Pietro Secchia – 10-11 novembre 1961

Riunione del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo del PCI

[Da “Il PCI e lo stalinismo. Un dibattito del 1961” a cura di Maria Luisa Righi, Editori Riuniti, Roma, ottobre 2007, pp. 239-249]

Al punto cui è giunta la discussione, le cose che dovevano essere det te, che stavano nell'animo di tutti o di molti di noi, sono già state det te nel rapporto del compagno Togliatti, e, molto ampiamente, da tutti i compagni intervenuti. Anzi, a questo punto mi sembra che non si tratti più tanto di dire, quanto di trarre alcune conclusioni (non sarò certo io a trarle) se non definitive, quanto meno indicative di come procedere, di come andare avanti nell'affrontare i molti problemi che sono stati posti, e di peso non indifferente. Anche se non partiamo dall'anno zero e neppure siamo alla vigilia del giudizio universale.

In questo momento io non mi preoccuperei, non ho il timore espo sto dal compagno Amendola, che si crei il «fronte unico». Intanto: il «fronte unico» di chi? Qui non siamo nella sezione di Rocca Priora o di Acilia.

Sarebbe forse un male che compagni che in questi anni, negli anni passati, hanno avuto, su determinati problemi, posizioni diverse, di vergenti ora si trovino per intanto d'accordo sulla necessità di ricerca re e stabilire nuove forme di collaborazione e di rapporti con gli altri partiti comunisti, basati sull'internazionalismo proletario e su principi (perché senza principi non ci può essere né movimento, né lotta, né unità di alcun genere) ma non più su un'unità e unanimità fittizia? Che ci sarebbe di sbagliato se ci fosse per intanto l'accordo sulla necessità di rinnovare decisamente, [di] democratizzare la vita interna del nostro partito? Perché, senza rinchiuderci nel provincialismo, è soprattutto nel nostro partito, è in Italia che possiamo e dobbiamo pertanto operare.

Verrebbe per intanto da dire che i fatti, gli avvenimenti, i dibattiti di questi anni non sono passati invano; verrebbe da dire che vi è stato un processo che ha agito su tutti noi, su tutti i comunisti italiani: ecco la grande forza del XX e del XXII Congresso. Ecco la forza della vita, della realtà che ancora una volta è stata più verde e più possente di ogni teoria.

Che male c'è, se tutti oggi desiderano gustare il vino nuovo, ine briante, della libertà, che ieri c'è stato qui cantato e non soltanto dal compagno Amendola? Quando si trova una unità reale tra comunisti e su problemi im portanti, non credo si debba subito avere il timore di non poter più ti rare pugni e calci. I problemi da dibattere, i motivi del contendere non mancheranno certo perché sorgono dalla vita e dalla lotta che ogni giorno dobbiamo condurre contro gli avversari, contro i nemici nostri per riuscire ad andare avanti.

Per intanto è stato utile, positivo, che in questo Ce più che a pen sare a rispondere alla campagna scandalistica degli avversari, ai quali nessuno di noi ha difficoltà a rispondere, pensassimo a non eludere le questioni e a dare risposte chiare agli operai, ai contadini, agli intellet tuali, ai milioni di lavoratori italiani, agli uomini semplici che hanno creduto, che credono in noi, che hanno fiducia nel nostro partito. Dobbiamo pensare al loro travaglio, alle loro amarezze, alle loro sof ferenze che furono le nostre di sette o otto anni fa, quando abbiamo saputo, quando alcuni anni prima del XX avevamo saputo alcune rive lazioni che erano state sufficienti a farci intuire tutto il resto che stava dietro.

Allo stesso modo, noi comprendiamo come il compagno Chruscév abbia ritenuto necessario, utile dire apertamente a tutto il popolo so vietico l'amara verità, chiara e nuda; perché gli aggiustamenti, le dissi mulazioni, le intese particolari tra consorterie servono soltanto (la pra tica lo ha dimostrato) a creare confusione e non aiutano a correggere, a superare, ad andare avanti. Così però anche i compagni sovietici de vono comprendere che noi non possiamo limitarci a dire, a ripetere ciò che essi hanno detto o a fare ciò che essi hanno fatto.

