URSS, agosto 1991

Il golpe di Eltsin e quello degli altri

Analisi degli avvenimenti dell'agosto 1991 a Mosca a firma di Luca Baldelli,
pubblicata il 19 marzo 2018 sul sito
noicomunisti.blogspot.it


La storiografia, in questo correttamente, fissa nei giorni 19-21 agosto del 1991 le date della fine dell'Unione Sovietica, anteponendola, cronologica­mente, all'ammainamento della rossa bandiera dell'Urss sul pennone del Cremlino, alle ore 19,45 del 21 dicembre successivo. Il famoso "colpo di Stato" estivo, dunque, rappresentò la fine di un'esperienza storica gloriosa durata 70 anni, fondata e sulla costruzione del socialismo in un solo Paese e sulla spinta internazionalista volta a liberare l'umanità dalle catene dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dell'imperialismo, della rapina colonialista e neocolonialista.

I prodromi di quella vicenda, vanno però rintracciati negli anni '80 della controrivoluzione anticomunista mascherata sotto il nome di "perestrojka": lo smantellamento progressivo della pianificazione centralizzata, l'allentamento della disciplina nei settori della produzione, della distribuzione e del commercio al dettaglio, lo spazio sempre maggiore concesso all'iniziativa privata, con arricchimenti scandalosi di soggetti legati a cooperative e imprese individuali autorizzate, il venir meno, lento ma inesorabile, del ruolo del Partito come soggetto cardine politico-educativo, l'interiorizzazione dei miti consumistici dell'occi­den­te, sapientemente veicolati dalla nuova borghesia oligarchica emergente, in un ampio settore del popolo, furono tutte crepe che, pian piano, portarono all'erosione delle fondamenta, un tempo solide, del socialismo sovietico.

Una "maggioranza silenziosa" di cittadini, sempre più, specie a partire dal 1988/89, espresse la sua indignazione per lo sfascio dello Stato, per il peggioramento costante del tenore di vita (altro che la stagnazione brezhneviana, mito inventato per nascondere il fallimento totale dei gorbacioviani!), per la crisi deliberata degli approvvigio­namenti, sabotati intenzionalmente quando i magazzini rigurgitavano di merci, per i cedimenti assurdi dell'Urss in politica estera, dinanzi ad un imperialismo americano sempre più aggressivo e pericoloso.

Questa "maggioranza silenziosa", che ne aveva piene le tasche di Gorbaciov e dei suoi mandarini, non riuscì a trovare però, al di là di Egor Ligaciov, compagno di provata fede marxista-leninista, ma non molto energico ed anzi alquanto rinunciatario, una figura in grado di incarnare il malcontento e tradurlo in azione politica efficace, costruendo in breve tempo le premesse e le modalità operative per la cacciata del gruppo dirigente del PCUS in sella dal 1985. Tutto rimase confinato in faide di corridoio, tutt'al più, o in conati di ribellioni subito seguiti, invariabilmente, da adeguamenti ad un malinteso "principio di realtà" che, in pratica, voleva dire lasciar che le cose andassero come andavano, ovvero alla deriva.

Tutto ciò disamorò profondamente la popolazione delle Repubbliche sovietiche, la rese passiva, amorfa spettatrice, proprio nel momento in cui l'attivismo e la mobilitazione generale in difesa del socialismo minacciato avrebbe dovuto essere più energica e risolutiva. Sì, vi fu nella primavera del 1991 la riaffermazione della fedeltà della maggioranza della popolazione all'Urss, nel referendum del 17 marzo per il mantenimento dello Stato nella forma, nei confini e negli ordinamenti nati dalla Rivoluzione d'Ottobre e dai suoi sviluppi, ma tutto si limitò ad una scheda in un'urna, peraltro quasi subito disattesa, nelle intenzioni in essa espresse, dai comportamenti concreti della gran parte dei dirigenti apicali del Partito e dello Stato, a livello centrale e nelle singole Repubbliche. Le spinte centrifughe, gli egoismi nazionalistici, gli atteggiamenti filo-imperialisti, si moltiplicarono ovunque, dopo aver messo a segno i primi, deleteri colpi, nel Baltico fin dal 1989.

