I mandanti e gli organizzatori
della rivolta ungherese

Riportiamo la cronaca argomentata dei giorni della rivolta ungherese scritta nei primi mesi del 1957 dallo storico statunitense Herbert Aptheker e pubblicata in traduzione italiana nel 1958 (La verità sull'Ungheria, Parenti Editore, Firenze 1958, pp. 315-405). Come abbiamo già sottolineato nella premessa, l'autore muove da una convinta adesione alle promesse di "rinnovamento" ispirate dall'avvento di Kruscev alla direzione del PCUS e parla spesso di 'errori' e persino 'crimini' dei dirigenti delle democrazie popolari negli anni di Stalin. Nonostante ciò, la sua cronaca mette lucidamente in rilievo negli 'innovatori' l'evidente clamorosa sottovalutazione della reazione e del sostegno che a questa viene dall'imperialismo, finchè, nel volgere di pochi giorni, impreparazione e irresolutezza e i sempre più patetici tentativi di blandire il movimento controrivoluzionario diventano per molti, a cominciare da Imre Nagy, palese complicità.


Il mattino del 23 ottobre l'organo del partito dei lavoratori ungheresi apparve con due testi di rilievo. Il primo era l'articolo di fondo ricordato nel capitolo precedente, con cui lo Szabad Nep dava il benvenuto all'azione e alle manifestazioni degli universitari per l'accelerazione del processo di democratizzazione. Il secondo era la riproduzione integrale del rapporto di Wladyslaw Gomulka al comitato centrale del partito operaio unificato polacco, pronunciato tre giorni prima a Varsavia. Il discorso di Gomulka era preceduto da una nota redazionale in cui si diceva che «in questi giorni in Polonia sta avvenendo qualcosa di portata storica».

Il discorso di Gomulka trattava di un problema che nelle sue linee essenziali, seppure in forma di­versa, era lo stesso problema che anche l'Ungheria doveva risolvere. Per questo, e perché l'esperienza polacca toccava così direttamente gli eventi unghe­resi, e finalmente perché il testo di Gomulka fu offerto integralmente al pubblico ungherese proprio in quel fatale 23 ottobre, non sarà inutile ricordare qui i passi che dovevano avere un'eco più profonda nei lettori ungheresi. Gomulka diceva, e gli unghe­resi leggevano e assentivano:

«Nella situazione che si è sviluppata dopo il xx Congres­so, quando sarebbe stato necessario agire rapidamente e con decisione, tirare le conclusioni dell'esperienza passata, rivolgersi alle masse con piena franchezza e dir loro tutta la verità sulla situazione economica, sulle cause e le origini delle distorsioni nella vita politica - il gruppo dirigente del partito non seppe elaborare rapidamente una linea d'azio­ne concreta».

Gomulka affermava che «la più larga democrazia per la classe operaia e le masse lavoratrici» era «l'essenza della dittatura del proletariato», e che dove queste veniva a mancare «il burocratismo, la rottura dell'impero della legge, e la violenza» si manifestavano necessariamente. Al centro della nuova linea egli poneva «la democratizzazione di tutta la nostra vita, e lo stabilimento di nuovi fraterni rap­porti di partito e di Stato con il nostro grande vicino - il PCUS e l'Unione Sovietica». Ciascun problema era posto, nel discorso di Go­mulka, nel quadro delle trasformazioni necessarie per rafforzare il socialismo:

«La via della democratizzazione è la sola che conduce all'elaborazione della migliore struttura socialista nelle no­stre condizioni. Noi non ci allontaneremo da questa via, e lotteremo con tutte le nostre forze contro ogni tentativo di farci deviare da essa. Neppure sarà concesso ad alcuno di approfittare del processo di democratizzazione per mi­nare le basi del socialismo» .

E ancora:

«Il partito, e tutti coloro che hanno visto i mali del passato e desiderano sinceramente cancellare tutte le tracce di quei mali nella nostra vita attuale, per consolidare le fondamenta del nostro sistema, dovranno opporre una decisa ripulsa a tutte le insinuazioni e a tutte le voci che mirano a indebolire la nostra amicizia con l'Unione Sovietica».

Il rapporto di Gomulka si chiudeva con un am­monimento sui gravi pericoli che minacciavano gli sforzi di vero rinnovamento. Pertanto, chiedeva Go­mulka,

«avendo accettato il principio della libertà di critica in tutte le forme, compresa la critica sulla stampa, abbiamo il di­ritto di chiedere che ogni critica sia creativa e giusta, con­tribuisca a superare le difficoltà del momento attuale, e non ad accrescerle, e non affronti in modo demagogico - come qualche volta avviene - singoli problemi e fenomeni».

E parlando direttamente ai giovani - su questo foglio apparso a Budapest il 23 ottobre, ai giovani d'Ungheria - Gomulka concludeva:

«Ai giovani si possono sempre perdonare molte cose. Ma la vita non perdona nessuno, neppure la gioventù, per degli atti sconsiderati. Noi possiamo soltanto rallegrarci dell'ardo­re dei nostri giovani compagni, perché è a loro che toccherà di prendere i nostri posti alla testa del partito e dello Stato : ma è pienamente giusto chieder loro di unire il proprio en­tusiasmo e il proprio ardore alla saggezza del partito».

A Budapest, purtroppo, l'ardore non trovava tem­peramenti; la saggezza di alcuni che ancora erano alla direzione del partito non era grande; e vi furono, fin dai primi momenti delle dimostrazioni del 23 ottobre, altri elementi in gioco, che non avevano nulla a che fare con l'ardore della gioventù o la saggezza dei militanti o il rafforzamento del socia­lismo. E purtroppo, anche, una direzione dura, dot­trinaria, un'opposizione senza riguardi e le divisioni di fazione avevano sconnesso il partito tanto profon­damente, che i nemici decisi del socialismo si videro offerta l'occasione più propizia per spezzare d'un colpo l'edificio della nuova Ungheria, annientan­done il partito marxista-leninista.


Gli studenti di Budapest avevano deciso una dimo­strazione di solidarietà coi polacchi: il punto di rac­colta era fissato alla sede dell'Unione degli scrittori, per le 2,30 del pomeriggio. Fino all'ultimo momento, l'indecisione all'interno della direzione del partito si riflesse anche qui, nel fatto che poco dopo mez­zogiorno la radio annunciò che il ministero dell'In­terno aveva proibito la dimostrazione, ma sospese la proibizione due ore più tardi.

All'ora fissata, studenti e altri giovani si riunirono di fronte alla Casa degli scrittori, portando scritte e cartelli. Le parole d'ordine dominanti suonavano: «Solidarietà con la gioventù polacca» e «Amicizia con l'Unione Sovietica su basi d'eguaglianza».

Verso le tre, i dimostranti si portarono al monu­mento del grande poeta e patriota ungherese, Sandor Petöfi; di qui, marciarono ancora attraverso la città fino alla statua del generale Bem, un eroe po­lacco che aveva aiutato gli ungheresi nei loro tenta­tivi rivoluzionari un secolo prima. A questo punto, essi raggiungevano la cifra di forse 50.000. Verso la fine del pomeriggio, intanto, la stazione radio di Budapest diffondeva il testo del comunicato sui col­loqui di Belgrado, di cui abbiamo già detto, e annun­ciava una prossima visita a Budapest dei capi ju­goslavi.

Poco dopo, mentre era caduta la sera, venne l'an­nuncio della direzione del partito che convocava per i prossimi giorni una seduta plenaria del comitato centrale, dedicata alla purificazione del partito e alla democratizzazione. Contemporaneamente la radio comunicava che alle 20 di quel giorno Erno Gerö, primo segretario del partito (che era appena rien­trato da Belgrado), avrebbe rivolto un indirizzo al paese.

Il discorso radiofonico di Gerö cominciò all'ora prevista: le sue parole erano diffuse da altoparlanti nelle strade di Budapest, affollate da 150 a 200 mila dimostranti, la maggior parte dei quali in uno spirito d'esaltazione e più o meno fiduciosi che un effettivo progresso sulla via dei mutamenti necessari fosse ormai alle soglie. Il discorso - particolarmente sulla bocca di Gerö, il personaggio più vicino a Rákosi fra tutti coloro che erano ancora in posizioni diri­genti - non fu affatto adeguato alle esigenze del momento, né in armonia con le speranze e le aspi­razioni delle decine di migliaia di persone riunite nelle vie. Non è vero, come si è spesso affermato, che Gerö abbia attaccato direttamente i dimostranti: rivolte alla nazione nel suo complesso, e lette in circa 20 minuti, le sue parole non si allontanarono fondamentalmente dalla linea generale del comitato centrale, che, come abbiamo visto, implicava chia­ramente una politica di serie innovazioni e di so­stanziali miglioramenti. Tuttavia, il discorso riflet­teva qualcosa della rigidità di cui Gerö, sembra, non sapeva spogliarsi: e se sarebbe andato bene a una riunione di partito sei mesi prima, o anche solo tre, fu senz'altro negativo nel momento in cui ci si rivolgeva a una nazione profondamente commossa e alle decine di migliaia di giovani sovreccitati rac­colti nelle strade di Budapest.

Dopo aver rivolto un saluto ai «cari compagni, amici, lavoratori d'Ungheria», Gerö proseguì nel modo più formale e rigidamente «corretto» :

«Il comitato centrale del partito dei lavoratori unghe­resi ha adottato nel luglio di quest'anno un'importante riso­luzione. I membri del partito, la classe operaia, i contadini lavoratori, gli intellettuali e tutto il popolo hanno accolto questa risoluzione con approvazione e con soddisfacimento».

Quindi egli riassunse, con ogni esattezza, le deci­sioni del luglio, e affermò:

«Siamo risolutamente e inalterabilmente decisi a svilup­pare, ampliare e approfondire la democrazia nel nostro pae­se, ad accrescere la partecipazione dei lavoratori alla dire­zione delle fabbriche, delle fattorie statali, e degli altri or­ganismi e istituti economici».

Gerö sottolineò che l'obiettivo era l'edificazione di una democrazia socialista, non di una democrazia borghese ; ricordò che «i nemici del nostro popolo» tentavano di distruggere la fiducia nel socialismo, nella capacità degli operai e dei contadini di guidare il paese, e si sforzavano di gettar fango sull'Unione Sovietica e staccare l'Ungheria dal campo socialista. Egli negò che vi fosse alcunché da correggere nei rapporti fra l'Ungheria e l'URSS, insistendo che essi erano stati ed erano istituiti «su basi di piena egua­glianza». Qui Gerö non solo si allontanava dalla verità, e ben più dagli animi dei suoi uditori: ma si discostava dalla stessa linea della risoluzione di luglio del comitato centrale, il quale aveva promesso di realizzare dei rapporti «di piena eguaglianza».

Gerö dichiarò che la costruzione del socialismo doveva avvenire tenendo conto «delle condizioni specifiche del nostro paese, della situazione econo­mica e sociale e delle tradizioni ungheresi» ; e ag­giunse che il partito era patriottico, ma non nazio­nalistico : il partito «conduce una lotta coerente contro lo sciovinismo, l'antisemitismo, e contro tutte le altre concezioni e tendenze reazionarie, antiso­ciali e disumane». Poi, in questo contesto, vennero le frasi più pericolose del discorso, in rapporto alle decine di migliaia di manifestanti che l'ascoltavano:

«Perciò, noi condanniamo coloro che cercano di diffon­dere il veleno dello sciovinismo nella nostra gioventù, e che si sono valsi delle libertà democratiche assicurate dal nostro Stato per compiere una manifestazione di carattere nazionalistico» .

Subito dopo egli aggiungeva bensì: «Anche que­sta manifestazione, tuttavia, non scuoterà la deci­sione della direzione del partito di proseguire sulla via dello sviluppo della democrazia socialista» - ma ciò, in realtà, non valeva che a sottolineare l'in­giustizia del suo giudizio, quasi che le migliaia e migliaia di manifestanti, nella loro grande maggio­ranza, e nelle loro intenzioni e fermi propositi, non fossero effettivamente scesi nelle strade per coadiu­vare e sostenere il processo di purificazione, e non già per frenarlo o deviarlo.