Sappiamo che, senza dubbio, i congressi di partito non sono dei consessi storici e che si propongono di raggiungere determinati obiet tivi politici; e ciò ha portato i compagni sovietici a porre in luce, assie me al programma ventennale, gli errori, le brutture, il male del passa to, tutta quella parte che dev'essere condannata senza esitazione.

Ma noi, pure, abbiamo delle esigenze politiche e morali, noi abbia mo a che fare con milioni di giovani che non conoscono il passato, la storia dell'Unione Sovietica, dell'Internazionale comunista e del no stro partito; e noi abbiamo il diritto e il dovere di dire che non è stata affatto solo una storia di errori e di delitti. Non possiamo cioè mettere in luce soltanto quegli aspetti.

E se per gli obbiettivi che il compagno Chruscév si proponeva, ha ritenuto di dover sottolineare in particolar modo errori e delitti, la sciando in ombra quanto di positivo e di grande in passato è stato co struito - e ciò per non attenuare la denuncia, la gravità di quegli erro ri -, noi però, nella nostra situazione, quando parliamo di quegli erro ri e di quei delitti non possiamo mai limitarci soltanto a quella parte, ma dobbiamo sempre mettere in rilievo e non lasciare in ombra o sot tintesa la parte positiva.

Ha fatto bene perciò il compagno Togliatti, nel suo rapporto, a sot tolineare quanto di grande è stato costruito nell'Unione Sovietica dal la Rivoluzione d'Ottobre. Ed ha fatto bene a richiamare quanto aveva scritto su Nuovi Argomenti. Certo, oggi non possiamo limitarci a ri confermare le posizioni contenute nell'intervista di Nuovi Argomenti. Sono passati cinque anni, siamo andati avanti nel mondo, la vita non si è fermata e mentre salutiamo lo slancio che ci viene dal XXII Con gresso e approviamo senza riserve le sue decisioni fondamentali, ab biamo anche il dovere di dire ai compagni sovietici, fraternamente, ciò che pensiamo non soltanto del mutamento di nome di una città, ma anche del modo come determinati problemi sono stati posti, dei limiti che ci appaiono, della necessità che si vada più a fondo e non tanto o non soltanto per spiegarci storicamente il passato, ma per estendere la democrazia nel presente, per fare funzionare veramente tutti gli or ganismi strutturali della società sovietica e, se necessario, crearne di nuovi. Ciò che conta è andare avanti.

Noi tutti vogliamo andare avanti, ma è proprio perché gli errori gravi e i metodi del passato devono essere superati, è proprio perché quegli errori non devono ripetersi mai più che non possiamo limitarci ad accogliere ogni cosa senza porci i problemi che giustamente sono stati posti in una parte del rapporto del compagno Togliatti e molto ampiamente negli interventi che si sono susseguiti.

Nel giugno 1956 discutendo di questi problemi, riconoscemmo apertamente (rapporto Togliatti al Ce) la nostra corresponsabilità nel-l'aver accettato senza critiche determinate teorie, e di avere introdotto nella nostra propaganda il culto della personalità di Stalin. La nostra corresponsabilità è più ampia e consiste, ad esempio, nel costume che da quel culto era derivato di non avanzare mai alcuna riserva, di non esprimere apertamente la nostra opinione su determinate questioni (sulle quali magari riserve c'erano) che avevano la loro importanza per l'avvenire del movimento comunista e operaio internazionale.

Quando si trattò ad esempio di condannare il Partito comunista ju goslavo, ci dichiarammo pienamente d'accordo. In seguito, quando i compagni sovietici riconobbero che quello era stato uno dei più gravi errori commessi da Stalin, anche noi concordammo pienamente con tale riconoscimento. Il che deve insegnarci che se vogliamo portare un contributo serio al movimento operaio internazionale, non dobbiamo esitare in certi momenti a esprimere apertamente, anche ai dirigenti del Pcus, il nostro pensiero sulle questioni che ci preoccupano o sui problemi sui quali la nostra opinione non coincide con la loro.