In questo clima di disordine, caos, paura, continuo sabotaggio del funzionamento dello Stato e dell'economia, nell'estate del 1991 vi fu chi parve vestire gli abiti del salvatore della Patria, della guida saggia volta raddrizzare le sorti della seconda (e, per molti aspetti, prima) potenza mondiale, prima che il baratro inghiottisse settant'anni di conquiste e speranze. Non fu una figura carismatica, con una coerente azione politica alle spalle e una prassi marxista-leninista volta a stimolare la partecipazione, il protagonismo popolare alla luce dei capisaldi della filosofia rivoluzionaria; no, fu un insieme, peraltro eterogeneo, di soggetti che, a vario titolo, ricoprivano incarichi al vertice dello Stato e del Partito. Soggetti che, animati da propositi sani e largamente condivisi, non poterono o non vollero condividerli apertamente con il popolo, conducendo così una lotta giusta sì, ma velleitaria e votata alla sconfitta. Chi erano tali soggetti?


- Gennadij Ivanovic Janaev, Vicepresidente dell'Urss;
- Vladimir Krjuchkov, capo del KGB dal 1988 e nel 1989/90 membro del Politburo, prima della purga gorbacioviana di inizio decennio; - Valentin Pavlov, Primo ministro dell'Urss, autore di una riforma monetaria, sofferta ma, per il tempo che durò, necessaria nell'arginare il travaso di rubli fuori dall'Urss, attuato dall'oligarchia gorbacioviana per minare, destabilizzare e distruggere l'Urss;
- Dmitrij Jazov, Ministro della Difesa dell'Urss;
- Boris Pugo, Ministro degli Affari Interni dell'Urss;
- Oleg Baklanov, Segretario del CC del PCUS per i problemi della difesa;
- Vasilij Starodubtzev, membro del CC del PCUS e uomo di fiducia di Nikolaj Ryzhkov, ex Primo ministro dell'Urss, predecessore di Pavlov;
- Aleksandr Tizjakov, esperto in economia, presidente dell'Associazione delle imprese statali e degli organi dell'industria, dell'edilizia, dei trasporti e delle comunicazioni dell'Urss.


Attorno a queste figure centrali, altre gravitarono per simpatia, affinità e condivisione di linee d'azione per arginare gli esiti nefasti della perestrojka: è il caso di Oleg Shenin, membro del CC del PCUS e Deputato del popolo, di Serghej Akhromeev, Consigliere del Presidente dell'Unione Sovietica per gli affari della difesa, di Valentin Varennikov, Vice-ministro della Difesa dell'Urss e di altre figure importanti e nevralgiche nell'ultima parte della storia dell'Urss.

Queste personalità si riunirono, il 18 agosto del 1991, nel "Comitato per lo Stato di emergenza" (GKCP, "Gosudarstvennij Komitet po Chrezviciajnomy Polozhenju"). Già dalla primavera di quell'anno si era registrata una fronda molto vivace, sull'onda della crisi economica e politica sempre più preoccupante, ed erano stati messi a punto piani e progetti, ai quali Gorbaciov non era, peraltro, del tutto estraneo, se è vero che autorevoli esponenti come Lukjanov, Presidente del Soviet Supremo dell'Urss, Prokofyev, Primo Segretario del PCUS di Mosca ed altri ancora, affermeranno che il Segretario generale del PCUS e Presidente dell'Urss sapeva tutto fin dal marzo del 1991 ed era stato, addirittura, messo a parte dei dettagli operativi per eventuali azioni efficaci nell'arrestare lo sfascio dello Stato [1].

Gorbaciov ammetterà, poi smentirà, ma in maniera del tutto poco credibile: egli, di certo, sapeva tutto e agì secondo il suo personale tornaconto, come vedremo, sbagliando però le previsioni in maniera irrecuperabile... Se in questo è evidente la spregiudicatezza del soggetto, è altrettanto palese la maldestrezza dei "congiurati", i quali, nel tentativo di salvare la Banca del sangue, informano Dracula dei loro piani.

Ad ogni modo, il 18 agosto del 1991 il Paese si svegliò con un turbinio di notizie che si rincorrevano, delineavano scenari, confermavano l'una il contenuto dell'altra o si elidevano a vicenda; di fatto, la grande URSS, per la prima volta nella sua pluridecennale storia, si trovava sotto la minaccia - si disse - di un colpo di Stato. Il GKCP, il Comitato per lo Stato di emergenza, aveva mosso le truppe e puntava allo "scacco matto". Le premesse coreografiche, per così dire, c'erano tutte, nessuna fece difetto o disturbò il protocollo "putschista" con sbavature inopportune. Particolare attenzione va incentrata su alcuni passi dell'appello [2] rivolto ai "compatrioti" e "cittadini dell'Unione Sovietica" dal GKCP, contenenti una disamina che, in sé e per sé, non poteva non essere condivisa dal 90% della popolazione, al di là dell'ambiguità delle formulazioni e della mancata comprensione del carattere intrinsecamente perverso di una certa linea seguita dal 1985 in poi:


"la politica di riforme - vi si legge - avviata per iniziativa di Mikhajl Gorbaciov, concepita come mezzo per assicurare lo sviluppo dinamico del Paese e la democratizzazione della vita pubblica, ha raggiunto lo stallo per una serie di motivi (...) Il politicismo ha tolto dalla vita pubblica la preoccupazione per il destino della Patria e dei cittadini. (...) Il Paese è diventato, essenzialmente, ingovernabile. Approfittando delle libertà, violando lo spirito della democrazia emergente, tutte le forze estremiste si stanno impegnando per l'eliminazione dell'Unione Sovietica, il collasso dello Stato, la presa del potere ad ogni costo. I risultati del referendum nazionale sull'unità della Patria sono stati calpestati. (...) La crisi del potere ha colpito in modo disastroso l'economia. L'eruzione spontanea e caotica del mercato, ha causato un erompere selvaggio di egoismi: regionali, distrettuali, di gruppo e di individui. La guerra alle leggi e l'incoraggiamento alle spinte centrifughe, si è trasformato nella distruzione di un meccanismo economico unitario, modellato nel corso di un processo di decenni. Il risultato è stato un netto calo del tenore di vita della grande maggioranza del popolo sovietico, la crescita della speculazione e dell'economia sommersa".


Accanto a ciò, forti erano i richiami al ruolo del Paese sullo scacchiere mondiale, con il contestuale inquadramento della necessità di una difesa a tutto campo dell'unità nazionale:


"Noi siamo un Paese pacifico e rigorosamente rispettoso dei suoi doveri. Non abbiamo rivendicazioni di alcun tipo. Vogliamo vivere in pace e in amicizia ma, al tempo stesso, affermiamo con determinazione che mai a nessuno sarà permesso di colpire la nostra sovranità, la nostra indipendenza ed integrità territoriale. (...) Proposte costruttive di organizzazioni socio-politiche, gruppi di lavoro, cittadini, saranno accettate di buon grado, come manifestazioni della volontà patriottica di partecipare attivamente al ripristino della concordia, in una famiglia unita di popoli fratelli, ed alla rinascita della Patria ".


I vibranti cenni patriottici, uniti ai caldi ed accorati appelli a salvaguardare il carattere socialista dello Stato, erano stati l'anima di un manifesto dal titolo "La parola al popolo", apparso un mese prima, nel luglio del '91, su "Sovetskaja Rossija" [3], e firmato da tutta una serie di personalità della cultura, della politica e del mondo militare, tra i quali alcuni dei partecipanti agli eventi di agosto. Propositi certamente giusti, sacrosanti, quelli dell'appello del 19 agosto, ma inseriti in un contesto di scarsa coerenza e continuità dell'agire politico, in un quadro assolutamente mancante della minima lucidità strategico-operativa: non solo si confidava nell'appoggio dello stesso Gorbaciov che rappresentava la causa prima dei problemi evidenziati, ma la stessa struttura dell'appello metteva in evidenza che, anziché poggiare sul popolo e sulla certezza di una sua sollevazione cosciente contro la destabilizzazione dell'Urss, come premesse indispensabili, vitali per la riuscita di un atto supremo di salvezza nazionale, si auspicava che il popolo seguisse e supportasse l'azione militare, la proclamazione dello stato di emergenza. Visione miope, questa, che, escludendo un lavoro politico capillare e preventivo, una mobilitazione vasta e radicale, a seguito di un piano largamente partecipato nei suoi capisaldi e nei suoi obiettivi, faceva dei protagonisti della formazione del GKCP un nucleo di carbonari nemmeno tanto scaltri, animati da pie intenzioni ad ogni piè sospinto distrutte e fagocitate dalla loro stessa incapacità di tradurle in atto.