Verso la fine del suo discorso, Gerö sembrò sen­tire la gravità della posta in gioco, e disse:

«Bisogna riconoscere francamente che la questione, ora, è se vogliamo una democrazia borghese o una democrazia socialista. Vogliamo edificare il socialismo nel nostro paese, o interrompere l'edificio intrapreso, per poi aprire di nuo­vo le porte al capitalismo?» .

Gerö concluse il suo discorso con la parola d'or­dine: «Unità del partito per la democrazia socia­lista!». Ma se questa parola era ottima e giusta, essa aveva ora ben poco senso per le 200.000 persone ammassate nelle vie della capitale, che avevano sen­tito i loro sforzi denunciati come «una manifesta­zione di carattere nazionalistico». Tanto più in quanto quella caratterizzazione era in armonia col passato del suo autore assai meglio che le sue pro­messe, l'indirizzo di Gerö lasciava la folla aspra­mente insoddisfatta e turbata.

A questo punto - verso le 9 di sera - nuove e più oscure parole d'ordine cominciarono a diffon­dersi da gruppi in mezzo alla folla: e queste espres­sioni corrispondevano, per una piccola minoranza certamente presente fin dall'inizio, alla caratterizza­zione lanciata da Gerö. Apparvero segni di un'azione preordinata e disciplinata di provocazione e di di­sordine: ingiurie antisemite, false voci di sparatorie, scoppi di petardi. Poco dopo, alcuni drappelli si separarono dal corpo dei dimostranti, e, molto sicuri e con chiara idea su quello che c'era da fare, dove si doveva andare e come si distribuivano i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un secondo, alla sede del quotidiano Szabad Nep; un terzo, alla centrale telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un parco motoristico con 60 autocarri, a una centrale elettrica recentemente trasformata in una fabbrica d'armi, e a un deposito di munizioni.

Alla stazione radio si trovavano alcuni poliziotti e guardie armate, che però avevano l'ordine di non sparare se non per difendersi. Furono attaccati: gli assalitori ne uccisero alcuni e altri ne ferirono, le guardie risposero al fuoco, e dopo una schermaglia e qualche danno agli impianti, l'attacco alla sta­zione fu interrotto. Alla sede del giornale, una donna fu uccisa, il gruppo riuscì a impadronirsi del­l'edificio: distrusse una libreria che vi aveva sede e bruciò i libri, strappò e bruciò la bandiera rossa che sventolava sul tetto, e mantenne il controllo delle rotative per circa 16 ore. Nel frattempo, autisti chiaramente preparati e scelti in precedenza si erano impadroniti degli autocarri del deposito, ed essi servirono a caricare armi e munizioni tratte dalla fabbrica e dalla polveriera.

A queste azioni rapide e più o meno simultanee parteciparono forse un migliaio di persone o poco meno. Molti dei dimostranti, intanto, erano tornati alle loro case, e anche il Governo, a quanto sembra, fu informato con lentezza e non molto istantemente di quelli che sembravano attacchi sporadici e non connessi fra loro, compiuti da sparuti gruppi di poche persone.

Verso le 22,30 del 23 ottobre, il comitato centrale si riunì in seduta d'emergenza: confermò Gerö come primo segretario del partito, ma prese una decisione di grande portata offrendo la carica di Primo ministro, per la seconda volta, a Imre Nagy.

Contemporaneamente, i gruppi armati si raduna­vano, salvo quello asserragliato nel palazzo del gior­nale, e, nelle prime ore del 24 ottobre, si accingevano all'assalto di altri edifici pubblici. Soltanto verso le 8 del mattino il Consiglio dei ministri diede il primo annuncio dell'«attacco armato contro gli edifici pubblici e contro le nostre formazioni armate compiuto da elementi reazionari fascisti». Nel corso della mattinata, il Governo proclamò la legge mar­ziale. Finalmente, ancora il 24 ottobre, prese un terzo passo : annunciando che «gli organi del Go­verno non hanno fatto conto della possibilità di vili e sanguinosi attacchi», il Consiglio dei ministri fece appello «alle formazioni sovietiche di stanza in Ungheria» perché venissero al suo aiuto, in con­formità con le clausole del trattato di Varsavia.

Pur rispondendo affermativamente alla richiesta, le formazioni sovietiche, a quanto risulta, non in­trapresero azioni armate degne di nota fino al giorno successivo: anzi, nelle prime ore, dal 24 ottobre fin verso mezzogiorno del 25, si videro truppe sovietiche fraternizzare con le masse unghe­resi, che a lor volta non prendevano parte ad alcuna attività ostile. Mezzi di trasporto sovietici, fra cui dei carri armati, trasportarono perfino dei civili un­gheresi ai punti di raccolta cui essi affluivano per pacifiche dimostrazioni.

A mezzogiorno del 24 ottobre Nagy parlò alla radio e promise piena amnistia a coloro che aves­sero deposto le armi entro le 14; (il termine fu poi spostato alle 22). Ripetè che il programma del par­tito e del Governo era «la sistematica democratizza­zione del paese, in ogni campo della vita politica, economica, di partito e di Stato» ; promise «la rea­lizzazione di una via ungherese nella costruzione del socialismo, corrispondente alle nostre caratteri­stiche nazionali». «Elementi ostili, unitisi alle masse di giovani ungheresi che manifestavano pacifica­mente, hanno fuorviato le giuste intenzioni di molti lavoratori e si sono levati contro la democrazia popolare» - disse Nagy : e perorò pace e calma.

Dopo di lui parlò Kadar, pure mettendo in risalto che «la via di riforme decisive è aperta davanti a noi» : ciò che era immediatamente necessario, ora, era «liberare e ripulire questa via da ogni forza contro-rivoluzionaria». Forze di tal fatta persistevano deli­beratamente in attacchi terroristici di diversione contro la polizia, le forze di sicurezza, soldati del­l'Esercito e funzionari del partito e dello Stato: «i provocatori, insinuandosi a viso celato nella lotta, sono riusciti a trovare una copertura in persone che hanno perso l'orientamento nelle ore di caos, e particolarmente in molti giovani che non possiamo considerare come nemici consapevoli del nostro regime».

Ancora nella mattinata del 24 Zoltan Tildy, antico dirigente del partito dei piccoli proprietari e presi­dente della Repubblica dal 1946 al 1948, fece anch'egli un appello per la fine della lotta armata; nello stesso senso si pronunciò la direzione dell'As­sociazione unita degli studenti delle università e accademie ungheresi (MEFESZ), un'organizzazione recentemente formatasi in opposizione all'organiz­zazione giovanile di partito (DISZ.): anch'essa chiese fiducia e appoggio per il comitato centrale, «in uno spirito di rinnovato leninismo».

Dichiarazioni simili furono diffuse poco più tardi dall'Associazione nazionale delle donne ungheresi e dal Consiglio nazionale della pace. Gli studenti delle facoltà mediche, giuridiche e pedagogiche con­dannarono «tutte le provocazioni controrivoluzio­narie» e invocarono la fine dei disordini, perché lo Stato popolare potesse mettersi al lavoro «rinno­vato e purificato».

Nel tardo pomeriggio del 24, il Consiglio nazio­nale dei sindacati approvò un appello in cui si diceva che una dimostrazione «in gran parte ben inten­zionata» veniva «distorta in un movimento contro­rivoluzionario da elementi irresponasbili e da pro­vocatori», che erano riusciti a trascinare con sé «molti giovani privi di esperienza politica». L'ap­pello concludeva invocando ordine e calma, e fu ap­poggiato da una dichiarazione della direzione del circolo Petöfi. Lo stesso diceva un comunicato dif­fuso dall'Associazione nazionale dei giornalisti un­gheresi: a favore della democratizzazione, notando che essa era in via di piena attuazione: violenza e disordine servivano a spezzare il processo: solo «ele­menti irresponsabili e provocatori nemici», quindi, potevano persistere nel ricorso alla forza.

Verso sera, Arpad Szakasits rivolse per radio un appello a tutto il paese. Szakasits era stato segretario generale del partito socialdemocratico nel 1948, fino al momento della fusione coi comunisti; dal 1948 al 1950 fu presidente della Repubblica.

Gli errori del passato erano in via di supera­mento, ripetè Szakasits, e la via di uno sviluppo de­mocratico-socialista era aperta; ma proprio per questo

«è tanto più tormentoso che la dimostrazione pacifica, che doveva riflettere l'entusiasmo della gioventù e dei lavora­tori, sia stata utilizzata da antidemocratici irresponsabili che ancora sognano un ritorno al passato».


A tarda sera, finalmente, il presidente del sinodo dei vescovi cattolici ungheresi, Joszef Grosz, arci­vescovo di Kalocsa, parlò pure alla radio per dire:

«La posizione della Chiesa cattolica è chiara e aperta: noi condanniamo i massacri e le distruzioni. I membri del nostro gregge lo sanno. Pertanto, io spero sinceramente che i fedeli non prenderanno parte a questi atti, ma daranno l'esempio della conservazione della tranquillità e dell'ordi­ne, sforzandosi di assicurare il futuro dell'Ungheria con il lavoro pacifico».

Quel tanto di combattimenti che si svolse nella giornata del 24 fu sostenuto in massima parte da unità dell'Esercito ungherese, e al cader della notte il corpo essenziale dell'attacco armato organizzato sembrava spezzato. A questo punto, v'era ancora qualche coerenza e unità nel partito e negli organi del potere statale.

Il mattino del 25 il comitato centrale annunciò che Gerö era stato allontanato dalla carica di primo segretario del partito, e che Janos Kadar aveva ac­cettato di prendere il suo posto. Però, il seguito della mattinata vide nuovi attacchi contro unità della po­lizia e dell'Esercito, e attentati organizzati diretti all'eliminazione di dirigenti comunisti: si trattava essenzialmente di azioni ancora sporadiche, cui non partecipavano, a questo punto, larghe masse di per­sone. Il carattere disciplinato dei gruppi di attaccanti, invece, era manifesto; si osservò pure che essi erano ben equipaggiati con armi da fanteria, e che molti portavano dei bracciali d'identificazione tutti uguali fra loro, apparsi repentinamente per le vie della città, si direbbe, e ormai a centinaia.

Non molto più tardi Kadar parlò di nuovo al paese, per radio. Ripetè ancora che la dimostrazione del 23 ottobre aveva «scopi onesti» per quello che concerneva «la maggioranza dei partecipanti», ma che una piccola minoranza aveva lanciato «un at­tacco armato contro i poteri statali e la democrazia popolare, in accordo con le intenzioni di elementi antipopolari e controrivoluzionari».

Quindi, in un passo cruciale, il suo discorso faceva riferimento implicito al problema controverso e dif­ficile della richiesta di assistenza armata ai sovietici, fatta con quella che a molti sembrò irriflessa pre­cipitazione:

«In questa grave situazione una decisione doveva essere presa. In completa unanimità, la direzione del nostro par­tito decise che l'attacco armato contro i poteri della Re­pubblica popolare doveva essere respinto con tutti i mezzi possibili. Il potere dei lavoratori, della classe operaia e dei contadini, personificato nella Repubblica popolare, è sacro a noi tutti, così come deve esserlo a tutti coloro che non mirano a imporre di nuovo al nostro popolo il vecchio giogo del potere dei capitalisti, dei banchieri e dei grandi agrari».

Abbiamo sottolineato le parole «in completa una­nimità» perché, mentre è chiaro che Gerö, come primo segretario del partito in quel momento, ebbe la responsabilità prima della richiesta di intervento immediato fatta alle truppe sovietiche, Kadar affermava però pubblicamente, dopo l'allontanamento di Gerö, che la decisione fu approvata e votata all'una­nimità. Nonostante la smentita di Nagy, fatta una settimana più tardi, questa approvazione unanime deve aver compreso anche il suo voto, ed è un fatto che egli, parlando alla radio quella mattina del 25 subito dopo Kadar, non solo non negò, ma con­fermò esplicitamente le sue dichiarazioni, come vedremo fra poco.

