo attra­versato dal 1947 in poi. Non vi nascondo che nel corso di questi anni vi furono momenti in cui ci stringeva l'ansia, ci assaliva il dubbio, non per il futuro, non del nostro partito, di cui siamo sicuri, ma per le sorti del nostro paese a cui abbiamo sempre voluto e vogliamo evitare momenti duri, crisi difficili, lotte aspre. Tutto è stato fatto contro di noi, tutto è stato sperimentato per spezzarci, metterci al bando, schiac­ciarci, per denunciarci come nemici del paese. Vi è stato l'attentato politico. Vi è stata l'offensiva infame delle autorità di polizia contro le nostre organizzazioni e i nostri militanti. Vi è stata, per tentare di nuocerci, la lacerazione continua, a nostro danno, della Costituzione repubblicana che abbiamo conquistato, col sangue dei nostri combat­tenti, per tutto il paese. Vi è stata la mobilitazione di tutti i mezzi della più faziosa propaganda.

   Ma ogni volta che voi avete agito in questo modo, ricordatelo, dopo il 14 luglio 19481 [1], dopo l'eccidio di Modena, dopo il tentativo di trasportare in Italia l'atmosfera di guerra che veniva dalla Corea, ogni volta, parlando da questo tribuna, io vi dissi che era un delitto ciò che voi stavate facendo, ma che la nostra risposta stava nel rivolgersi al popolo. Ogni volta, ai compagni nostri, agli uomini del nostro partito e a tutti i buoni democratici dicemmo che il compito stava nel!'allargare il fronte, nel non lasciare isolare questa forza avanzata della democrazia e del socialismo, nel chiamare uomini nuovi e altri gruppi sociali a raccogliersi, con noi, intorno alla bandiera del nostro partito e dei suoi alleati, per respingere l'attacco del ceto privilegiato, per far progredire la democrazia italiana nella direzione del rinnovamento politico com­pleto e del rinnovamento sociale.

   Vi è sempre stata in noi, anche nei momenti più duri, la profonda certezza che saremmo riusciti, che avremmo trionfato di tutto quello che si faceva contro di noi. Né questa certezza deriva, onorevoli colleghi, dal possesso di non so quali misteriosi mezzi di propaganda o di orga­nizzazione: no, deriva dal fatto che siamo e ci sentiamo avanguardia, sì, ma parte integrante, inscindibile del grande popolo italiano. Al po­polo italiano va la nostra ammirazione per il modo come, dopo 20 anni di fascismo, è riuscito a liberarsi da quella odiosa dittatura, e per il modo come il 7 giugno 1953, dopo sette anni di spietate perse­cuzioni ad opera di un regime che lacerava tutte le conquiste assieme compiute, che rinnegava tutte le promesse, che calpestava tutti i giura­menti, ha saputo dimostrare la propria capacità di avanzare ancora, tenendo alte le bandiere della libertà, della democrazia, del socialismo.

   Vi è in noi la certezza della vittoria, anche se oggi il nostro giudizio è pessimista sulle prospettive immediate, anche se prevediamo un pe­riodo di contrasti politici penosi, anche se prevediamo un periodo diffi­cile di aspri contrasti sociali.

   Ancora una volta, noi allarghiamo il nostro fronte, chiamiamo a partecipare all'azione - di cui prendiamo l'iniziativa insieme con i compagni e amici socialisti e con tutti i sinceri democratici italiani - per il rinnovamento politico e sociale della vita italiana, tutti i buoni cittadini italiani, i diseredati, i miseri, gli affranti dalla miseria, i sala­riati, i coltivatori, il ceto medio lavoratore, gli intellettuali che sentono final­mente il bisogno di liberarsi dalla odiosa e stupida faziosità antico­munista che li incatena, che fa perdere loro qualsiasi libertà di giudizio, che condanna a deperire, nell'oscurantismo, nella corruzione e nella mi­seria, la patria di tutti gli italiani.

   Si farà, qui, qualcosa che agevoli il compito che noi poniamo e che sgorga dalle cose? Non lo so. Certo non da governi come questo, non da uomini come quelli che lo compongono. Ma per questa strada deve passare la storia del nostro paese; per questa strada passerà la storia d'Italia.

Note

[1] Il giorno dell'attentato di cui fu vittima lo stesso Togliatti (NdR)