Senza il popolo, restava null'altro che sperare, ai dadi, in una presa del Palazzo d'Inverno col consenso del Sovrano e senza qualche Kornilov o Denikin appostato dietro alle colonne e ai tendaggi. Il 19 agosto, quando si decise di andare al sodo, con la mobilitazione dei carri armati e la diffusione dell'appello del GKCP a tutta la popolazione dell'Urss, ne uscì fuori un obbrobrio che ricordò, anziché le glorie di Suvorov, Kutuzov, Zhukov e Budennyj, il tragicomico incedere dell' "Armata Brancaleone": ogni elementare profilassi tecnica, da Bignami dello stato di emergenza, a partire dall'interruzione delle comunicazioni telefoniche all'interno del Paese, fu scrupolosamente evitata. I nemici, a partire da Eltsin, che avrebbero dovuto essere messi in condizioni di non nuocere, furono lasciati liberi di andare e venire per la Nazione, senza alcun vincolo, senza alcuna restrizione. La stampa non fu soggetta ad alcun filtro censorio, continuando a pubblicare, da un lato, gli appelli ed i decreti del GKCP, che nessuno, o pochissimi, recepivano e attuavano, dall'altro i pronunciamenti di Eltsin e della sua banda.

Il futuro distruttore della Patria sovietica, del benessere e dell'integrità stessa della Nazione russa, lungi dal venire arrestato, potè rientrare tranquillamente dal Kazakhstan e soggiornare presso la sua dacia nei dintorni di Mosca. Con altrettanta tranquillità ed impassibilità, senza temere nemmeno un innocuo controllo dei documenti, potè procedere alla volta del centro della Capitale, una volta consultatosi con Shepilev e Khasbulatov sul da farsi, che significava, ça va san dire, opposizione frontale ai "golpisti". Già, chissà quale opposizione mai era necessaria, da parte del bacchico leader russo e dei suoi sodali, visto che, incredibilmente, egli potè raggiungere la "Casa Bianca" a bordo della sua "Ciajka", passando attraverso colonne di carri armati impassibilmente fermi, inoperanti (ve ne erano almeno 360, nella Capitale) e salire poi su un mezzo corazzato per inscenare la farsa dell'eroe che si oppone, in nome del popolo, al colpo di Stato.

Non vi fu alcun colpo di Stato, non vi fu il popolo ad acclamare Eltsin sul carro armato, non vi fu, parimenti, alcuna partecipazione popolare agli eventi, né a Mosca né in nessun'altra parte dell'Urss, se non nella forma della normale preoccupazione di ognuno per le sorti del proprio Paese, con la speranza che la situazione si chiarisse. Vi furono solo tre vittime, tre sbandati che avevano attaccato con le molotov un carro armato.

La narrazione politica e mediatica di uno Eltsin circondato da ali di popolo, decise a difendere usque ad effusionem sanguinis la "libertà" e la "democrazia", fu un'oscena montatura architettata ad arte per tirare la volata al vero golpe, quello, appunto, di Eltsin e della sua cricca. A circondare Eltsin issato sul carro armato e presente in alcuni dei palazzi del potere, non furono che pochi giornalisti e una schiera sparuta di curiosi, accorsi a vedere cosa stava succedendo. Su quella narrazione falsa e bugiarda, si è costruita la distruzione dell'Urss e lo smembramento della superpotenza mondiale che aveva dato del filo da torcere agli Usa e al sistema imperialista: a poche ore di distanza da una mobilitazione imponente quanto inutile delle forze armate, infatti, Boris Eltsin, già eletto nel 1991 Presidente della Repubblica russa con raggiri vari e brogli, dichiarò di voler mettere sotto il suo controllo tutti gli organi sovietici presenti nel territorio della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, dalle articolazioni politiche alle forze armate, dai centri del potere finanziario a quelli del potere giuridico.

Un autentico colpo di Stato, l'unico riuscito con successo, a dispetto della propaganda occidentale e anticomunista, in quel fatidico agosto del 1991. Un atto di forza partito fin dall'estate del 1990, quando Eltsin aveva firmato la cosiddetta "Dichiarazione di sovranità della Russia", autentico atto di alto tradimento, secessionista e anti-costituzionale.

E Gorbaciov? Colui il quale avrebbe dovuto giocare, nelle intenzioni dei membri del GKCP, il ruolo di un Presidente messo sotto tutela col suo stesso consenso, per sbarrare il passo alla distruzione dell'Urss, prima se ne stette rinserrato nella sua dacia di Foros, sul Mar Nero, dove agli inizi del mese se ne era andato in ferie, poi tornò a Mosca nella notte tra il 21 ed il 22, con tanto di teatrale discesa dall'aereo in compagnia della consorte, per accorrere in aiuto non certo di Jazov, di Pavlov o di Janaev, ma a supporto di Eltsin. Gli arresti ed il regime di custodia dei familiari e di alcuni dei più stretti collaboratori di Gorbaciov, in primis i consiglieri politici Shaknazarov e Cernajev, apparvero allora come atti di forza brutali, mentre oggi, valutando i fatti per come si svolsero, furono null'altro che una messa in scena o un disperato tentativo di influire sugli eventi, che in tre giorni appena volsero verso il destino implicito nelle modalità con le quali erano stati pianificati.