Ricordiamo prima altri due passi importanti del discorso di Kadar del 25 ottobre, che sono estre­mamente significativi e indicano quali erano le in­tenzioni del partito in quel momento. Queste inten­zioni, a loro volta, rappresentano lo sviluppo logico dell'intero processo di rinnovamento che si era ini­ziato fin dal 1953 e rapidamente accelerato dall'ini­zio del 1956. Kadar disse:

«È ferma risoluzione della direzione del partito, dopo la restaurazione dell'ordine, da ottenersi il più presto possi­bile, di affrontare con franchezza e senza atteggiamenti di­latori tutte le gravi questioni, la soluzione delle quali non può più essere rimandata. Per risolvere senza ritardo questi problemi, intendiamo approfondire il carattere democratico della nostra vita statale, sociale e di partito, entro i limiti delle possibilità realisticamente considerate.
«Compagni, il comitato centrale del partito raccomanda che, dopo la restaurazione dell' ordine, vengano intavolate trattative col Governo sovietico, in uno spirito di completa uguaglianza fra l'Ungheria e l'Unione Sovietica, di fraterna collaborazione, e di internazionalismo, per una soluzione giusta ed equa per entrambe le parti dei problemi pendenti fra i nostri due paesi socialisti».


Subito dopo parlò il Primo ministro, Imre Nagy. Anch'egli dichiarò che «un numero ristretto di con­trorivoluzionari e di provocatori ha lanciato un at­tacco armato contro l'ordine della nostra Repubblica popolare», aggiungendo poi, ciò che era indubita­bilmente vero, che «una parte dei lavoratori di Bu­dapest, amareggiati per la situazione del paese, ha appoggiato il loro tentativo».

Nagy continuò dichiarando che questa amarezza sorgeva «dai gravi errori politici ed economici com­piuti in passato», e sottolineò che la nuova direzione del partito e del Governo era giunta al potere proprio perché aveva avuto un ruolo direttivo nella lotta con­tro quegli errori, ed era realmente decisa ad attuare senza indugio le più profonde correzioni. Ma era chiaro che «l'immediata cessazione del fuoco, la re­staurazione dell'ordine e della calma e la continua­zione della produzione senza interruzioni sono as­solutamente indispensabili perché questo program­ma possa venir realizzato».

Nagy ribadì sostanzialmente la promessa di Kadar per i negoziati con l'URSS, specificando che essi avrebbero compreso la questione «del ritiro delle truppe sovietiche stanziate in territorio ungherese». A questo proposito Nagy disse : «Il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento nei combattimenti si è reso necessario per salvaguardare gli interessi vitali del nostro ordine socialista[1], avverrà senza ri­tardo dopo il ristabilimento dell'ordine e della quiete».

Il discorso di Nagy mise l'accento sull'esigenza dell'«indipendenza nazionale»: però va notato che in questo appello del 25 ottobre, a differenza di altri che egli fece pochi giorni dopo, Nagy parlava an­cora del «progresso nazionale e [del] futuro socia­lista» dell'Ungheria.

Proprio mentre la radio diffondeva questi appelli, però, a Budapest riprendevano gli attacchi armati. Fu il giorno 25 che bande di armati incendiarono il Museo nazionale, appiccando il fuoco contempora­neamente in una dozzina di punti diversi: lavora­tori, semplici cittadini e alcuni pompieri cercarono di arrestare la distruzione delle opere d'arte inesti­mabili e dei documenti storici contenuti nel Museo nazionale: furono accolti dalle pallottole sparate dai tetti delle case vicine e da altri rifugi. Alla fine, le fiamme dominarono incontrastate e il superbo edi­ficio, ricostruito nel 1945, fu ridotto ancora una volta a uno scheletro di rovine.

Sempre il 25, nei villaggi fuori Budapest e nelle campagne, gruppi di armati da venti a cinquanta uomini, montati su veicoli e senza pretese o parole d'ordine di purificazione del socialismo o di qualun­que altro genere, cominciarono a darsi alla caccia all'uomo. Questo era semplice terrorismo fascista, e nello spazio di poche ore, prima della fine della giornata, in circa quindici piccoli centri dei dintorni le bande procedettero sistematicamente al massacro di tutti i comunisti noti, presidenti dei Consigli lo­cali, guardie di polizia e dirigenti di cooperative e collettivi. In questo momento, e ancora per diversi giorni, le truppe sovietiche confinarono il loro inter­vento soltanto entro Budapest, ciò che spiega i massacri diffusi che avvennero fuori della città.

Nel disordine generale la notizia di buona parte di questi atti filtrava fino al Governo, in città, solo frammentariamente. L'incendio del Museo, però, era noto. Verso la metà del pomeriggio la radio diffuse un nuovo appello, pronunciato da Gabor Tanczos, di recente eletto segretario del circolo Petöfi, un'or­ganizzazione che era stata all'avanguardia della lotta per la democratizzazione, il quale aveva condotto anche personalmente un'azione intensissima per il rinnovamento - invero, fino al punto dell'avventa­tezza. «Apprezziamo altamente - cominciò Tanczos rivolto al paese - l'entusiasmo mostrato in questi ultimi giorni. Rispettiamo questo vero pa­triottismo». Ma

«Siamo profondamente convinti che nulla vi è di comune fra questo, e certi elementi insensati che stanno dimostran­do la loro ferocia. Sappiamo che gli errori commessi sotto la cattiva guida dell'ormai allontanato Erno Gerö hanno riempito molti animi d'amarezza, e hanno condotto a com­piere atti che non erano originariamente nelle intenzioni dei loro autori».

Ora, disse Tanczos, il processo di rinnovamento aveva partita vinta, «la nostra direzione politica è buona», e dobbiamo procedere a «edificare un'Un­gheria veramente democratica, socialista nella par­ticolare forma ungherese e pari nei diritti con tutte le altre nazioni». Ma com'era possibile questo «fin­ché tuonano le armi?».

Chiaramente, non era possibile. E proprio per questo gli elementi antidemocratici e antisocialisti, che avevano le loro in mano e i cui scopi, per quanto foschi, erano ben chiari, continuarono a far intendere il tuono delle armi.

In quello stesso pomeriggio, migliaia di budapestini si misero in movimento verso la piazza anti­stante il palazzo del Parlamento. L'obiettivo essen­ziale dei dimostranti, a quel che sembra, era di appoggiare gli appelli di pace che venivano ormai da tutte le parti dove esisteva ancora responsabilità e buona volontà - da un arcivescovo della Chiesa cattolica fino al primo segretario del partito. Molti dei manifestanti viaggiarono verso la piazza issati su carri armati sovietici, e regnava ancora un'atmo­sfera di fraternizzazione fra la massa degli unghe­resi e le truppe sovietiche.

Ma sulla piazza del Parlamento, si ebbero degli spari in direzione delle forze sovietiche e di una parte della folla. E' possibile che elementi della poli­zia di sicurezza - nervosi, impauriti, o provocatori - abbiano aperto il fuoco per primi. Non è impro­babile che lo stesso tipo di elementi che avevano dato il fuoco a librerie e al Museo, e che nei din­torni della città si davano già allora all'assassinio sistematico, abbiano vista e colta l'occasione di pro­vocare nuovi scontri. Fino a quel momento, infatti, l'ordine sembrava realmente in via di ristabilirsi: da tutti i quartieri ci si era dichiarati per la pace; l'Armata Rossa non si era impegnata con forze in qualche modo consistenti, e, sotto gli occhi di tutti, la dimostrazione dava una prova vivente di rispetto fraterno fra sovietici e ungheresi; Gerö se n'era andato e la direzione del partito e del Go­verno appariva completamente rinnovata.

Chi propriamente sparò per primo non si riesce a stabilire con chiarezza, e probabilmente non si saprà mai. (Ancor oggi non c'è unanimità fra gli storici su chi abbia sparato per primo «il colpo udito intorno al mondo», nel Massachusetts, in un giorno fatale dell'aprile 1775). E' perfettamente chiaro, però, che solo le forze avverse alla democra­tizzazione e al socialismo potevano desiderare in quel momento una continuazione degli scontri ar­mati: ed è fuor di dubbio che la sparatoria del 25 ottobre sulla piazza del Parlamento andò a vantag­gio di queste forze.

Di certo vi è che dei colpi furono sparati, e che i carri sovietici presero parte alla sparatoria; è certo anche che molti dimostranti rimasero uccisi. La cifra dei morti e dei feriti è difficile, se non im­possibile, da stabilire con qualche attendibilità. Gli elementi che favorivano la reazione diedero corso immediatamente a voci di «centinaia» di morti, che salirono man mano fino alla cifra di 600 per­sone uccise. Questa esagerazione finale è riportata, com'è ben naturale, nella storia sensazionale e priva di qualsiasi affidamento di James A. Michener, The Bridge at Andau. Ma John McCormac, corrispon­dente da Vienna del New York Times, e che fu a Budapest in ottobre e novembre, dichiara di esser stato presente alla scena della tragedia e di aver «contato meno di cinquanta persone» cadute sulla piazza [2].

Vi era però, diffusa nel pubblico per motivi che abbiamo cercato di chiarire, una facile disposizione ad accettare le voci più orribili, specialmente intorno ai russi: e su scala mondiale, l'apparato commer­ciale della stampa e della radio fece del suo meglio per inventare e ingigantire le storie di «atrocità». Oltre a questa sui 600 morti della piazza del Parla­mento, un'altra tenace menzogna, propalata e ripe­tuta dovunque come per magia (ma le pagine che abbiamo dedicato alla CIA possono servire a identi­ficare il mago), fu quella che i «selvaggi» russi ave­vano massacrato, prima cento, poi duecento, e final­mente trecento neonati e bambini in una clinica di Budapest. Si videro anche le fotografie, coi loro bravi lettini vuoti, e la storia circolò da ogni parte. Solo il 13 novembre - quando l'ordine era ormai tornato e la favola non si poteva più sostenere - il New York Times pubblicò un dispaccio congiunto della Reuter, Associated Press e United Press, tra­smesso dai corrispondenti da Budapest delle tre agenzie di notizie, in cui si stabiliva che nessuno dei 300 bambini era stato ucciso, in effetti, che «nessuno dei 300 o più bambini [ della clinica ] ha sofferto offesa».

Alle 6 di sera del 25 ottobre il Governo proclamò un coprifuoco di 12 ore, e ordinò che tutte le entrate delle case fossero sprangate per lo stesso periodo di tempo. Poco dopo, la radio di Budapest trasmise le parole di Gyula Hay, scrittore ben noto e univer­salmente rispettato, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella lotta contro la dittatura personale e gli atti di repressione. Hay disse:

«Io sono stato con voi e ho marciato al vostro braccio nelle strade di Budapest... Con voi ho combattuto per anni per una letteratura nuova e giovane, per l'onore della gio­ventù, per la verità e per il popolo. Io vi conosco tutti, e so che siete patrioti onesti, che ogni vostro respiro è sin­cero. Se fosse necessario io mi presenterei di fronte a qua­lunque tribunale al mondo per dichiarare: questi giovani non sono criminali, non meritano punizione».

Ma, continuava Hay, una simile testimonianza non sarebbe stata necessaria, perché «i nostri desi­deri sono i desideri degli uomini che ora ci diri­gono, ed è per aver combattuto per le stesse cose che Kadar fu gettato in prigione». Ora egli ne è uscito: la sua causa è riconosciuta, lui stesso è pri­mo segretario del partito. Perciò, continuare ora l'azione violenta può significare soltanto combattere per il vecchio ordine, per il mondo bestiale dei giorni di Horthy. Per questo

«dobbiamo tornare immediatamente ai mezzi pacifici: oc­corre por fine subito ai combattimenti. In questo momento, bisognerà anzi evitare le stesse dimostrazioni pacifiche, per­ché potrebbero essere male interpretate».

