Vladimir I. Lenin
Nuovi tempi, vecchi errori in forma nuova [1]
28 agosto 1921
Ogni svolta particolare nella storia modifica alquanto le oscillazioni piccolo-borghesi, che sempre si verificano accanto al proletariato e sempre penetrano in misura più o meno grande nelle file del proletariato.
Il riformismo piccolo-borghese, cioè il servilismo verso la borghesia, celato sotto bonarie frasi democratiche e «social»-democratiche e pii desideri, e il rivoluzionarismo piccolo-borghese minaccioso, tronfio, presuntuoso a parole, e nei fatti vaniloquio incoerente, sconnesso, insulso: queste sono le due «correnti» di queste oscillazioni. Esse sono inevitabili, finché esistono le radici più profonde del capitalismo. E oggi, con la svolta che si sta operando nella politica economica del potere sovietico, vanno assumendo una forma diversa.
Il leit-motiv dei menscevizzanti è: «I bolscevichi hanno fatto marcia indietro, verso il capitalismo; questa sarà la loro tomba. Dopo tutto la rivoluzione, compresa la rivoluzione d'Ottobre, è una rivoluzione borghese! Viva la democrazia! Viva il riformismo!». Lo si dica alla menscevica o alla socialista-rivoluzionaria, nello spirito della II Internazionale o della Internazionale due e mezzo, la sostanza è la stessa.
Il leit-motiv dei semianarchici, del genere del «Partito operaio comunista» tedesco, o di quella parte della nostra ex opposizione operaia che è già uscita o sta uscendo dal partito è: «I bolscevichi oggi non hanno più fiducia nella classe operaia!». Di qui le parole d'ordine più o meno simili a quelle lanciate da Kronstadt nella primavera scorsa.
Contrapporre, nel modo più sobrio e preciso, ai lamenti e al panico dei filistei del riformismo e dei filistei del rivoluzionarismo, la valutazione delle vere forze di classe e fatti incontestabili: questo è il compito dei marxisti.
Rammentate le fasi principali della nostra rivoluzione. Prima fase, per così dire puramente politica, dal 25 ottobre al 5 gennaio, giorno in cui fu sciolta l'Assemblea costituente. In una decina di settimane noi facemmo, per distruggere effettivamente e completamente i residui del feudalesimo in Russia, cento volte più di quel che avevano fatto i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari negli otto mesi del loro potere (dal febbraio all'ottobre 1917). I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari e, all'estero, tutti gli eroi dell'Internazionale due e mezzo erano allora dei miserabili complici della reazione. Gli anarchici se ne stavano sgomenti in disparte, o ci aiutavano. Si trattava allora di una rivoluzione borghese? Sì, certamente, in quanto l'opera che portammo a termine era il compimento della rivoluzione democratica borghese, in quanto in seno alle «masse contadine» non c'era ancora lotta di classe. Ma al tempo stesso facemmo molto, molto di più della rivoluzione borghese per la rivoluzione socialista proletaria: 1. sviluppammo come non mai le forze della classe operaia affinché essa potesse utilizzare il potere statale; 2. assestammo un colpo, avvertito in tutto il mondo, ai feticci della democrazia piccolo-borghese, alla Costituente e alle «libertà» borghesi, quali la libertà di stampa per i ricchi; 3. creammo il tipo sovietico di Stato, che rappresenta un gigantesco passo in avanti dopo il 1793 e il 1871.
Seconda fase. La pace di Brest. Orgia di frasi rivoluzionarie contro la pace: frasi semipatriottiche dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, frasi «di sinistra» di una parte dei bolscevichi. «Hanno fatto la pace con l'imperialismo: sono perduti», affermavano, o colti dal panico o con gioia maligna, i piccoli borghesi. Ma i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi avevano fatto la pace con l'imperialismo come complici della spoliazione borghese a danno degli operai. Noi «facemmo la pace» cedendo al saccheggiatore una parte dei nostri beni per salvare il potere degli operai, per poter assestare dei colpi ancor più forti al saccheggiatore. Ci sentimmo dire che «non avevamo fiducia nelle forze della classe operaia», e di frasi come queste ne udimmo allora a iosa, ma non ci lasciammo ingannare dalle frasi.