Insieme a quello che era stato il suo più acerrimo rivale, e sarebbe tornato ad esserlo a breve, scalzandolo dalle sue posizioni, il Segretario del PCUS e Presidente dell'Urss attuò una purga al vertice che condusse, in prima battuta, all'allontanamento di Jazov dalla carica di Ministro della Difesa, al suo arresto ed alla sua sostituzione con Mikhail Moiseev, Capo di Stato Maggiore dell'Armata Rossa, elemento opportunista che prima aveva sostenuto a spada tratta Jazov e poi, con lo sviluppo delle vicende, gli aveva voltato le spalle con sovrana, disarmante indifferenza. In breve tempo, egli dovette comunque far posto allo eltsiniano di ferro Evghenij Shaposhnikov, a testimonianza del fatto che la banda di Eltsin non si fermava certo davanti ad accordi contingenti e soluzioni intermedie, esigendo tutto il potere senza alcuna condizione.

Il golpe, quello vero, quello auspicato da tempo dalla CIA e dalle centrali imperialiste, era in corso in tutto il Paese, con epurazioni, allontanamenti manu militari di responsabili politici e figure istituzionali, sistematicamente emarginate per far spazio ai seguaci e tirapiedi di "Corvo bianco". Gorbaciov, che aveva pensato di padroneggiare gli eventi, ne fu dunque travolto, mentre coloro i quali avevano sperato di ricondurlo a più miti consigli, di convincerlo a prendere una posizione ferma contro la deriva inarrestabile del disordine e della restaurazione capitalistica, videro spegnersi le loro illusioni, senza l'appoggio di un popolo smarrito, fedele agli ideali del socialismo ma inviperito contro il vertice di un PCUS che Gorbaciov aveva trasformato in un Partito sempre più anticomunista, burocratico, schierato a difesa di processi economici iniqui, distorsivi e pesanti per la classe lavoratrice.

I "golpisti" del GKCP furono tutti arrestati, segno evidente questo, assieme alla paralisi delle unità militari davanti alla reazione eltsiniana dinanzi alla "Casa Bianca", che il nerbo della forze armate e del KGB, a dispetto di tutta una letteratura più fantascientifica che storica, stava ormai con i restauratori del capitalismo, o comunque non li stava ostacolando.

Uno dei "congiurati", Boris Pugo, si suicidò dopo aver sparato alla moglie, lasciando una sorta di testamento, non si sa quanto autentico, nel quale si dichiarava pentito e raggirato da persone nelle quali aveva creduto. Con il crollo del GKCP, il suo smantellamento e la persecuzione sistematica dei suoi elementi di punta, finì ogni speranza di veder difesa e rilanciata la grande Unione Sovietica. Cessò ogni possibilità di veder dispiegata qualsivoglia azione indirizzata a rafforzare il socialismo ed invertire, con fermezza, il processo di restaurazione capitalistico-borghese operante almeno dal 1988/89. L'indebolimento della proprietà collettiva e socialista, il sabotaggio della pianificazione, strumento ottimale per l'allocazione equa delle risorse, la stura data ad ogni tipo di localismo e nazionalismo, fecero precipitare la situazione e agevolarono il golpe di Eltsin a tutti i livelli. Anche figure che avevano appoggiato lo spirito dell'iniziativa del GKCP, senza compromettersi concretamente con l'azione del 19 agosto del 1991, come Anatolij Lukjanov, Presidente del Soviet Supremo dell'Urss, vennero accusati di "tradimento della Patria" (!!! ) e rinchiusi per lungo tempo in carcere: coloro i quali la Patria la stavano vendendo agli americani, ebbero pure il coraggio di accusare altri, autentici patrioti, di tradirla! In tutto il Paese, un'ondata di terrore, persecuzioni, angherie, mietè vittime tra i comunisti più attivi, onesti e capaci.