All'alba del 26 ottobre, a Budapest, si era ristabi­lita di nuovo una qualche misura di ordine e di calma. Alle 6, il Governo annunciò per radio che, di conseguenza, la popolazione avrebbe potuto uscire per gli acquisti e le altre necessità dalle 10 alle 15; ai lavoratori delle industrie dei commesti­bili e dei trasporti veniva assicurato che potevano riprendere la loro attività senza pericolo. I diret­tori delle aziende ebbero istruzione di provvedere a che tutti i dipendenti «ricevano i salari loro dovuti o acconti sufficienti».

Il giornale del partito, Szabad Nep, riapparve re­golarmente in mattinata, con un editoriale dedicato a spiegare che «L'Ordine e la Calma Sono Neces­sari». Esso dichiarava che senza gli errori e i cri­mini del passato «le forze controrivoluzionarie vere e proprie» non avrebbero mai potuto ottenere il successo di quei giorni: però, l'intero sforzo di rin­novamento era ora coronato dal nuovo Governo Nagy-Kadar. Sottolineando che tutti e tre i massimi segretari del partito, Kadar, Ferenc Donath e Gyula Kallai, erano stati alla testa della lotta per il rinno­vamento e avevano sofferto la prigione per questo motivo, il giornale concludeva che «coloro che vo­gliono rivolgere il popolo contro questi dirigenti, e diffondere la sfiducia nei loro confronti, fanno l'in­teresse di tutti fuorché del popolo».

Intanto però, fuori della capitale e soprattutto nell'occidente del paese - dove il confine con l'Au­stria era stato aperto fin dal mese di luglio [3], e dove, come vedremo, ogni sorta di strani personaggi entrava nel paese, a migliaia - continuavano le azioni di guerra contro la polizia e le formazioni militari ungheresi. L'Armata Rossa sembrava aver l'ordine di prender parte solo a misure di difesa del Governo nella città di Budapest, e non intervenne in questi combattimenti grandi e piccoli. Alla sera del 26 ottobre, gli insorti avevano il controllo della fron­tiera con l'Austria e di una dozzina di capoluoghi di distretto nella parte occidentale dell'Ungheria.

Nel tardo pomeriggio del 26 le sparatorie ripre­sero anche a Budapest, e a partire da quel momento gli assassinii di singoli comunisti diventarono fre­quenti anche in città. In effetti, i funzionari comu­nisti e i membri del Governo non tornarono alle loro case, a partire da quella sera, per timore di essere assassinati. La grande maggioranza del basso popolo di Budapest non prese parte ai combatti­menti in nessuna delle loro fasi, e comunque non dopo il 26 ottobre. Ma gli operai, in generale, adot­tarono una posizione di apatia, di passività o di neutralità: amareggiate e disgustate dagli errori e dalle politiche ingiuste del passato, e pur non desi­derando il successo della reazione e auspicando un socialismo rinnovato, ma senza fiducia nel partito (esso stesso ormai molto incerto e lacerato da lotte intestine), le masse operaie adottarono un atteggia­mento di astensione, che di fatto diede mano libera a terroristi, reazionari e fascisti.

Questo non vuol dire che allora, e anche più tardi, onesti operai e studenti non abbiano com­battuto dalla stessa parte di elementi male intenzio­nati, reazionari e fascisti. E' fuori questione che questo avvenne: e in ciò si riflette l'essenza più amara del fallimento politico del Governo Rákosi. Ma questo fatto non vale a determinare la natura della lotta più di quello che i milioni di persone accorse volontarie e combattenti nella prima guerra mondiale - da entrambe le parti - per i motivi più puri e più nobili, non alterino la natura di quella guerra, che null'altro fu se non un massacro imperialistico. Così durante la guerra civile americana, molte centinaia di migliaia di soldati del­l'Esercito confederato combatterono, individualmente, per le intenzioni più elevate - per difendere le loro case, per salvare il Sud da quelli che essi credevano demoni Yankee in cerca «di bottino e di grazia» : ma questo non muta in nessun modo il fatto che l'Esercito confederato fu creato dall'oligarchia schia­vista per mantenere e diffondere l'istituto della schiavitù umana e non per proteggere i focolari dell'Alabama da rapaci demoni Yankee.

Venendo più vicino ai nostri giorni: credere che fra i milioni di illusi e appassionati seguaci di Hitler non vi fossero migliaia e migliaia di operai - e operai tedeschi, di grande tradizione politica e con generazioni di lotta di classe dietro le spalle - significa soltanto chiudere gli occhi alla realtà e non comprendere la sostanza dei motivi per cui il partito di Hitler si chiamò partito nazional-socialista. Credere che fra i cinque milioni di membri che il Ku Klux Klan contò negli Stati Uniti fra il '20 e il '30 non vi fossero decine di migliaia di operai ingannati e avvelenati di sciovinismo, vuol dire ignorare la storia di quel movimento oppure, ancora una volta, chiudere gli occhi di fronte a fatti amari.

In Ungheria, essendo il paese quello che realmente è; avendo le masse ungheresi, compresa la classe operaia, la storia e i particolari caratteri derivati dal loro sviluppo, che realmente avevano, e provocate come furono dalle deviazioni del partito per interi anni - esse poterono partecipare, in certa misura, a uno sforzo che mirava in realtà alla reazione estrema, anche se l'intenzione degli elementi popo­lari che lo seguirono non era la distruzione del socialismo, ma il suo rinnovamento.

Vedremo più avanti come le forze interne e inter­nazionali della reazione erano decise a impedire, nei limiti del possibile, il ritorno della pace e del­l'ordine in Ungheria - almeno fino al punto in cui non si sarebbe trattato della «pace» e dell'«or­dine» di un Governo del tipo di Horthy.

Intanto, mentre ottobre si avviava alla fine, la crisi del Medio oriente giungeva al limite di rot­tura: e anche questo va ricordato a questo punto. Il 28 ottobre il Governo israeliano - con l'aiuto diretto della Francia e dell'Inghilterra - lanciò il suo attacco diversionistico sulla penisola del Sinai. Contemporaneamente, per alcuni giorni, la stampa in tutto il mondo riferiva della mobilitazione di forze francesi e inglesi in patria, a Cipro e in Cor­sica per l'attacco all'Egitto. Il 30 ottobre un massic­cio attacco aeronavale contro i maggiori centri abi­tati dell'Egitto fu realizzato da forze anglofrancesi combinate. Che cosa ne sarebbe seguito, in quel momento, e quale sarebbe stato l'atteggiamento degli Stati Uniti dopo le elezioni allora imminenti, nessuno era in grado di prevedere con certezza: per alcuni giorni d'angoscia la pace del mondo rimase in equilibrio sull'orlo della catastrofe.

E' nel quadro di quei giorni che occorre ora va­lutare la posizione dell'URSS. Sotto la pressione di quelle circostanze, l'Unione Sovietica - e così pure la direzione del partito ungherese - doveva consi­derare l'attacco in Ungheria, condotto chiaramente con la partecipazione di forze controrivoluzionarie esterne (ciò che dimostreremo a suo luogo), o come parte di un tentativo, che forse doveva svilupparsi anche in altri punti, di scatenare una guerra gene­rale; o come elemento di un'azione di diversione mirante a immobilizzare l'opposizione sovietica al­l'aperta aggressione imperialistica anglofrancese. Nell'uno e nell'altro caso, qualunque fosse la con­nessione fra la crisi ungherese e la guerra egiziana, la corrispondenza nel tempo dei due eventi doveva apparire - e appare tuttora - come altra cosa che semplice coincidenza: è certo che i due eventi dove­vano esser considerati in rapporto fra loro da coloro che avevano la responsabilità della sicurezza dell'URSS.

L'azione vigorosa e coronata da successo con cui l'Unione Sovietica guidò lo sforzo per contenere l'aggressione all'Egitto e determinarne poi la sospen­sione relativamente immediata è un fatto, né dubi­tabile, né seriamente messo in dubbio. La politica seguita dai sovietici di fronte agli avvenimenti un­gheresi va esaminata alla luce di questa crisi più vasta.

In quel momento, negli ultimi giorni d'ottobre, e dal punto di vista della reazione, la violenza so­prattutto non doveva interrompersi in Ungheria; e il tentativo, non di rinnovare, ma di distruggere lo Stato democratico popolare e la sua base socialista doveva essere portato avanti fino al successo. Nel­l'Ungheria occidentale, apparvero dei «Governi» ribelli, che mandavano rinforzi verso est per tenere la situazione in ebollizione a Budapest ed esercitare sul Governo Nagy una pressione da destra sempre più forte.

Governo e partito facevano ancora fronte all'at­tacco essenzialmente ribadendo la loro nuova poli­tica e i loro propositi, mentre l'Armata Rossa, nella capitale, aveva il compito di impedire la loro distru­zione fisica. Il 26 ottobre, il comitato centrale dif­fuse una dichiarazione che, facendo di nuovo appello all'ordine, prometteva «l'elezione di un nuovo Go­verno nazionale» impegnato anticipatamente a ret­tificare gli errori del passato e a dedicarsi «all'edi­ficazione di un libero paese di prosperità, indipen­denza e democrazia socialista».

Il Governo avrebbe avuto «la più larga base na­zionale», e avrebbe trattato immediatamente con l'Unione Sovietica «per stabilire i rapporti fra i due paesi sulla base dell'indipendenza, della piena eguaglianza, e del non-intervento negli affari interni dell'altro». Ciò corrispondeva agli interessi di en­trambi i paesi, e avrebbe rafforzato l'amicizia sovietico-ungherese : «è su questa base che i rapporti fra la Polonia e l'Unione Sovietica vengono ora rin­novati».

La realizzazione dei consigli operai nelle fabbri­che, già proposta e parzialmente realizzata, sarebbe stata continuata e ampliata; si sarebbe fatto ogni sforzo per far fronte ai bisogni materiali e alle esi­genze dei lavoratori.

Infine, veniva assicurata l'immunità a tutti, pur­ché l'uso della forza avesse termine entro le 10 della sera. Il comitato centrale riaffermava «la sua adesione ai principi della democrazia socialista» e «la ferma risoluzione di difendere le conquiste della democrazia popolare» : «sulla questione del socialismo non [si sarebbe] mosso di un passo».

Il giorno successivo, 27 ottobre, trascorse in rela­tiva calma per quello che riguardava Budapest. Il presidio del Consiglio nazionale dei sindacati an­nunciò l'inizio dell'elezione dei consigli operai nelle fabbriche, da condursi nelle forme che i lavoratori stessi avrebbero scelto. I poteri dei consigli operai si sarebbero estesi alla struttura del salario e alle «que­stioni della produzione, dell'amministrazione e della direzione dell'impresa»: la direzione e pianifica­zione regionale e nazionale, invece, doveva restare funzione degli organi centrali di Governo.

Nello stesso giorno fu annunciata una riorganiz­zazione del Governo: il Gabinetto consisteva ormai interamente di comunisti anti-Rákosisti e di diversi capi di altri partiti. Primo ministro restando Imre Nagy, gli si affiancavano tre vice-Primi ministri, dei quali uno, Antal Apro, era un comunista, uno, Joszef Bognar, del partito dei piccoli proprietari, e uno, Ferenc Erdei, del partito nazionale contadino. Dei ministri, quattro erano antichi dirigenti del partito dei piccoli proprietari, e avevano i portafogli del Commercio estero, dell'Agricoltura, delle Azien­de agricole di Stato, e degli Esteri. Due professori universitari di rinomanza internazionale nel loro campo, ed entrambi comunisti che avevano lottato contro il burocratismo, ebbero l'incarico della Sa­nità pubblica (prof. Antal Babits) e della Cultura (prof. Gyorgy Lukacs).