Il nostro internazionalismo proletario, il nostro attaccamento all'U nione Sovietica e il pieno riconoscimento della funzione cui assolve nel mondo, sono tali che possiamo esprimere, quand'è necessario, chia ramente il nostro pensiero perché questo non implica affatto un'atte nuazione dei nostri rapporti o il venir meno di una fiducia che è basa ta non tanto sugli uomini (di ieri e di oggi) che passano, ma è basata su di una scelta storica che abbiamo fatto quando siamo diventati co munisti e quando sulla scena del mondo sorse il primo stato socialista.

Né può stupirci che pur avendo il XXII del Pcus per obbiettivo prin cipale la discussione di quel grandioso programma per la costruzione del comunismo, l'attenzione non soltanto degli avversari, ma anche dei comunisti e di tutto il movimento operaio, almeno da noi in Occi dente, sia stata attratta da problemi che potevano sembrare secondari, ma non lo sono se il XXII Congresso ha ritenuto necessario, indispen sabile ritornare, e in modo clamoroso, sulle rivelazioni di quella lunga serie di ingiustizie, di errori e di delitti commessi nell'Unione Sovieti ca da un uomo e da gruppi di uomini nel periodo cosiddetto del culto della personalità.

Ma ciò che ha colpito e sorpreso è che vi si sia ritornati con lo stes so metodo, nello stesso modo di cinque anni fa. Non erano mancate osservazioni, rilievi critici, avanzati dai partiti comunisti di diversi pae si, avanzati dal Partito comunista italiano e in modo particolare dal compagno Togliatti. In quale conto se n'è tenuto?

Giustamente al XX Congresso il compagno Chruscév aveva messo in rilievo come i fautori del culto della personalità «ignorassero la fun zione del pensiero collettivo e la funzione dei partiti fratelli nello svi luppo della teoria rivoluzionaria, la funzione dell'esperienza collettiva delle masse. C'era soltanto la creazione di un singolo o di alcuni. Il so lo compito degli altri mortali - aggiungeva Chruscév - era quello di assimilare e polarizzare le creazioni di questi singoli».

Noi concordavamo e concordiamo pienamente con queste osserva zioni, ma proprio per questo siamo sorpresi che ancora una volta la denuncia non sia stata accompagnata da una indagine storica che por ti a una spiegazione marxista del modo come a quel sistema si giunse, che porti a metterne in luce le cause. La ricerca delle cause degli errori, dei delitti, dei fenomeni di dege nerazione deve andare da ciò che è fondamentale della società, al par ticolare, a ciò che è prodotto dalle circostanze, dal sistema agli organi smi e alle persone che agirono e agiscono in quel sistema, che vi furo no alla testa con tutte le loro passioni, senza mai dimenticare come ci ha insegnato il Labriola che occorre:

“comprendere l'intreccio e il complesso nella sua intima connessio ne. Si tratta di vedere quei determinati uomini mossi da certi inte ressi, spinti da certe passioni, premuti in certe circostanze, con tali disegni, con tali propositi che operano con tale aspettazione, per tale illusione propria o per tale inganno altrui, che martiri di sé o degli altri vengono in aspra collisione e si elidono a vicenda: ecco la storia effettuale della Rivoluzione francese”. [Antonio Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare del 1896 ora in Id., Scritti filosofici e politici, a cura di Franco Sbarberi, vol. II, Torino, Einaudi, 1973, p. 625] .

Ciò di cui sentiamo la mancanza o l'insufficienza è il tentativo di af frontare, come diceva nel 1956 il compagno Togliatti, «i problemi veri che sono del modo e del perché la società sovietica potè giungere a certe forme di allontanamento dalla via democratica e dalle legalità e persino di degenerazione».