Il 23 agosto del 1991, un ukaz di Eltsin, nelle sue vesti di Presidente della RSFSR, dichiarò fuori legge il PCUS: una misura analoga a quelle di Hitler in Germania, Pinochet in Cile, Papadopoulos in Grecia. Il 29, la misura fu estesa a tutto il territorio dell'Urss, complice Gorbaciov. Uno scandalo dinanzi al quale i comunisti di tutto il mondo, con poche, lodevoli eccezioni, non fecero sentire la loro voce come si sarebbe dovuto, e davanti alla cui vergogna il mondo capitalista, sempre pronto a riempirsi la bocca con la parola "libertà", si rallegrò, stappando bottiglie di spumante e brindando per la realizzazione di un sogno, di un piano concepito da settanta lunghi anni. Gli Usa di Bush, Presidente ed ex capo della CIA, agenzia che infinite varianti di piani di abbattimento del socialismo reale aveva concepito, furono in testa ai festeggiamenti.


Vi è anche un'altra tesi [4], che per ora non diamo per oro colato, ma che riteniamo assai plausibile, e comunque corroborata da elementi concreti, secondo la quale, in realtà, anche l'azione del GKCP venne architettata nel quadro di un complotto (denominato "Piano Hammer") partorito dalla CIA, per iniziativa di Bush, con il concorso di personaggi quali Rumsfeld, Cheney, Wolfowitz e tutto il nocciolo duro dei cosiddetti "neocon". Costoro, agendo per impulso e con il diretto appoggio dell'alta finanza mondialista, segnatamente di personaggi quali Soros, Greenspan, Jacob Rothschild e Leo Wanta, avrebbero in pratica comperato Gorbaciov, Eltsin e lo stesso capo del KGB Krjuchkov, montando la sceneggiata del "colpo di Stato" fin dall'inizio, alfine di proiettare ai vertici dello Stato Eltsin, garante di una restaurazione capitalista che, se diamo credito a tale versione, avrebbe fatto comodo a tutti, dando ai burocrati del PCUS, ormai per nulla interessati al socialismo e, anzi, da questo impediti nel soddisfacimento dei loro appetiti di ricchezza, il modo di diventare capitalisti sulle spalle del popolo, associandosi alla borghesia emergente della perestrojka, collegata ad interessi stranieri di saccheggio e rapina di materie prime, infrastrutture, tecnologie e quant'altro.

Alcune fonti danno per certo che, alla vigilia dei fatti di agosto, l'agente britannico Robert Maxwell, in un qualche modo collegato a Krjuchkov fin dal 1990, avrebbe messo a disposizione del GKCP e della sua - a questo punto - farsa, ben 780 milioni di dollari. Se diamo credito a tale versione, dunque, Krjuchkov avrebbe per così dire giocato, alle spalle del resto del GKCP, nella squadra di Gorbaciov e di Eltsin contro l'Urss.

In futuro, forse, su questo emergeranno nuovi elementi in grado di rivelarci con maggiore esattezza i contorni della vicenda, in merito alla quale non commetteremo né l'errore di prenderla per buona a prescindere, né quello di giudicarla a priori una panzana. Del resto, gli elementi acquisiti e certi già sono sufficienti a tirare le somme di un giudizio politico e storico.

Ad ogni modo, in seguito al golpe di Eltsin ed in seguito alla criminale e liberticida messa al bando del PCUS, In quasi tutti gli angoli dell'Urss avvennero suicidi di figure integerrime, che alla causa del socialismo avevano dedicato l'intera vita: Nikolaj Kruchina, amministratore di quei beni del Partito sui quali la nuova mafia privatizzatrice e speculativa aveva messo gli occhi ed intendeva allungare le mani, Dmitrij Lisolovik, esperto di politica internazionale, Serghej Klimov, responsabile per l'ideologia del Comitato regionale del PCUS di Volgograd, furono solo alcuni dei tanti martiri del nuovo corso reazionario e filo-imperialista.

A quel punto, la bandiera ammainata nel Natale del 1991 sulla cupola del meraviglioso Cremlino, fu nulla più che l'icastico, scenografico suggello di una controrivoluzione la quale aveva già centrato tutti i suoi obiettivi, per disgrazia del popolo russo e sovietico e di tutta l'umanità progressista.

Note

[1] Anatolij Ivanovic Lukjanov Il golpe immaginario, Napoleone, 1994
[2] Testo russo in ru.wikisource.org
[3] Testo russo in ru.wikipedia.org
[4] [qui]