Palmiro Togliatti (Alfredo)

Lettera da Barcellona

12 gennaio 1939

Da A.Agosti, op. cit.,pp.208-212. Testo originale in castigliano dall'archivio russo già citato, traduzione di Donatella Di Benedetto. [1]


    Caro amico,

   Dopo aver ascoltato la relazione che ci ha fatto Carrillo [2] sulla situazio­ne nella zona centro-sud e il lavoro della Delegazione, voglio comuni­carti alcune osservazioni, che ti prego di prendere non come direttive, ma esclusivamente come consigli, o meglio, suggerimenti che voi stessi esaminerete, discuterete e accetterete o respingerete a seconda che vi paiano corrispondere o meno alla situazione effettiva.

   La relazione di Carrillo ci ha presentato, approssimativamente, lo stesso quadro di tutta una serie di relazioni precedenti, con la sola eccezione, mi sembra, di quella che hai fatto tu nel mese di agosto. Il quadro è quello di una lotta contro il nostro partito da parte degli altri, di molte persecuzioni, ingiustizie, posti tolti ecc. Tutti questi fatti sono senza dubbio reali, e solo va lamentato che fino a questo momento non si sia riusciti ad applicare il metodo della denuncia immediata alla dire­zione del partito e l'intervento di questa per correggere quanto è possi­bile correggere; ciò nonostante, dopo aver studiato alcune di queste relazioni sorge il dubbio che ci sia in esse e nel lavoro che esse rifletto­no un orientamento troppo superficiale che non vede se non un aspet­to dei problemi e ne lascia in ombra altri. Forse, quelli essenziali.

   La mia osservazione fondamentale è la seguente. Non c'è dubbio che il partito ha molti nemici, e che vi sono molti nemici dell'unità, mossi in parte da interessi personali, di gruppo ecc., in parte diretta­mente dal fascismo attraverso mille canali differenti (provocazione, trotskismo, ideologia socialdemocratica, caballerismo, faismo [3] ecc.). Nello stesso tempo, però, non c'è dubbio che la gran massa del popolo vuole vincere la guerra e per questo vuole l'unità. Allo stesso modo, vuole sinceramente vincere la guerra una gran parte, anzi, si può dire senza timore di ingannarsi, la maggioranza del personale dirigente dei partiti e delle altre organizzazioni non comuniste. Allora, se questo è vero, come è possibile che si crei per un lungo periodo di tempo una atmosfera tanto rarefatta e prosperino gli attacchi ai comunisti e all'unità? Come è possibile che le attività dei nemici dell'unità riescono ad incontrare un appoggio in una parte delle masse e che non sia, inve­ce, molto più rapido e deciso il processo del loro isolamento? Parlo di "appoggio in una parte delle masse", tenendo presente, per esempio, la situazione della JSU, nella quale gli elementi scissionisti sono riusciti, in un determinato momento, a mettere piede in quasi tutte le province; ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Cosa sono state le manifesta­zioni delle donne a Madrid se non un caso in più nel quale elementi del popolo sono caduti sotto l'influenza e la "direzione" dei nostri nemici? E gli elementi antiunitari caballeristi e repubblicani non hanno influenza in campo, una influenza che, per giunta, va aumentando in alcune località?

   E molto comodo spiegarsi tutto con l'imparzialità dei Governatori, con il cacicchismo ecc. Non si può negare l'influenza di questi fattori, però il nostro dovere sta nello studiare se non ci siano altre cause più profonde. Soprattutto, l'esistenza nelle masse di motivi di scontento che noi molte volte non vediamo e non comprendiamo e su cui - que­sto è ciò che più conta - non lavoriamo per eliminarli.

   È chiaro che non siamo in condizione, né molto meno, di risolvere, con le nostre forze, tutti questi problemi vitali delle masse, però, sicura­mente, siamo perlomeno in condizione di formulare i problemi e pre­sentare soluzioni. Presentarle agli organi competenti (del Governo, del Fronte popolare ecc.) e alle stesse masse. Quest'ultima cosa special­mente, mi sembra che non la facciamo in modo sistematico, cosa che forse è conseguenza di un eccessivo orientamento "verso l'alto" (i posti, le lotte tra cacicchi e gruppi, le notizie false ecc.) e che probabilmente ha come conseguenza che le masse non differenziano bene il nostro partito dagli altri, e cadono, a volte, sotto l'influenza dei nemici dell'unità.