Dal quadro che il compagno Chruscév ci ha fatto, segretamente, al XX Congresso e apertamente, spalancando le finestre al XXII, una cosa risulta chiara: che il partito bolscevico è stato decimato e soprattutto nei suoi quadri superiori e anziani, più ancora che decimato è stato sterminato. A quale scopo era necessario operare quel rinnovamento cosi cruento? Quali ne furono le cause? Noi respingiamo la tesi che tutto quanto avvenuto fosse necessario per creare il regime socialista. Perciò condividiamo la critica ai gravi errori commessi e la condanna dei delitti denunciati, avvenuti nel periodo in cui trionfava il culto del la personalità.

Che la rivoluzione proletaria dovesse spezzare, stritolare la macchi na, la struttura del vecchio stato, era sempre stata opinione di tutti i comunisti, ma com'è potuto accadere che assieme alla vecchia macchi na statale siano stati stritolati anche molti, troppi comunisti? La sola denuncia non è sufficiente a spiegare né i delitti di ieri, né le requisito rie di oggi.

Non è possibile comprendere ciò che oggi esiste nell'Unione Sovie tica, il grado di sviluppo raggiunto dalla società sovietica senza aver chiaro com'è sorto, attraverso quali difficoltà e quali contraddizioni, ciò che oggi esiste. Non possiamo abbandonarci a spiegazioni psicolo giche, moraliste, individuali senza scivolare nel misticismo e restare ancora invischiati sul terreno del culto della personalità.

Il metodo marxista ci obbliga a partire dai fatti concreti, dagli av venimenti senza dubbio complicati e complessi, dalle condizioni na zionali e internazionali in cui operarono le forze proletarie per conqui stare il potere in Russia e dalla lotta che si svolse dopo, tra forze socia li contrapposte per arrivare a costruire il socialismo in un solo paese, in una Russia accerchiata, circondata, minacciata, aggredita dagli im perialisti come lo fu, e non una sola volta e nel 1941 da forze tali che si ponevano l'obbiettivo di distruggere il regime sovietico.

Certo, dal XX Congresso ad oggi dei passi in avanti sono stati fatti e nel Pcus e in altri partiti comunisti nella direzione del ritorno a una vita democratica normale. Ma questi passi non ci sembrano ancora sufficienti e certe volte si ha l'impressione che vecchi errori persistano e ricompaiano in forme nuove. Agli errori, alle ingiustizie più gravi, alle fucilazioni degli opposito ri nell'Unione Sovietica non si arrivò di colpo, fu un processo abba stanza lungo. Le fucilazioni, le false accuse, la liquidazione anche fisi ca di chi non condivideva la linea politica del partito fu il punto d'ar rivo, non fu il punto di partenza. Orbene, se si vuole, dopo averlo chi rurgicamente strappato, perché il cancro non rinasca, non ci si può li mitare a condannare le fucilazioni e a non fucilare più coloro che han no opinioni politiche diverse da quelle della maggioranza: occorre ri salire alle radici, alle cause del male, occorre che i partiti comunisti facciano altri passi decisivi nella restaurazione piena del costume di vi ta democratico.

Il male nell'Urss non cominciò negli anni 1936-38, ma assai prima, forse dieci anni prima, quando divenne difficile, poi impossibile alle minoranze sostenere apertamente le loro opinioni nel partito e negli organi dirigenti di cui facevano parte, quando venne introdotto nel Pcus il costume della unanimità, quando coloro che restavano mino ranza, anche se disciplinati e attivi nell'applicare la linea politica, veni vano tolti da tutti gli organismi dirigenti. Poi l'eliminazione dagli orga nismi dirigenti non bastò più, cominciarono ad applicare le misure amministrative e via via arrivarono alle deportazioni, agli arresti, alle fucilazioni eccetera. Naturalmente sappiamo che non tutto fu delitti e ingiustizie, sap piamo che non si trattò di un fenomeno complicato dove l'azione del nemico si intrecciava e spesso si confondeva con l'azione di chi, pur essendo oppositore a una politica in un certo momento prevalente, tuttavia non era un avversario, un nemico del partito, ma un comuni sta sincero e onesto anche se con posizioni politiche errate.