A questo momento, alla fine del 27 ottobre, sembrava esservi buona ragione di considerare passato il peggio, e che potesse finalmente cominciare il lavoro di ricostruzione e di progresso pacifico. Per­ciò il Governo emanava l'ordine di «immediata e generale cessazione del fuoco, con istruzione alle Forze armate di sparare soltanto se sono attaccate». Quest'ordine fu accolto ed eseguito come valido per le forze sovietiche insieme a quelle ungheresi.

Nello stesso tempo, il Primo ministro Imre Nagy, in un nuovo discorso alla radio, negò che il movi­mento allora in corso, nel suo complesso, fosse da considerare come una controrivoluzione: dichiarò di vedervi piuttosto «un movimento nazionale e de­mocratico», e annunciò ancora una volta che gli scopi del nuovo Governo erano «l'unità democra­tica della nazione, l'indipendenza, e il socialismo». E' vero, disse Nagy, che

«come sempre accade nei momenti di grande movimento popolare, anche in questo caso elementi criminali si insi­nuarono nel movimento per comprometterlo e per commet­tere comuni atti delittuosi. È un fatto, altresì, che nel mo­vimento si sono infiltrati anche elementi controrivoluzio­nari, con lo scopo di rovesciare il regime democratico po­polare».

Il discorso di Nagy alla radio ribadiva quindi una volta di più il programma di massima cura per i bisogni materiali della popolazione e per le esigenze della sensibilità nazionale. Egli ricordò l'ordine di cessazione del fuoco e annunciò che un accordo era stato raggiunto con l'URSS per il rapido ritiro delle truppe sovietiche da Budapest: sarebbero con­tinuate le trattative per l'evacuazione completa delle truppe sovietiche in Ungheria, nel quadro generale della realizzazione «dell'eguaglianza reciproca e dell'indipendenza nazionale dei paesi socialisti». Nagy concluse il suo discorso affermando che gli ultimi dodici anni, sebbene contenessero errori e peggio, «racchiudono nondimeno conquiste dure­voli, irreversibili, storiche» sulla base delle quali «la nostra democrazia popolare, rinata a nuova vita» poteva ora avanzare speditamente, non più impedita dalla tirannia, dalle illegalità e dalle in­giuste condanne.

Ancora il 27 ottobre, un comunicato del comitato centrale dava notizia di una riunione tenuta la mat­tina, in cui le dichiarazioni fatte da Nagy al paese erano state approvate; quindi il comitato centrale, in vista della situazione eccezionale, aveva deciso di trasferire il mandato ricevuto dal congresso del 1954 a un comitato di sei membri, presieduto da Kadar, e composto inoltre da Antal Apro, Karoly Kiss, Ferenc Munnich, Imre Nagy e Zoltan Szanto.

Il giorno dopo, 28 ottobre, fu pubblicato l'appello del comitato centrale del partito operaio unificato polacco, redatto il giorno stesso e firmato da Go­mulka e dal Primo ministro Cyrankiewicz, perché fosse posto fine allo spargimento di sangue in Un­gheria. I polacchi invocavano la difesa «dell'unità del campo socialista», proclamavano: «Noi e voi siamo dalla stessa parte, la parte della libertà e del socialismo», e avanzavano l'opinione che

«soltanto coloro che vogliono trascinare indietro l'Unghe­ria dalla via del socialismo, a nostro giudizio, possono respingere il programma del Governo ungherese di unità na­zionale» [4].

Contemporaneamente giunse un messaggio di Tito alla direzione del partito dei lavoratori unghe­resi, le cui tesi erano essenzialmente le stesse di quelle espresse dai polacchi. Vi era ormai la «prova - dichiarava Tito - che la linea dell'attuale dire­zione politica e di Stato si identifica con le ge­nuine aspirazioni socialiste della classe lavoratrice ungherese». Di conseguenza:

«Ogni ulteriore spargimento di sangue andrebbe solo a danno degli interessi dei lavoratori ungheresi e del socia­lismo, e potrebbe servire unicamente gli scopi della reazione e della deformazione burocratica».

Il presidente jugoslavo esprimeva quindi la spe­ranza che si ponesse fine a questo spargimento di sangue, per evitare «conseguenze di gravità impre­vedibile, non solo per l'Ungheria, ma per lo svi­luppo della situazione internazionale».

Ma le forze che per prime avevano fatto uso della violenza, e che persistevano nel servirsene, erano ben lontane dall'accontentarsi degli sviluppi fin qui ottenuti. Esse non mostrarono alcuna intenzione di fermarsi a questo punto; e di giorno in giorno, rinforzi e sostegni per la loro azione affluivano in Ungheria attraverso la frontiera austriaca. Dalle zone insorte dell'Ungheria occidentale, e contempo­raneamente da Radio Europa libera, da altre tra­smittenti in Spagna, in Italia e in Germania occi­dentale, e ultimamente anche nell'interno dell'Un­gheria stessa, venivano lanciate richieste sempre nuove, che riflettevano un ininterrotto spostamento verso la destra. Il 28 ottobre cominciò a essere avan­zata la domanda della denuncia immediata e uni­laterale del patto di Varsavia da parte dell'Ungheria, dell'immediata neutralizzazione dell'Ungheria, il cui status avrebbe dovuto essere garantito da un accordo delle quattro grandi Potenze, in cui le Potenze capi­taliste avrebbero messo in minoranza l'Unione So­vietica per 3 a 1, e finalmente di mutamenti econo­mici nel senso di una marcia indietro della socia­lizzazione. Di più, a partire dallo stesso giorno co­minciarono a venir diffusi messaggi radio in russo e migliaia di manifestini pure stampati in russo, incitanti le truppe sovietiche a disertare, ad ammu­tinarsi, ad unirsi agli insorti in una santa crociata contro l'Armata Rossa.

Pure, la direzione del partito ungherese, parte del Governo, e i dirigenti responsabili della politica sovietica in Ungheria continuavano nella fiducia che la spinta controrivoluzionaria fosse contenuta, che una stabilizzazione fosse possibile, e, ancora al ter­mine della giornata del 28, che il peggio fosse ormai passato.

Il 29 ottobre il nuovo ministro dell'Interno an­nunciò la riorganizzazione delle forze di polizia; contemporaneamente, il ministro della Difesa pro­clamava la sua confidenza che il programma del Governo, diffuso il giorno prima, godesse dell'ar­dente appoggio della grande maggioranza degli un­gheresi, e concludeva con un chiaro accento di sollievo e di vittoria: «Avanti insieme al popolo per un'Ungheria indipendente, democratica e so­cialista!».

Lo stesso giorno, fu annunciato che il ritiro delle truppe sovietiche sarebbe cominciato immediata­mente da vari quartieri di Budapest. In effetti, quella sera stessa «unità dell'Esercito ungherese - comunicò un messaggio del ministero della Difesa - cominciano a sostituire le truppe sovietiche nel­l'ottavo dipartimento di Budapest». Il ritiro delle forze sovietiche, cominciato all'alba del 29, doveva continuare per settori, con l'obiettivo - se le truppe sovietiche non fossero state disturbate - di com­pletare l'operazione in circa 24 ore.

Tuttavia, questo non arrestò il flusso delle richie­ste dirette contro la democrazia popolare e il socia­lismo, ma al contrario, sembrò piuttosto dar nuova baldanza alla destra. Chiaramente, lo spostamento verso destra continuava.

Il 30 ottobre, un proclama del Governo Nagy de­cretava la fine del sistema del partito unico, e annun­ciava il ritorno del Governo alla struttura di coali­zione del 1945. A questo fine veniva costituito un «Gabinetto ristretto all'interno del Governo nazio­nale». A far parte del Gabinetto erano chiamate sei persone: tre comunisti, Imre Nagy, Janos Kadar e Geza Losonczy; e tre non-comunisti: Bela Kovacs e Zoltan Tildy, del partito dei piccoli proprietari, e Ferenc Erdei del partito contadino. Nello stesso tempo, fu annunciato che un settimo membro sa­rebbe stato aggiunto il più presto possibile, come rappresentante del partito socialdemocratico: esso fu Anna Kethly, che entrò a far parte del Gabinetto ristretto il giorno successivo. Il gabinetto concentrava in sé i poteri essenziali di governo: a partire dal 31 ottobre, dunque, le posizioni decisive nel Governo di Budapest non erano più nelle mani dei comu­nisti, ma piuttosto di una coalizione la cui maggio­ranza consisteva di un eminente socialista di destra e di tre non-socialisti.

Il proclama di Nagy domandava «il ritiro im­mediato delle truppe sovietiche dal territorio di Bu­dapest, invocava la cessazione del fuoco da parte de­gli insorti in tutto il paese, e concludeva con un evviva all'Ungheria «libera, democratica e indipen­dente». Cosa significativa, a partire dal 30 ottobre l'attributo «socialista» scomparve dalle espressioni di Nagy riguardanti l'Ungheria: e come risulta dai documenti, da allora fino al 4 novembre i discorsi e i proclami di Nagy e degli altri personaggi di Go­verno non fecero più menzione del fondamento so­cialista dello Stato ungherese.

Tuttavia, è degno di nota che Kadar, il quale faceva parte del Governo, parlando dopo Nagy alla radio il 30 ottobre, si allineò con gli scopi e le tra­sformazioni annunciate da Nagy, in nome della pace. Come segretario del partito dei lavoratori un­gheresi, egli fece appello ai comunisti perché «si liberassero completamente» dell'eredità della «cattiva direzione degli anni precedenti», e lavorassero a ricostruire un partito purificato.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Zoltan Tildy, come membro del Gabinetto ristretto, avanzò la pro­posta che al cardinale Mindszenty fosse concesso di «ritornare alla sua sede episcopale di Esztergom, e riprendendo la sua attività come Primate d'Unghe­ria, contribuire... alla nobile lotta che vede nelle sue file, in questo momento storico, ogni vero patriota». Mindszenty, che era stato rilasciato dalla prigione nell'estate 1955 e viveva in una sorta di arresto a domicilio in un possedimento che gli era apparte­nuto come principe, fu effettivamente liberato da questa forma di detenzione durante la serata del 30 ottobre. L'impresa fu compiuta da un maggiore del­l'Esercito ungherese - figlio di un conte che aveva avuto un ruolo di primo piano nel terrore bianco del '19 e poi nel regime di Horthy - con un certo nu­mero di carri armati. Il cardinale arrivò direttamente a Budapest nella notte sul 31.

Nel frattempo, sempre il 30 ottobre, il Governo Eisenhower offri al nuovo Governo ungherese la somma di 20 milioni di dollari a titolo di concessione di aiuti. Questo fatto non fu noto al pubblico che il 9 gennaio 1957, quando apparve come una notiziola di poche righe in una delle pagine interne del New York Times: si può supporre, tuttavia, che la transazione sia stata a conoscenza del Governo so­vietico molto prima del mese di gennaio dopo la crisi ungherese.

Pure il 30 ottobre, il Governo dell'URSS pubblicò una dichiarazione sulle «Basi per lo sviluppo e l'ulteriore rafforzamento dell'amicizia e della coopera­zione fra l'Unione Sovietica e gli Stati socialisti». In questo documento, che ha una portata storica, il Governo dell'URSS dichiarava:

«Uniti dai comuni ideali dell'edificazione di una nuova società e dai principi dell'internazionalismo proletario, i paesi della grande comunità delle nazioni socialiste possono costruire i loro rapporti soltanto su principi di totale egua­glianza di rispetto per l'integrità territoriale, l'indipen­denza statale e la sovranità di ciascuno, e di reciproca non ingerenza negli affari interni».

Ma nello sforzo di realizzare questo tipo di rap­porti internazionali, mai tentati prima e senza pre­cedenti, si erano verificati degli errori:

«Nel processo di formazione del nuovo sistema e nelle profonde trasformazioni rivoluzionarie dei rapporti sociali sono emerse molte difficoltà, problemi insoluti e specifici errori, anche nel campo dei rapporti reciproci fra i paesi socialisti - deviazioni ed errori che hanno violato il prin­cipio dell'uguaglianza di diritti nei rapporti fra Stati so­cialisti».