   In altre parole, la difesa delle "posizioni" di partito non può essere mai una cosa che procede separatamente dalla difesa aperta di una serie di soluzioni e decisioni concrete, ispirate dalla conoscenza delle neces­sità delle masse popolari. A mio avviso, quest'ultima cosa molte volte manca e allora succede che ci troviamo in un vicolo cieco apparente­mente senza uscita: O tenere o rompere! Però non è così, perché se avessimo saputo spiegare bene a tutti, masse e dirigenti, cosa vogliamo e lavorato all'impostazione corretta e alla soluzione dei problemi, avrem­mo già potuto rompere la resistenza di questi con l'appoggio di quelle.

   Mi permetto di fare qualche esempio. La JSU. Lascio da parte la questione se esiste di fatto nella JSU un regime interno che abbandona completamente la base all'opposizione, se le direzioni regionali non abbiano contribuito esse stesse, a volte, a creare una opposizione nei fatti antidemocratica e settaria. Prendo in considerazione l'aspetto più generale del problema. Mi sembra che i nostri giovani hanno in parte dimenticato le necessità della gioventù nel momento presente. La gio­ventù, soprattutto quella della retroguardia urbana, ha fame; la scuola è disorganizzata; non ci sono libri; molte famiglie sono disfatte ecc. Nelle campagne, si ripercuote sui giovani il malcontento di alcuni capi. C'è un aumento di delinquenza giovanile, con casi di banditismo. E' stata pronunciata una sola parola su questi problemi nell'ultimo Plenum? E non è possibile ammettere che una parte dei successi degli scissionisti tragga origine da questa situazione? O, per lo meno, se la JSU [...] ha questi problemi, non le sarebbe molto più facile legarsi a tutta la gio­ventù e rompere rapidamente ogni manovra diretta contro l'unità?

   Un altro esempio: le dimostrazioni delle donne a Madrid. Le diver­se domande che ci hanno posto, relative a quanto avevano fatto i comunisti di Madrid per prevenire e impedire queste dimostrazioni sono rimaste finora senza risposta. Però il problema resta posto. Non mi risulta che i compagni di Madrid abbiano pensato di rivolgersi alla Comisión de Auxilio Feminino, che ha organizzato un lavoro enorme a Barcellona, per chiederle di trasferire una parte delle sue attività a Madrid, che convogli a Madrid una parte degli aiuti stranieri ecc. Perché non hanno fatto questo? Probabilmente perché i compagni di Madrid non hanno pensato che, in questi casi, l'essenziale è avere pro­dotti da ripartire. Hanno concentrato la loro attenzione sulla critica della burocrazia che ha tra i suoi compiti quello di dar da mangiare a Madrid e non lo fa; però non mi sembra che anche questo lo abbiano fatto bene. Non hanno saputo combinare proposte e critiche nell'Ayuntamiento, nel Consejo Provincial, ecc. (queste proposte qui non le conosciamo, però suppongo che ci siano state - anche proposte concrete, non discorsi) con una agitazione tra le masse e alcune inizia­tive di azione. Conseguenza: l'agitazione è stata fatta dalla quinta colonna, con i risultati che tutti conosciamo.

   Un esempio più generale: l'attività dei sindacati. Siamo tutti d'accordo nel criticare la loro passività, la mancanza di democrazia, l'assenza di assemblee il disinteresse per i problemi che interessano le masse ecc. Però, che fanno i nostri compagni là dove tengono in mano la direzione di un Sindacato? Convocano assemblee, discutono, mobi­litano ecc.? Non risulta. È molto difficile trovare nella nostra stampa la relazione di una assemblea sindacale, ben fatta, presentata nel posto d'onore del giornale ecc. Ossia, passività su questo terreno, e, natural­mente, disinteresse su altri fronti. Perché non danno l'esempio e con esso trascinano tutti? E non pensi che ci siano altre forme di legame più stretto con le masse che si possono utilizzare, come le riunioni di cellula aperte, il ricevimento nel Comité Provincial delle delegazioni di operai per discutere con questi dei loro problemi (con quanti operai senza partito parla il Segretario provinciale di Madrid, o il Segretario sindacale in una settimana) ecc.?