Lo sappiamo bene che a certi metodi si arrivò non soltanto per cat tiveria, malvagità e ignoranza di singoli, ma perché premevano e agi vano situazioni interne ed esterne, nemici interni e nemici esterni, per ché spesso le opposizioni ricorsero a mezzi di lotta inammissibili, e an che perché in certi casi vi furono errori di scelte nel risolvere determi nati problemi.

Ricordiamo tutti il periodo in cui lo stesso Stalin si opponeva vigorosamente all'introduzione nel partito dei metodi che egli chiamava della ghigliottina (vedi rapporto Stalin al XIV Congresso del Pcus, 18 dicembre 1925).

Il male cominciò quando nell'Unione Sovietica e nel Pcus venne a mancare, sia pure per cause diverse - specie negli organismi dirigenti superiori - la possibilità di una dialettica interna, non vi era più la pos sibilità di alternativa, di un ricambio normale del gruppo dirigente.

Né a creare la possibilità dell'alternarsi dei gruppi dirigenti sono sufficienti determinate norme statutarie e organizzative. E' necessario ricreare un costume nuovo, una mentalità nuova; la coscienza democratica deve esprimersi nelle norme statutarie di partito, ma la dobbia mo soprattutto portare dentro di noi. E occorre, a parer mio, ritornare anche a una rivalorizzazione dei principi della teoria marxista-leninista. Se ciò che conta sono soltanto le posizioni contingenti, se i principi non contano o hanno scarsa im portanza, allora inevitabilmente l'alternativa democratica normale, fondata su di una base sana non ci sarà, ma sarà ancora possibile nei partiti comunisti, com'è avvenuto in passato, che certi gruppi diri genti di certi partiti lottino per restare sempre e comunque alla testa, per realizzare qualunque politica, magari quella del contraddittore battuto.

Noi abbiamo sempre concepito il partito come l'organizzazione po litica d'avanguardia della classe operaia e di tutti i lavoratori, come una organizzazione che presuppone degli uomini e degli organismi di rigenti, ma che non si identifica mai né con un uomo, né con un orga nismo dirigente e neppure con una linea politica che per quanto giu sta è sempre contingente.

Occorre abbandonare nella vita interna dei partiti comunisti certi sistemi artificiali che anziché rinforzare l'unità, la coesione del partito acutizzano e consolidano i dissensi, sterilizzano la circolazione delle idee, l'iniziativa dei compagni, la vitalità piena del partito e di tutti i suoi organismi dirigenti.

Un anno fa di questi giorni, quando discutemmo della risoluzione degli 81 partiti comunisti, sottolineando la forza del movimento co munista internazionale, mettemmo l'accento soprattutto sulle nostre preoccupazioni per l'unità del movimento comunista e operaio inter nazionale, e insistemmo sulla assoluta necessità di mantenere l'unità del movimento comunista e operaio internazionale.

«Quest'unità - è detto nella risoluzione - è la condizione impre scindibile per la vittoria: nella lotta per l'indipendenza nazionale, per la democrazia, la pace, nella lotta per il socialismo. La violazione di questi principi condurrebbe all'indebolimento delle forze del comunismo».

Ora, in che misura dal XX Congresso ad oggi e dalle due conferen ze internazionali dei partiti comunisti, quella del novembre 1957 e del dicembre 1960, si è lavorato da parte di tutti i partiti comunisti per rafforzare quest'unità? Nessuno di noi ha dei dubbi, credo, sugli erro ri di certe tesi sostenute da partiti comunisti di altri paesi, sulla neces sità della critica a quelle tesi sbagliate. Il nostro partito ha assunto in proposito posizioni chiare e precise che sono sancite da documenti e risoluzioni votate dal nostro Comitato centrale.