Terza fase. La guerra civile, a cominciare dai cecoslovacchi e dai «difensori della Costituente» fino a Wrangel, nel 1918-1920. All'inizio della guerra il nostro Esercito rosso non esisteva. Se consideriamo le forze materiali, questo esercito è ancor oggi insignificante in confronto a qualsiasi altro esercito dei paesi dell'Intesa. E ciò nonostante, siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro l'Intesa, che è una potenza mondiale. L'alleanza dei contadini e degli operai, sotto la direzione del potere statale proletario, è stata portata - come conquista della storia mondiale - ad un'altezza mai conosciuta. I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari si erano assunti la funzione di complici della monarchia, sia di complici dichiarati (ministri, organizzatori, propagandisti), sia di complici dissimulati (più «sottile» e più abietto fu l'atteggiamento dei Cernov e dei Martov, che fìngevano di lavarsene le mani, ma di fatto lavoravano di penna contro di noi). Gli anarchici si agitavano impotenti: una parte di essi ci aiutava, l'altra recava pregiudizio al nostro lavoro o inveendo contro la disciplina militare o con lo scetticismo.
Quarta fase. L'Intesa è costretta a cessare (per quanto tempo?) l'intervento e il blocco. Il paese, terribilmente devastato, incomincia stentatamente a riprendersi; solo ora si accorge di tutta la profondità del disastro, e soffre delle calamità più tremende: paralisi dell'industria, cattivo raccolto, fame, epidemie.
Nella nostra lotta storica di importanza mondiale abbiamo raggiunto il punto culminante e al tempo stesso più difficile. In questo momento, nel periodo attuale, il nemico non è più quello che era ieri. Il nemico non è più un'orda di guardie bianche al comando dei grandi proprietari fondiari, sostenuti da tutti i menscevichi e socialisti-rivoluzionari e da tutta la borghesia internazionale. Il nemico è oggi la realtà economica quotidiana in un paese di piccoli contadini, in un paese in cui la grande industria è in rovina. Il nemico è oggi l'elemento piccolo-borghese, che ci circonda come l'aria e penetra profondamente nelle file del proletariato. E il proletariato è declassato; è stato cioè gettato fuori dal suo alveo di classe. Le fabbriche e le officine sono chiuse, il proletariato è indebolito, disperso, estenuato, e l'elemento piccolo-borghese nell'interno dello Stato è appoggiato da tutta la borghesia internazionale, che è ancora potente in tutto il mondo.
E allora, come non lasciarsi prendere dalla paura? Soprattutto quando si è degli eroi come lo sono i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, i paladini dell'Internazionale due e mezzo, gli anarchici impotenti e gli amatori delle belle frasi «di sinistra». «I bolscevichi ritornano al capitalismo; i bolscevichi hanno i giorni contati; anche la loro rivoluzione non ha superato i limiti della rivoluzione borghese». Di queste geremiadi ne udiamo a profusione.
Ma ci siamo ormai abituati.
Noi non vogliamo sottovalutare il pericolo. Lo guardiamo bene in faccia. Noi diciamo agli operai e ai contadini: il pericolo è grande; più coesione, più fermezza, più sangue freddo; cacciate sprezzantemente dalle vostre file i menscevizzanti, i seguaci dei socialisti-rivoluzionari, gli allarmisti e gli urlatori.
II pericolo è grande. Il nemico è molto più forte di noi economicamente, come ieri lo era militarmente. Lo sappiamo, e in ciò sta la nostra forza. Abbiamo già compiuto un lavoro così gigantesco per sbarazzare la Russia dal feudalesimo, per sviluppare tutte le forze degli operai e dei contadini, per la lotta mondiale contro l'imperialismo, per il movimento proletario internazionale, liberato dalle banalità e dalle bassezze della II Internazionale e dell'Internazionale due mezzo, che le grida di panico non hanno su di noi alcun effetto. La nostra attività rivoluzionaria noi l'abbiamo già pienamente e più che pienamente «giustificata», dimostrando coi fatti al mondo intero di che cosa è capace la forza rivoluzionaria proletaria, a differenza della «democrazia» menscevica e socialista-rivoluzionaria e del riformismo pusillanime, che si nasconde sotto una pomposa fraseologia.