Al xx congresso del PCUS questi errori e queste violazioni erano stati denunciati «con la massima decisione», e gli sforzi per eliminarli erano stati avviati ed erano ancora in corso. Pertanto, il Governo sovietico si dichiarava pronto a discutere «coi Go­verni di altri paesi socialisti» le forme del migliora­mento dei rapporti e dell'instaurazione di una mi­gliore eguaglianza nel campo delle relazioni eco­nomiche e militari.

La dichiarazione conteneva poi diversi passi di grande importanza che si riferivano direttamente alla questione ungherese; e ci sembra utile presen­tarli senz'altro e integralmente al lettore:

«Il Governo sovietico ritiene necessario dichiarare la sua posizione riguardo agli eventi d'Ungheria. Gli sviluppi della situazione hanno mostrato che i lavoratori ungheresi, che hanno realizzato grandi progressi sulla base del sistema democratico popolare, sollevano giustamente la questione della necessità di eliminare gravi deficienze nella sfera dello sviluppo economico, in modo da assicurare l'ulteriore mi­glioramento del benessere materiale della popolazione, non­ché la questione della lotta contro le distorsioni burocratiche dell'apparato governativo. A questo movimento giusto e progressivo del popolo lavoratore, tuttavia, si sono presto aggregate forze di reazione estrema e di controrivoluzione, che tentano di avvalersi dello scontento di una parte dei la­voratori per distruggere i fondamenti del sistema democra­tico popolare in Ungheria e per restaurarvi il vecchio re­gime dei proprietari fondiari e dei capitalisti».

La dichiarazione deplorava quindi che la crisi un­gherese avesse raggiunto il punto dello spargimento di sangue; rilevava che le unità militari sovietiche, su richiesta del Governo ungherese e in conformità agli impegni assunti col trattato di Varsavia, ave­vano aiutato «a restaurare l'ordine» nella città di Budapest. Quindi:

«Considerando che l'ulteriore permanenza delle unità militari sovietiche sul territorio ungherese può fornire il pre­testo per rendere la situazione ancor più tesa, il Governo sovietico ha dato istruzioni al comando militare di ritirare le forze sovietiche dalla città di Budapest non appena il Governo ungherese lo riterrà necessario. «Nello stesso tempo, il Governo sovietico è pronto a inta­volare adeguate trattative con il Governo della Repubblica popolare ungherese e con le altre parti contraenti del trattato di Varsavia sul problema delle forze sovietiche di stazione in Ungheria».

Mentre queste critiche implicite ed esplicite erano senza precedenti, per il loro carattere, in un docu­mento diplomatico emanato da una grande poten­za, gli ultimi due paragrafi della dichiarazione, su­bito dopo, riaffermavano inequivocabilmente l'im­pegno essenziale ed inviolabile di difendere il so­cialismo e sventare tutti gli sforzi della reazione per riconquistare il potere:

«La difesa delle conquiste socialiste dell'Ungheria de­mocratica popolare è oggi l'obbligo sacro e fondamentale degli operai, contadini e intellettuali, di tutto il popolo un­gherese. Il Governo sovietico confida che i popoli dei paesi socialisti non permetteranno alle forze della reazione in­terna e internazionale di spezzare le basi del sistema de­mocratico popolare, conquistate e rafforzate dalla lotta, dalla devozione e dal lavoro degli operai, contadini e intellettuali di ciascun paese. Non vi è dubbio che essi faranno del loro meglio, dopo il superamento di tutti gli ostacoli che si frappongono all'ulteriore rafforzamento delle basi demo­cratiche, dell'indipendenza e della sovranità dei loro paesi, per sviluppare ancora i fondamenti socialisti dei loro paesi, la loro economia e la loro cultura, al fine del continuo pro­gresso del benessere materiale e del livello di cultura di tutti i lavoratori; e che essi consolideranno l'unità fraterna e la reciproca assistenza fra i paesi socialisti, dando nuova forza alla grande causa della pace e del socialismo».

Esattamente a mezzanotte del 30 ottobre 1956 una stazione radio degli insorti in Ungheria trasmise - in lingua francese, rivolgendosi all'Europa - la notizia che il cardinale Mindszenty, appena liberato e mentre veniva trasportato al centro più vicino di Retsag, prima di proseguire per Budapest, aveva di­chiarato semplicemente: «Riprenderò l'opera dove la interruppi otto anni or sono». Rimandiamo il lettore alle pagine in cui si è trattato dell'argomento per quanto riguarda la posizione del cardinale nel 1948, e ciò che questo poteva significare [5].

Il 31 ottobre, la città di Budapest vera e propria era stata evacuata dalle truppe sovietiche. Nel corso della giornata fu dimesso dalla carica il presidente della Banca nazionale, allontanato il capo di stato maggiore dell'Esercito e licenziato il ministro della Difesa del Governo costituito quattro giorni prima. Nagy assunse direttamente il portafoglio degli Esteri. Il partito dei piccoli proprietari aperse la sua nuova sede centrale a Budapest, annunciò la formazione di un comitato esecutivo, e iniziò la pubblicazione di un quotidiano organo del comitato, Kis Ujsag. Contemporaneamente, il partito socialdemocratico fa­ceva lo stesso: il suo giornale prese il nome di Nepszava, presidente del partito venne proclamata Anna Kethly.

Poco prima dell'alba del 31 ottobre, il Comando nazionale ungherese della difesa aerea chiese l'im­mediato ritiro di tutte le forze sovietiche dal terri­torio ungherese: «in caso contrario, le forze del­l'Esercito popolare ungherese passeranno all'azione in appoggio a questa richiesta». Altre fonti unghe­resi, nello stesso momento, esprimevano la cosa più direttamente : «Si bombarderanno le truppe sovie­tiche».

Più avanti nella giornata il Primo ministro Nagy annunciò, completamente motu proprio, che il pro­cesso del 1949 contro il cardinale Mindszenty «man­cava di ogni base legale». Pertanto,

«il Governo nazionale ungherese dichiara che le misure con cui il cardinale Primate Joszef Mindszenty fu privato dei suoi diritti sono nulle e senza effetto, e che il cardinale può quindi esercitare, senza restrizione alcuna, tutte le sue prerogative civili ed ecclesiastiche» .

Ancora in quest'ultimo giorno di ottobre fu an­nunciata la ricostituzione del partito nazionale con­tadino, del partito dell'indipendenza, del partito de­mocratico del popolo; il primo novembre si ricosti­tuirono il partito cattolico del popolo e l'associazione cattolica nazionale. Ciascuno di questi movimenti ave­va antecedenti che risalivano al regime horthysta e ai raggruppamenti antigovernativi del periodo 1945-48. Sempre il 31 ottobre, venne l'annuncio che il Con­siglio nazionale dei sindacati ungheresi era sciolto, e che lo sostituiva una nuova organizzazione detta Federazione nazionale dei sindacati liberi ungheresi.

Poco dopo, il Primo ministro Imre Nagy parlò di nuovo al paese da radio Budapest, informando che avrebbe chiesto immediatamente il ritiro completo delle truppe sovietiche dall'Ungheria e la sospen­sione immediata e definitiva della partecipazione dell'Ungheria al patto di Varsavia. Egli dichiarò la sua adesione incondizionata agli sviluppi che si erano susseguiti negli ultimi giorni, e di nuovo, nella sua perorazione per un'Ungheria «libera, indipendente e democratica», l'idea del socialismo fu significativa­mente assente.

In realtà, come dimostreremo nelle prossime pa­gine, in quel momento - 31 ottobre - il terrore bianco, su larga scala e compresa anche l'appendice dei pogrom antisemiti, aveva già fatto la sua appari­zione tanto a Budapest che in molte zone della provincia, soprattutto nell'ovest. Continuiamo però, prima di tutto, il resoconto degli avvenimenti svol­tisi al più alto livello politico e delle dichiarazioni più o meno ufficiali, quali si ricavano da fonti auto­revoli e di indubbia autenticità.

John McCormac, nel dispaccio trasmesso quel giorno da Budapest [6], dichiarava: «Ora che i russi hanno lasciato Budapest, nessuno sembra sapere chi comanda in Ungheria». Il 1° novembre l'organo dei partito socialdemocratico Kis Ujsag uscì con un arti­colo della stessa Anna Kethly che ammoniva contro i pericoli di controrivoluzione: essi «minacciano la sostanza ideologica e gli scopi della rivoluzione» - scriveva Anna Kethly, e si deve intendere, gli scopi quali li intendeva quest'eminente socialista di destra ungherese. Perfino la cosiddetta «Radio Kossuth libera», organo principale di una frazione delle forze insorte, dichiarava il 1° novembre che «l'autentica causa della rivoluzione è in pericolo. Sono riusciti a impadronirsi di armi, elementi il cui obiettivo non è la causa sacra della rivoluzione ma il bottino e il saccheggio».

Sempre il 1° novembre, Nagy tornò ancora una volta ai microfoni della radio per annunciare nuovi «progressi». All'ambasciatore sovietico a Budapest era stato comunicato da Nagy stesso che l'Ungheria denunciava senz'altro e seduta stante il trattato di Varsavia. Il Governo aveva proclamato ufficialmente la neutralità dell'Ungheria, e chiesto al segretario generale delle Nazioni Unite di mettere all'ordine del giorno «la questione ungherese» e lo status neutrale del paese; pure attraverso il segretario dell'ONU, Nagy aveva chiesto ufficialmente che la neu­tralità ungherese venisse garantita da un accordo fra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e l'Unione Sovietica [7].

Anche questo discorso di Nagy si chiuse con un saluto all'Ungheria «libera, democratica, indipen­dente e neutrale». L'ultimo attributo era un'ag­giunta. Nessun cenno di «socialista».

Allo scivolamento verso destra soccorreva intanto la progressiva disintegrazione del partito dei lavo­ratori ungheresi. Priva di un partito marxista unito, attivo e fiducioso, la classe operaia stessa era come un corpo senza testa, le cui varie membra andavano simultaneamente in tutte le direzioni - di fatto, paralizzandola. Perciò, nel momento della spinta rea­zionaria, la società ungherese non disponeva di una forza di resistenza efficace e organizzata che vi si potesse opporre: e questo fatto accresceva di molto il pericolo di un'immediata soluzione fascista della crisi.

Il 1° novembre Kadar, riconoscendo ormai que­sto stato di cose, fece uno sforzo supremo per op­porvi un argine, annunciando la formazione di un nuovo partito marxista-leninista, chiaramente anti-Rákosista: il nuovo partito prese il nome di partito socialista operaio ungherese, e pubblicò un nuovo organo, il Nepszabadsag [Libertà del popolo]. L'in­tegrità del socialismo - disse Kadar nel suo appello - richiede «libertà per il popolo e indipendenza per il paese». L'una e l'altra erano state obiettivi essen­ziali dell'intero processo che aveva avuto il suo cul­mine il 23 ottobre: nella lotta per questi obiettivi i comunisti avevano avuto un ruolo decisivo, e dove­vano ancora mettersi alla sua testa, per assicurare la purificazione della vita sociale del paese, garantire l'indipendenza dell'Ungheria, e difendere ed esten­dere il socialismo. «L'insurrezione - continuò Ka­dar - è giunta a un bivio decisivo»: noi non ab­biamo lottato per eliminare il burocratismo e la ri­gidità tirannica «perché sorgesse al loro posto il regno della controrivoluzione»;

«non abbiamo combattuto perché le miniere e le fabbri­che potessero essere strappate dalle mani della classe ope­raia, e la terra da quelle dei contadini».

Non vi era che un'alternativa: o andare avanti verso una vita democratica «piena di umanità», o «ricadere nella schiavitù del vecchio mondo feudale, e con ciò, nella schiavitù dello straniero».