Siamo pure concordi, ritengo, nel condannare certi metodi ripro vevoli e inammissibili che vengono impiegati in Albania, come a suo tempo sono stati anche impiegati in Jugoslavia e in altri paesi. Questi sistemi devono essere condannati in qualunque paese socialista venga no applicati. Ma non basta deplorare e condannare i sistemi inammis sibili, sino a quando ci limitiamo a questo, noi non andiamo al di là delle denunce che possono soltanto turbare le coscienze dei comunisti onesti, ma non poniamo mano ad alcun rimedio.

Il rimedio era stato trovato, o si credeva di averlo trovato nella de cisione presa a suo tempo e cioè che, «nelle loro relazioni reciproche i paesi socialisti si uniformano ai principi di piena eguaglianza, di ri spetto dell'integrità territoriale, dell'indipendenza e sovranità statale, nel non intervento negli affari interni», ecc. ecc.

La pratica ha dimostrato che la soluzione non è ancora stata trova ta e concordo con il compagno Pajetta quando dice che è una illusio ne quella di certi compagni che pensano sia sufficiente incontrarsi, se dere attorno a un tavolo e discutere fraternamente, perché l'accordo sia facilmente trovato. Ma mentre si cercano forme nuove di contatti e di collaborazione tra i partiti comunisti e operai, è necessario intanto che ci si renda con to da parte di tutti i partiti comunisti della necessità di essere uniti in tanto su tutte le questioni sulle quali l'accordo c'è.

Noi tutti riconosciamo, lo abbiamo sottolineato mille volte, la fun zione cui assolve l'Unione Sovietica nel movimento comunista e ope raio internazionale e proprio per questo al Pcus competono responsa bilità di primo piano non soltanto di fronte al popolo sovietico, ma di fronte al movimento comunista e operaio di tutto il mondo.

I compagni cinesi e di altri partiti possono avere posizioni errate, che noi non condividiamo, ma la responsabilità dell'unione del movi mento comunista internazionale ricade su tutti e tutti i partiti comuni sti e specialmente il Pcus debbono operare per mantenerla e rafforzar la. Ma poiché noi non possiamo pretendere di essere il centro dell'uni verso, ritengo che è compito nostro intanto pensare al nostro partito.

Intanto dobbiamo fare conoscere ai più, a quei milioni di lavorato ri italiani che attendono la nostra parola, che cos'è il Partito comuni sta italiano, com'è sorto, come si è sviluppato, attraverso quali discus sioni, quali lotte e quali esperienze.

La critica degli errori deve sempre essere accompagnata con l'e sposizione delle lotte positive condotte dal Pci. Perché molti giovani, molti lavoratori di oggi non conoscono il nostro passato. Su questo punto concordo con il compagni Vidali quando afferma che oggi mol ti giovani guardano ai vecchi compagni come a dei responsabili, a dei complici di crimini e di delitti. Guardano all'attività passata come a un'attività piena soprattutto di errori e perciò da condannare. Ora, si deve sapere che il nostro partito ha un passato positivo di cui possia mo giustamente andare orgogliosi. Senza quel passato, senza quelle lotte combattute durante quarantanni, senza l'attività di ieri il nostro partito non sarebbe quello che è oggi, non saremmo neppure qui a parlare, non avrebbe il peso che ha nella vita italiana e nel movimento operaio internazionale.

Noi respingiamo sdegnosamente l'affermazione di Nenni che cerca di coinvolgere nella condanna tutti i quarant'anni di vita dei partiti co munisti, parlando di «degenerazioni che accompagnarono 40 anni or sono il passaggio dal leninismo allo stalinismo». Non a caso parla di quarant'anni, perché questa data corrisponde agli anni di vita del nostro partito di cui egli cerca cosi di negare le ragioni storiche del suo sorgere, per cui tutto sarebbe stato sbagliato, il nostro partito avrebbe sbagliato sempre, avrebbe cominciato a sbagliare sin dal momento in cui è sorto.