Chi teme la sconfitta alla vigilia di un grande battaglia può chiamarsi socialista solo per prendere in giro gli operai.
Proprio perché non temiamo di guardare il pericolo in faccia, noi utilizziamo meglio le nostre forze per la lotta, valutiamo le possibilità con un maggior senso della realtà, con più prudenza e circospezione, facciamo tutte quelle concessioni che accrescono le nostre forze e frazionano le forze del nemico (ora anche l'ultimo degli imbecilli vede che la «pace di Brest» fu una concessione che ha accresciuto le nostre forze e ha frazionato quelle dell'imperialismo internazionale).
I menscevichi urlano che l'imposta in natura, la libertà di commercio, l'autorizzazione di concessioni e il capitalismo di Stato significano il fallimento del comunismo. A questi menscevichi fa eco dall'estero l'ex comunista Levi. Abbiamo difeso questo Levi fino a quando i suoi errori si sono potuti spiegare come una reazione a una serie di errori commessi in Germania dai comunisti «di sinistra», specialmente nel marzo 1921, ma non si può più difenderlo quando, invece di riconoscere il suo torto, scivola completamente nel menscevismo.
Agli schiamazzatori menscevichi diremo semplicemente che già nella primavera del 1918 i comunisti avevano proclamato e difeso l'idea di un blocco, di un'alleanza col capitalismo di Stato contro l'elemento piccolo-borghese. Tre anni fa! Nei primi mesi della vittoria bolscevica! Già allora i bolscevichi avevano il senso della realtà. E da allora nessuno ha potuto negare che la nostra sensata valutazione delle forze esistenti era giusta.
Scivolato nel menscevismo, Levi consiglia ai bolscevichi (la cui disfatta ad opera del capitalismo egli «pronostica», allo stesso modo come tutti i piccoli borghesi, i democratici, i socialdemocratici, ecc pronosticavano la nostra fine nel caso in cui avessimo sciolto la Costituente!) di chiedere aiuto a tutta la classe operaia! Poiché, vedete, soltanto una parte finora li ha aiutati!
Su questo punto Levi si trova perfettamente d'accordo con i semianarchici e gli urlatori, e in parte con alcuni membri dell'ex «opposizione operaia», i quali amano proclamare con frasi altisonanti che oggi i bolscevichi «non hanno fiducia nelle forze della classe operaia». E i menscevichi e gli anarchizzanti trasformano il concetto «forze della classe operaia» in un feticcio, incapaci come sono di comprenderne il contenuto reale, concreto. Allo studio e all'analisi di questo contenuto si sostituisce la declamazione.
I signori dell'Internazionale due e mezzo, che vogliono chiamarsi rivoluzionari, in realtà ogniqualvolta si presenta una situazione seria provano di essere dei controrivoluzionari, poiché temono la distruzione violenta del vecchio apparato statale, non hanno fiducia nelle forze della classe operaia. Quando lo dicevamo noi a proposito dei socialisti-rivoluzionari & C., per noi questo non era semplicemente una frase. È a tutti noto che la rivoluzione d'Ottobre ha di fatto portato alla ribalta forze nuove, una classe nuova; che oggi i migliori rappresentanti del proletariato governano la Russia, hanno creato un esercito e lo hanno diretto, hanno creato l'amministrazione locale, ecc., dirigono l'industria, ecc. Se in questo lavoro di direzione vi sono storture burocratiche, noi non dissimuliamo questo male; al contrario, lo mettiamo a nudo, lo combattiamo. Coloro che, a causa della lotta contro le storture del nuovo regime, ne dimenticano il contenuto, dimenticano cioè che la classe operaia ha creato e dirige uno Stato di tipo sovietico, costoro, invero, non sanno pensare e gettano le loro parole al vento.