«Il pericolo è grave e allarmante - disse Kadar - che un intervento armato straniero abbatta sul nostro paese il tragico destino della Corea. È l'ansietà per la sorte riservata a tutto il paese che ci spinge a fare tutto ciò che è in nostro potere per sventare questo pericolo: dobbiamo eliminare i centri della reazione e della controrivoluzione, consolidare definitivamente il nostro ordine democratico, assicurare le condizioni per una vita e un lavoro produttivo normali - la pace, la calma e l'ordine».

Il nuovo partito, rompendo con tutti gli errori e i crimini del passato, avrebbe combattuto «sul fronte dell'indipendenza nazionale», per «rapporti di ami­cizia con tutti i paesi, vicini e lontani, e in primo luogo con i paesi socialisti nostri vicini». Esso sa­rebbe stato il partito del marxismo-leninismo unghe­rese, fondato «sulle tradizioni progressive e rivolu­zionarie della storia e della cultura ungherese», lontano dalla «copia servile di esempi stranieri», dedito rigorosamente, invece, alla ricerca di «una via adatta alle caratteristiche storiche ed economi­che del nostro paese». Fin d'ora, il partito socia­lista operaio ungherese era pronto a combattere a fianco di tutti gli elementi democratici «per sven­tare il pericolo imminente della controrivoluzione» e salvaguardare l'indipendenza dell'Ungheria e le sue conquiste socialiste.

Intanto, però, le forze della reazione consolida­vano rapidamente il loro potere e spingevano avanti la situazione al livello di Governo, mentre nelle strade correva il sangue di numerosi comunisti, ebrei e progressisti massacrati. Il 2 novembre, Nagy chiese di nuovo ufficialmente l'intervento delle Na­zioni Unite e la garanzia delle quattro Potenze; nello stesso tempo Pal Maleter, nuovo capo delle Forze armate, annunciava che l'Esercito avrebbe appoggiato il Governo soltanto se Nagy avesse riti­rato immediatamente l'Ungheria dal patto di Var­savia e condotto una politica senza esitazioni per cacciare l'Armata Rossa dall'Ungheria, se necessario con la forza.

Poi, il tre novembre, fu annunciata ancora una volta la formazione di un nuovo Governo, e anche questa volta il rimpasto rappresentava un ulteriore spostamento verso destra. Il Gabinetto doveva com­prendere 12 persone: ma dei tre comunisti di cui furono annunciati i nomi, quello di Kadar era stato incluso senza il suo consenso e contro la sua volontà. Così, a questo punto, su undici membri effettivi del Governo, due soli erano comunisti, Nagy e Losonczy; degli altri nove, tre appartene­vano al partito dei piccoli proprietari, tre rappre­sentavano i socialdemocratici, due il partito conta­dino, e l'ultimo era un indipendente. Anche nella forma - per non parlare dei reali rapporti di forza in quel momento - il Governo del 3 novembre era dunque considerevolmente più a destra della coali­zione formata undici anni prima.

Lo stesso tre novembre, per la prima volta, si udirono personaggi ufficiali attaccare pubblicamente e ripudiare il socialismo, con una chiara prospettiva di ritorno al regime capitalista. A mezzogiorno del tre novembre una dichiarazione del partito contadi­no, - due rappresentanti del quale, come era stato appena annunciato, sedevano ora al Governo - pro­clamò che il partito, pur non desiderando la revoca della riforma agraria del 1945, «afferma la sua fi­ducia nella proprietà privata, e chiede libertà di produzione e di traffici». Poco dopo l'organo di stampa della «Società del Sacro Cuore di Gesù» veniva diffuso a Budapest, e il suo editoriale, intito­lato «Quello che vogliamo - I punti essenziali del programma della Chiesa cattolica ungherese», fu trasmesso dalla radio in ungherese e in francese. In esso, dichiarò radio Budapest

«si chiede la restituzione delle terre che erano state di proprietà della Chiesa. Inoltre, la restituzione alla Chiesa delle sue scuole».

In altri termini, codesto organo ufficiale cattolico chiedeva, il 3 novembre, l'abrogazione della riforma agraria e della riforma scolastica - atti sempre de­nunciati dalla gerarchia e particolarmente da Minds­zenty - ossia ancora il rovesciamento delle trasfor­mazioni sociali che avevano posto fine alla vecchia Ungheria di Horthy.

A questo punto converrà rivolgere l'attenzione a Sua Eminenza in persona. Sulle concezioni di que­sto clerico-fascista medievaleggiante abbiamo già speso alcune pagine in un altro capitolo: appena li­berato dall'arresto a domicilio, le sue prime parole, diffuse per radio il 30 ottobre, furono per dire, come si ricorderà, che le sue idee e la sua posizione nel 1956 erano identiche a quelle del 1948.

George N. Shuster, l'apologista americano del car­dinale, più volte ricordato, scrisse una serie di arti­coli per il New York Herald Tribune, il 29, 30 e 31 ottobre 1956, basati, a quanto affermava il gior­nale, su «informazioni dirette ricevute dall'Unghe­ria negli ultimissimi giorni». «Non vi può essere dubbio - scriveva Mr. Shuster - che la chiave per risolvere i problemi del paese è nelle mani del car­dinale Mindszenty». Inoltre, riferiva il dirigente cattolico,

«dopo l'inizio della rivolta, si fece ancora uno sforzo per convincere il cardinale ad andare al microfono, calmare il popolo, e chiedere che fossero deposte le armi. Eviden­temente, il tentativo non ebbe successo».

Sì, questo è molto chiaro. E non può avere, ci sembra, che una sola spiegazione: il cardinale vo­leva la continuazione della violenza perché la spinta verso destra potesse acquistare maggior impeto. Shuster stesso scrive che fra i personaggi più emi­nenti del movimento insurrezionale vi fu Bela Kovacs, antico segretario generale dell'«Unione con­tadina» condannato al carcere per attività contro­rivoluzionarie ancor prima di Mindszenty. Kovacs, che era stato rilasciato non molto prima dell'otto­bre, era ora, ci dice Shuster, «un fedele e ardente sostenitore del cardinale Mindszenty». Nel Gover­no annunciato da Nagy il 3 novembre, lo stesso Kovacs ebbe il terzo posto in ordine di influenza, dopo Nagy e Tildy.

Sempre secondo Shuster:

«La rivolta ha dimostrato che la sola forza morale al­l'interno del paese era ed è rappresentata dal cardinale Mindszenty, sia che egli sia al potere o no. L'ondata di questa sollevazione nazionale trae forza dalla sua persona».

Questo veniva pubblicato il 31 ottobre. Lo stesso giorno Radio Europa libera - nella quale Shuster ha una parte che abbiamo dimostrato a suo luogo, insieme ai legami con la finanza imperialistica e all'orientamento politico reazionario di questa orga­nizzazione - Radio Europa libera, che allora lan­ciava le sue parole d'ordine all'Ungheria per 24 ore al giorno, fece questa osservazione : «...è sorta anche la questione, se la nostra eroica gioventù abbia un capo: la risposta a questa domanda, cari ascoltatori, è: il cardinale Joszef Mindszenty» [8].

Sempre a quanto scriveva Shuster, il gruppo Mindszenty-Kovacs «ha un solo scopo»:

«instaurare in Ungheria un genuino regime democra­tico cristiano, nella cui direzione il cardinale non avrà parte attiva, poiché non è un uomo politico, ma che egli appog­gerà, come massima forza di giustizia e di moderazione nel paese. Questo è ciò che Mindszenty fece nel passato».

Il 2 novembre il Populaire, organo del partito so­cialista francese, scriveva:

«Il cardinale Mindszenty parla spesso alla radio unghe­rese. Sembra che egli intenda assumere un ruolo di guida della nuova vita politica del paese, e si ha l'impressione che, fin d'ora, nulla sia fatto senza di lui. Il pericolo, in Ungheria, è che la liberazione dal giogo sovietico sia seguita dalla rinascita dell'horthysmo».

Il 3 novembre uno dei maggiori giornali di Parigi, l'Aurore, scriveva da Budapest: «Il cardinale Minds­zenty è pronto a partecipare a un Governo che rista­bilisca l'ordine a Budapest». Il redattore dell'Aurore riferiva di aver avuto un'intervista col cardinale, che era ansioso di vedere emergere come forza potente in Ungheria un nuovo partito democratico-cristiano; alla domanda se avrebbe accettato «un posto diret­tivo nel futuro Governo», egli rispose «È possibi­le». Tuttavia, aggiungeva il giornalista francese, non era probabile che il cardinale assumesse la ca­rica di Primo ministro: «Questa posizione verreb­be assunta da un uomo politico cui il cardinale po­trebbe dare, come ministro di Stato, il suo appoggio morale».

Nello stesso tempo l'agenzia Reuter annunciava da Budapest che il cardinale, in un'intervista col principe Hubertus Lowenstein, aveva dichiarato che le speranze dell'Ungheria e di tutta l'Europa si ri­volgevano a una Germania unita e riarmata «pron­ta a respingere il pericolo sovietico con tutti i mez­zi». Probabilmente è a questa intervista che si ri­ferisce l'osservazione di Peter Wiles, fellow del New College di Oxford, che visitava l'Ungheria al mo­mento dell'insurrezione, e che scrisse sul New Lea­der di New York:

«Mindszenty dimostrò poco tatto quando disse a un giornalista tedesco, durante
la rivoluzione, che il maggior baluardo contro il comunismo in Europa era una Germania unita e riarmata» [9].


Sulla base di queste notizie si potrà apprezzare giustamente l'osservazione fatta da Barret McGurn, in una rassegna dei recenti avvenimenti sul New York Herald Tribune del 17 novembre, a proposito di Mindszenty, definito «uno dei maggiori capi un­gheresi»:

«Fu presto chiaro che quel che la Russia aveva di fronte in Ungheria non è la prospettiva di un altro Gomulka, un comunista nazionale della taglia del Premier [10] polacco, ma un Adenauer, un cattolico militante, posto nel bel mezzo di una naturale via d'accesso di carri armati verso l'Unione Sovietica oltre che in senso opposto».

Il 3 novembre il cardinale pronunciò alla radio un indirizzo al paese, che più tardi fu chiamato «catastrofico» dagli osservatori di destra, e lo fu infatti - per loro - perché attaccava prematura­mente i fondamenti socialisti dell'Ungheria, a fa­vore dei quali stava ancora la grande maggioranza della popolazione: in altri termini, esso svelò le vere intenzioni delle forze che avevano il sopravvento nell'azione controrivoluzionaria in rapido sviluppo, in modo troppo scoperto e troppo repentino.[11]

Il giorno dopo il giornale londinese Reynolds News scriveva senza mezzi termini che il cardinale invocava il ritorno del capitalismo - la restaura­zione del vecchio ordine. È chiaro, aggiungeva il giornale, che il discorso del cardinale significa oppo­sizione allo stesso Governo Nagy nella sua ultima formula. Il testo appariva in prima pagina sotto il titolo «"Via il Socialismo" - intima Mindszenty a Nagy». I primi due capoversi suonavano:

«Il cardinale Mindszenty ha attaccato aspramente il Governo di Imre Nagy in un discorso alla radio ungherese diffuso ieri sera, indicando in esso "l'erede di un sistema fallimentare".
«Il primate cattolico, che è stato rilasciato dalla prigione [sic] solo la settimana scorsa, ha chiesto che l'Ungheria ab­bandoni il comunismo e ritorni a un sistema di proprietà privata».


Inoltre, riferiva il Reynolds News :

«Il cardinale ha chiesto la restaurazione dei vecchi diritti e la restituzione delle proprietà della Chiesa cattolica unghe­rese, e garanzie per la vita ecclesiastica, le scuole cattoliche e la stampa cattolica».