   Consideriamo ora il problema contadino. Ti prego di esaminare seriamente se molte delle difficoltà che abbiamo (quinta colonna, caballerismo, mancanza di cibo, diserzione nella retroguardia, mancan­za di combattività in alcune unità ecc.) non siano legate al malcontento di alcuni capi contadini. Per quel che riguarda la Catalogna, dove ho potuto studiare il problema un po' più da vicino, non vi è dubbio che è così. I contadini catalani che hanno i villaggi pieni di prodotti nascosti (mille tonnellate di mandorle prese dal nemico a Borjas Blancas, 500 litri di vino recuperati in pochi giorni nel Priorato ecc.) si rifiutano di rifornire la retroguardia e in alcuni casi accolgono le truppe invasori al grido di "Viva Franco", avrebbero difeso la Repubblica con tutte le loro forze se fossero stati evitati in Catalogna alcuni errori fatali nella politica agraria. Però, non esiste qualcosa di simile nella zona centrale? La nostra politica (di Governo) nei confronti dei contadini mi pare sbagliata essenzialmente in due punti. - Primo: nella tendenza al con­trollo su tutti i prodotti della campagna e alla soppressione di ogni mercato e commercio contadino. Secondo: nel dare un eccessivo appoggio alle collettività.

   Quanto al primo punto, credo che siamo d'accordo, però lasciamo a Just [4] di impostare il problema in modo aperto. Perché? Non si può studiare la forma per agitare questa questione e imporre una linea diffe­rente dall'attuale? O vogliamo aspettare che si abbiano dimostrazioni di contadini organizzate dalla quinta colonna? Riguardo al secondo punto, chiedo che il problema sia perlomeno studiato. Non dobbiamo lasciarci ingannare, e "entusiasmare", se vuoi, dalla prosperità di alcune colletti­vità. Non c'è dubbio che in molti casi il contadino, oggi collettivista, desidera la terra, vuole essere piccolo proprietario e non collettivista. Però oggi non c'è nessuno che lo aiuti ad uscire dalla collettività, nessu­no che gli ricordi che la collettività è "volontaria". "Volontaria" vuol dire che si può uscire da essa, ricevendo la propria parte di terra e il titolo di proprietà. Perché non si danno ai contadini i titoli di proprietà a cui hanno diritto? Questo crea in loro l'idea che la parte di terra che hanno ottenuto è cosa transitoria e provvisoria, e che è provvisorio il regime repubblicano. Perché il nostro partito non lotta per questo? E' possibile - molto possibile - che io mi inganni. Ti prego perlomeno di esaminare il problema, ma con obiettività, senza opinioni preconcette e senza dimenticare mai quale è il carattere della lotta che combattiamo. Riguardo alle altre questioni, meno importanti, alla prossima volta. I miei saluti a tutti i compagni, in particolare a Dolores [5]. Mi dispiace molto di non poter lavorare con voi in questi giorni, ma anche qui c'è molto da fare.

Note

[1] La lettera, scritta due settimane prima della caduta di Barcellona, può esse­re consi­de­rata un'integrazione dei rapporti inviati da Togliatti ("Alfredo") all'Internazionale, ora in P. Togliatti, Opere, a cura di P. Spriano e F. Andreucci, vol. IV, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 253-410 ... Il destinatario della lettera era certamente un membro dell'Ufficio politico del PCE in quel momento a Madrid per la preparazione della conferenza nazionale del partito (nota di A. Agosti).

[2] Santiago Carrillo.

[3] Da FAI, Federación Anarquista Ibérica

[4] Julio Just Gimeno, repubblicano di sinistra ministro dei Lavori pubblici nei governi Caballero e Negrín.

[5] Dolores Ibarruri.