Ma le «forze della classe operaia» non sono illimitate. Se oggi il flusso di forze nuove della classe operaia è debole, e talvolta molto debole, se, nonostante tutti i decreti, gli appelli, la propaganda, tutti gli ordini relativi all'«avanzamento dei senza partito», il flusso di forze è ancora debole, limitarsi a declamazioni sulla «mancanza di fiducia nelle forze della classe operaia» significa cadere in una fraseologia vuota di senso.
Se non avremo una certa «tregua», non avremo nuove forze; esse crescono soltanto lentamente; esse possono sorgere soltanto sulla base della grande industria ricostituita (cioè, per esprimersi in termini più esatti e più concreti, sulla base dell'elettrificazione), e non altrimenti.
Dopo aver compiuto uno sforzo di un'intensità senza precedenti nel mondo, la classe operaia di un paese di piccoli contadini e rovinato, classe operaia che è stata in larga misura declassata, ha bisogno di un intervallo di tempo per permettere alle nuove forze di crescere e di organizzarsi, e alle forze vecchie logore di «essere restaurate». La creazione di un apparato militare e statale, che ha saputo resistere vittoriosamente a tutte le prove degli anni 1917-1921, è stata una grande impresa, che ha occupato, assorbito, esaurito le «forze della classe operaia» reali (e non quelle che esistono solo nelle clamorose declamazioni). Bisogna comprenderlo e tener conto della necessità o, più esattamente, della inevitabilità che le nuove forze della classe operaia crescano più lentamente.
Quando i menscevichi levano urla contro il «bonapartismo» dei bolscevichi (che s'appoggerebbero sull'esercito e sull'apparato statale, contro la volontà della «democrazia»), esprimono perfettamente la tattica della borghesia, e Miliukov a giusta ragione appoggia questa tattica, appoggia le parole d'ordine «di Kronstadt» (primavera del 1921). La borghesia ritiene giustamente che le «forze» reali della «classe operaia» siano oggi costituite dalla potente avanguardia di questa classe (il Partito comunista russo, che non di colpo, ma nel corso di venticinque anni, si è conquistato con i fatti la funzione, la forza e il titolo di «avanguardia» dell'unica classe rivoluzionaria) e poi dagli elementi che il declassamento ha maggiormente indebolito e che sono più suscettibili di cadere nelle oscillazioni mensceviche ed anarchiche.
Con la parola d'ordine «più fiducia nelle forze della classe operaia», in realtà oggi si lavora per rafforzare le influenze mensceviche e anarchiche: nella primavera del 1921, Kronstadt l'ha mostrato e dimostrato con grande evidenza. Ogni operaio cosciente deve smascherare e cacciar via coloro che urlano che noi «non abbiamo fiducia nelle forze della classe operaia», perché questi urlatori sono in realtà complici della borghesia e dei grandi proprietari fondiari, a profitto dei quali agiscono per indebolire il proletariato, estendendo l'influenza dei menscevichi e degli anarchici.
Ecco dov'è la radice del male, se si riflette in modo sensato sul significato reale del concetto: «forze della classe operaia».
Dov'è il vostro lavoro, brava gente, che cosa avete fatto per far avanzare i senza partito sul «fronte» che è oggi il fronte più importante, sul fronte economico, dell'edificazione economica? Ecco la domanda che debbono porre gli operai coscienti agli urlatori. Ecco come si possono e si devono smascherare costoro: dimostrare che essi, in realtà, non aiutano, ma ostacolano la rivoluzione proletaria; che essi vogliono attuare aspirazioni non proletarie, ma piccolo-borghesi; che essi sono al servizio di una classe a noi estranea.
La nostra parola d'ordine è: abbasso questi urlatori! Abbasso i complici incoscienti delle guardie bianche, che ripetono gli errori dei miserabili rivoltosi di Kronstadt della primavera del 1921! Mettetevi tutti a un lavoro pratico che aiuti a comprendere le particolarità della situazione odierna e i suoi compiti! Non frasi ci occorrono, ma fatti.