Dobbiamo far conoscere il Pci e si deve sapere che per molti anni dalla sua fondazione in poi, e direi per quasi tutti gli anni della clande stinità, il Pci in Italia, nelle isole e nell'emigrazione, ha avuto al suo in terno una vita democratica, al punto che si esigeva che chi si trovava in disaccordo, chi si trovava all'opposizione accettasse di fare parte degli organismi dirigenti del partito e ciò non soltanto al congresso di Lione, ma anche dopo.

Naturalmente le influenze estranee si fecero sentire e a poco a po co pesarono anche sul nostro partito e presero il sopravvento.

Già un'altra volta ho avuto occasione di scrivere (durante la discus sione precongressuale dell'VIII Congresso) che per vent'anni e più il Pcus ha applicato determinati metodi di direzione, introdotti poi nel l'Internazionale comunista e negli altri partiti comunisti, metodi non tutti errati evidentemente, ma che tuttavia sono stati alterati ed esa sperati da gravi errori.

Quei metodi di direzione hanno avuto senza dubbio influenze, an che nel nostro partito, su di noi e nella formazione dei quadri e dei militanti, metodi di direzione che favorirono lo svilupparsi di una men talità fideistica, dogmatica, schematica.

Ma sarebbe un errore se tacessimo che i comunisti italiani non era no affatto inclini al conformismo. Alle volte mi viene da sorridere quan do vedo che certi giovani compagni, in visita in Unione Sovietica, cre dono di compiere chissà quale atto di coraggio nel criticare un monu mento o l'architettura di un palazzo e guardano a noi con una certa aria di superiorità, come se noi fossimo dei conformisti, incapaci di una qualsiasi critica.

Si deve sapere che noi ci siamo formati attraverso discussioni poli tiche, lotte di opinioni che si scontrarono e più di una volta, ma abbia mo saputo restare uniti. Guardiamoci negli occhi, i compagni anziani che siamo qui, quante volte nel corso della vita di partito ci è accadu to di essere minoranza? Quanti dibattiti vivaci, appassionati, talvolta anche aspri, ma che solo in alcuni casi portarono alla rottura.

Il gruppo dirigente del Pci non si è dilaniato, non ha divorato se stesso. Quanti sono i partiti comunisti che hanno nelle loro file e nel loro Ce un gruppo cosi numeroso di compagni che sono nel partito dalla fondazione? Questo è anche il risultato di un metodo di direzio ne, di un costume, di una «tolleranza» verso le opinioni divergenti.

La destalinizzazione per noi deve significare il ritorno alla pienezza della vita democratica, quando parlo di ritorno non intendo affatto di re che dobbiamo ritornare al 1921. No, la pienezza della vita demo cratica deve comprendere tutto ciò che di positivo il partito ha acqui sito dal 1921 in poi nei suoi metodi e criteri di organizzazione e di di rezione. Non si tratta di ritornare alle frazioni, a una situazione in cui la posizione politica di minoranza si cristallizzi; ritorno alla pienezza di vita democratica significa ritornare alla possibilità della contrappo sizione dialettica, della discussione franca dei problemi in modo che si possono misurare anche due posizioni contrastanti, come è già avve nuto anche recentemente. Alla fine della discussione la maggioranza decide e tutto è finito e magari su un altro problema, in altra occasio ne, noi vedremo che non saranno più gli stessi uomini, gli stessi com pagni a trovarsi nella maggioranza o nella minoranza. Ritorno alla pienezza della vita democratica deve significare ritorno alla contrapposizione dialettica, alla critica franca anche vivace, ma sempre su di un piano politico di unità, di collaborazione, di lealtà, di stima e di partecipazione attiva al lavoro (tutti i compagni che voglio no lavorare devono essere utilizzati, devono poter partecipare in pieno all'attività del partito) e con quel grado di tolleranza - scriveva il com pagno Togliatti nel 1956 - degli errori che è indispensabile per scopri re la verità, che è indispensabile alla piena indipendenza di giudizio e alla formazione del carattere.