Una valutazione sensata di questa particolarità e delle forze di classe reali, e non immaginarie, ci dice:
Dopo un periodo di successi, che non hanno precedenti nella storia, dell'attività creativa proletaria nel campo militare, amministrativo, politico, si è entrati - non fortuitamente, ma necessariamente; non per colpa di uomini o di partiti, ma a causa di ragioni oggettive - in un periodo in cui le nuove forze crescono molto più lentamente. Nel campo economico il lavoro di edificazione è inevitabilmente più difficile, più lento, più graduale; ciò dipende dalla natura stessa di questo lavoro in confronto a quello militare, amministrativo, politico. Ciò dipende dalla sua particolare difficoltà e dal fatto che il terreno da coltivare, se così ci si può esprimere, è più profondo.
Cerchiamo quindi di definire con la massima, assoluta cautela i nostri compiti in questa fase nuova, superiore, della lotta. Definiamoli con la maggior modestia possibile; facciamo il più gran numero di concessioni, nei limiti, beninteso, in cui il proletariato può cedere rimanendo classe dominante; raccogliamo quanto più rapidamente è possibile una moderata imposta in natura; diamo la maggior libertà possibile allo sviluppo, al rafforzamento, alla ricostituzione dell'economia agricola; cediamo gli stabilimenti che non ci sono strettamente necessari ad appaltatori, compresi i capitalisti privati e i concessionari stranieri. Abbiamo bisogno di un blocco o di un'alleanza dello Stato proletario con il capitalismo di Stato, contro l'elemento piccolo borghese. Quest'alleanza deve essere realizzata con abilità, seguendo la regola: «Misura sette volte prima di tagliare». Riserviamoci un campo di lavoro meno vasto, quello che ci è assolutamente necessario, e nulla più. Concentriamo in un settore più piccolo le forze indebolite della classe operaia; ma in compenso ci rafforzeremo più solidamente, affronteremo la prova dell'esperienza pratica, non una e due volte, ma più volte. Passo passo, un pollice dopo l'altro: per un cammino così arduo, in una situazione così grave, tra tali pericoli, un «esercito» come il nostro non può avanzare oggi in altro modo. Chi trova questo lavoro «noioso», «privo di interesse», «incomprensibile», chi arriccia il naso o cade in preda al panico, o si lascia ubriacare da declamazioni sull'assenza dell'«antico slancio», dell'«antico entusiasmo», ecc., deve essere - o meglio sarà - «esonerato dal lavoro» e relegato negli archivi, affinché non possa portare pregiudizio, poiché non vuole o non sa riflettere sulle particolarità della situazione attuale, della fase attuale della lotta.
Nel mezzo della tremenda rovina del paese e dell'esaurimento delle forze del proletariato, spossate da una serie di sforzi quasi sovrumani, noi affrontiamo l'opera più difficile: gettare le fondamenta di un'economia realmente socialista, organizzare lo scambio regolare delle merci (più esattamente: dei prodotti) fra l'industria e l'agricoltura. Il nemico è ancora molto più forte di noi; lo scambio delle merci, fatto in modo anarchico, individuale, dagli speculatori, scalza il nostro lavoro ad ogni passo. Noi vediamo chiaramente le difficoltà e le supereremo sistematicamente, con tenacia. Lasciamo più iniziativa e più attività indipendente agli organismi locali, diamo loro più forze, accordiamo più attenzione alla loro esperienza pratica. La classe operaia può sanare le sue ferite, riprendere la sua «forza di classe» proletaria; i contadini possono rafforzare la loro fiducia nella direzione proletaria unicamente nella misura in cui l'industria sarà realmente ricostituita con successo e lo Stato organizzerà uno scambio regolare dei prodotti, vantaggioso sia per il contadino che per l'operaio. Nella misura in cui otterremo questi successi, avremo un afflusso di forze nuove, forse non così presto come tutti noi vorremmo, ma lo avremo.
Avanti, per un lavoro più lungo e più prudente, più fermo e più tenace!
Note
[1] Pubblicato nella Pravda, 28 agosto 1921. Testo italiano da Lenin, cit. pp. 1613-1120.