Il testo rigorosamente autentico dell'intero discor­so (se ve ne fu uno solo), sembra impossibile da ottenere. John McCormac, in un dispaccio da Vien­na pubblicato nel New York Times, scrisse qual­che giorno dopo: «Il Primo ministro Kadar ha detto anche che il cardinale, in un discorso alla radio il 3 novembre, aveva proposto la restituzione di tutte le proprietà private, comprese le terre della Chiesa». Come abbiamo visto, quest'ultima richiesta, più quel­la della restituzione delle scuole, sono senza possibi­lità di dubbio quelle avanzate esplicitamente da un foglio cattolico ufficiale apparso a Budapest il 3 no­vembre, e ripetute alla radio ungherese lo stesso giorno.

Comunque, McCormac continua il suo servizio da Vienna riferendo che il testo del discorso del cardinale, composto di due paragrafi, era stato dif­fuso colà da circoli cattolici. Questo, senza alcun dubbio, non poteva essere il testo completo, come si vedrà fra un momento, ma anche nella versione data da fonti della Chiesa viennese due settimane dopo che il discorso fu letto alla radio, troviamo che il cardinale dice: «Noi siamo per l'iniziativa pri­vata, opportunamente e giustamente limitata da considerazioni di carattere sociale». Anche secondo questo testo, egli riafferma poi la sua immutata ade­renza alla posizione assunta dalla Chiesa nel 1945, che come abbiamo visto a suo luogo, significò l'op­posizione alla Repubblica, alla riforma agraria e alla separazione di Stato e Chiesa. Sempre secondo il testo rilasciato a Vienna, il cardinale aveva detto poi di «attendere con piena giustizia l'immediata restaurazione della libertà dell'insegnamento cri­stiano», ciò che in bocca sua, come abbiamo dimo­strato, poteva significare soltanto il ritorno del 65 per cento delle scuole ungheresi nel possesso mate­riale e sotto l'assoluto controllo del Principe-Primate medesimo.

Nella pubblicazione del «Comitato per l'Europa libera» intitolata The Revolt in Hungary, e che abbiamo già ricordato, si trova [12] il testo di un di­scorso del cardinale pronunciato alla radio verso la mezzanotte del 3 novembre. Qui abbiamo 12 para­grafi, e non due, e tuttavia i puntini che appaiono ben cinque volte indicano l'omissione di parti consi­derevoli del testo; alcune delle parole del testo ri­ferito da McCormac si ritrovano anche in quello del «Comitato per l'Europa libera». Ci sembra giusto pensare che la pubblicazione del discorso da parte della gerarchia cattolica di Vienna e del «Comitato per l'Europa libera» non sia stata condotta in modo tale da sottolinearne le espressioni ultrareazionarie che potrebbero alienare l'opinione pubblica ame­ricana.

Comunque, sia la versione più estesa che quella riferita da McCormac contengono l'essenza di una posizione e di un programma controrivoluzionari, quali unicamente ci si sarebbe potuto aspettare dal cardinale Mindszenty, avendo anche solo un minimo di conoscenza della sua storia e delle sue concezioni. Il cardinale cominciò col dichiarare che non aveva «nulla da rinnegare del suo passato»; al contrario, egli afferma: «Fisicamente e spiritualmente intatto, sono pronto a sostenere le mie convinzioni, così come otto anni fa» e per queste convinzioni, rimandiamo ancora una volta il lettore alle pagine relative in questo libro.

Per lui, ripetè il cardinale, i mutamenti del 1945 rappresentavano «un regime [che] ci è stato impo­sto con la forza». Non solo, ma:

«Coloro che hanno avuto parte nel regime ora caduto sono responsabili per i loro atti, le loro omissioni e i loro errori. Se le cose procederanno come deve essere, e secondo le promesse fatte, il mio compito non sarà quello di elevare accuse».

E finalmente, secondo questa versione come se­condo quella rilasciata dalla Chiesa a Vienna, il car­dinale disse: «Noi siamo per la proprietà privata, giustamente limitata dagli interessi della società».

Intanto, quel tre novembre, la situazione delle strade era diventata così grave che perfino il gene­rale Bela Kiraly, uno dei nuovi capi estremamente nazionalisti delle Forze armate ungheresi, invocò la cessazione delle violenze, denunciò gli incitamenti di Radio Europa libera e della «Voce dell'America», e disse: «quello di cui la rivoluzione ha bisogno, adesso, è che gli operai ritornino al loro lavoro» [13]. Lo stesso giorno, Barret McGurn riferì sul New York Herald Tribune che gruppi «rivoluzionari»

«distribuiscono piccoli opuscoli appena stampati, in cui si dice che anche i russi dovrebbero seguire l'esempio del­l'Ungheria e ribellarsi subito contro il comunismo nel nome di Dio e della libertà. Questi fogli esortano gli ungheresi a portare avanti la loro liberazione verso est, ai russi. Perché anche i russi possano leggere, una parte del testo è stam­pata nella loro lingua»

* * * *

Lasciamo ora gli edifici del Governo e i centri ufficiali di Budapest e cerchiamo di ricostruire quello che veniva fatto e detto nelle strade e in provincia, e da chi, durante la settimana che precedette il ri­torno in forze delle truppe sovietiche nella capitale, il 4 novembre.

In primo luogo, converrà ricordare alcune fonti senz'altro attendibili, da cui si ricavò l'indicazione che un attacco armato contro il Governo ungherese, del tutto indipendentemente da quello che accadde il 23 ottobre, era stato preparato da lungo tempo, e che provano in modo certo l'assenza di spontaneità della minoranza che fece ricorso alle armi.

Il 25 ottobre, un dispaccio da Budapest dell'United Press dichiarava che

«i ribelli sono bene armati. È questo fatto che ha indi­cato per primo come un movimento clandestino, che sembra ben addestrato e ben equipaggiato, abbia scelto questo mo­mento di crescente fermento del paese come l'occasione adatta per colpire il regime comunista».

Lo stesso giorno, il corrispondente da Budapest del Daily Mail di Londra riferiva di aver consumato la cena con dei dirigenti dell'insurrezione «che ave­vano preparato per un anno la rivolta di questa set­timana». Assai più estesa è una notizia dell'United Press, trasmessa il 30 ottobre da Kurt Neubauer dal centro di frontiera austriaco di Nickelsdorf. Dopo aver parlato lungamente con molti insorti armati, Mr. Neubauer giungeva a questa conclusione: «È abbastanza evidente, ormai, che la rivoluzione un­gherese è stata preparata per mesi, o forse per anni interi».

Sebbene alla domanda - «come avete potuto ave­re tanti fucili ?» la risposta fosse «ogni volta un silenzio di pietra», e come egli insisteva «volete dire che avete preparato questa rivolta per molto tempo, che vi siete organizzati, e avete aspettato?», la ri­sposta fosse ancora il silenzio, tuttavia la conclu­sione di Neubauer fu quella che abbiamo citato, perché, come egli stesso scriveva

«Solo poche ore dopo che la rivolta ebbe inizio, la settimana scorsa, tutti sembravano avere un'arma - chi una pistola, chi un fucile, e alcuni, una mitragliatrice. Migliaia di bracciali tricolori spuntarono sulle maniche dei volon­tari, e qualcuno doveva averli fabbricati. Gli uomini si av­viavano al combattimento montati su autocarri: mobilitare tanti veicoli non era una cosa da poco. Piani come questi non potevano essere stati disegnati in un giorno o in una settimana soltanto».


Le testimonianze sul terrore bianco che si sviluppò in Ungheria come situazione generale, in modo da richiamare direttamente alla memoria il 1919, soprat­tutto a partire dal 29 ottobre, quando l'Armata Rossa lasciò Budapest, sono universali ed eccellenti. Il ter­rore regnò con un crescendo di furia fino al 4 no­vembre, ossia fino al ritorno delle forze sovietiche.

Elie Abel, scrivendo da Budapest il 29 ottobre per il New York Times, riferì che i cosiddetti «Consigli rivoluzionari» dell'Ungheria occidentale erano «oc­cupati a gettare in carcere i rappresentanti locali del partito dei lavoratori ungheresi (comunista) e della polizia di sicurezza». «In alcuni casi - egli conti­nuava - questi servitori del regime di Budapest [cioè di Nagy, ormai] vengono impiccati o fucilati senza formalità». Il Daily Express di Londra del 31 ottobre pubblicava una descrizione del lungo e siste­matico assalto condotto il giorno prima contro la sede centrale del partito a Budapest, dovuta al suo corrispondente Sefton Delmar che si era trovato sul posto. (Va ricordato ancora che, in quel momento, il Governo misto formato da Nagy il 27 ottobre e il Gabinetto di quattro partiti del 30 ottobre eserci­tavano il «potere», a quanto si deve supporre). Gli attaccanti, scrive Delmar

«hanno impiccato tutti senza eccezione gli uomini e le donne trovati nel palazzo, fra cui alcuni comunisti buoni, sostenitori della ribellione contro Mosca del Primo ministro comunista Nagy...
«Gli impiccati pendono dalle finestre, dagli alberi, dai lampioni, da qualunque oggetto a cui si possa impiccare un uomo. Il male è che, insieme a loro, si seguita a im­piccare anche dei semplici cittadini».


Il redattore per i Balcani del giornale del big bu­siness, United States News and World Report pub­blicò il 9 novembre i suoi appunti, presi «mentre viaggiava in automobile dalla frontiera austriaca fino a Budapest», nei giorni in cui i sovietici erano fuori dalla capitale: «Si passa vicino a grossi assembra­menti di persone riunite intorno ai corpi di membri della polizia di sicurezza: costoro vengono battuti fino a divenire masse informi che non hanno più nulla di umano. Da una casa ne pendono altri, im­piccati».

Si può appena riconoscere la forma umana, ma naturalmente si può dire con certezza che gli indi­vidui torturati e linciati sono membri della polizia di sicurezza. Vengono alla memoria le fotografie fatte da John Sadovy e pubblicate su Life il 12 novembre 1956, in cui si vede un gruppo di ungheresi in uni­forme, disarmati e con le mani in alto in segno di resa, alcuni feriti; poi lo stesso gruppo fucilato a freddo da forse cinque passi, e poi, uno di loro non essendo ancora morto e tenendosi eretto, un'altra fotografia mostra il calcio di un fucile che piomba sul suo cranio. Life, nel far pubblicità alla sua merce sul New York Times del 14 gennaio 1957, dà una riproduzione di due di queste fotografie, fa­cendo scrivere che esse illustrano «un momento bru­tale ma glorioso di un'appassionata battaglia per la libertà» : e, anche qui, la scusa è che i massacrati appartenevano alla polizia di sicurezza. Ciò che viene mostrato, naturalmente, sarebbe stomachevole anche se le vittime fossero cani e non esseri uma­ni: ma tanto per l'esattezza, gli uomini uccisi, come mostrano chiaramente le loro uniformi e i loro volti, sono soldati dell'Esercito ungherese, molto giovani, reclute probabilmente, e non poliziotti di alcun genere.

Il fotografo di questo «momento glorioso» rife­riva poi nel testo che accompagnava le fotografie che i «combattenti della libertà» non cessavano mai il fuoco su coloro che cercavano di arrendersi, urlando «Niente prigionieri, niente prigionieri!». Poi, scrive Mr. Sadovy, dopo aver visto il momento glorioso prolungarsi per quaranta minuti di mas­sacro a sangue freddo

«i miei nervi cedettero, le lacrime cominciarono a scor­rermi giù per le gote. Ero stato tre anni in guerra, ma nulla di tutto ciò che avevo visto poteva paragonarsi a questo or­rore».

Gunnar D. Kumlein, corrispondente stabile da Roma del settimanale cattolico The Commonweal, si recò in Ungheria durante l'insurrezione. Sembra che egli abbia passato buona parte di quei giorni an­che fuori Budapest. Sebbene le sue relazioni siano appassionatamente a favore dei «combattenti della libertà», tuttavia egli riferisce del resto senza un cenno di disapprovazione, che alcuni degli insorti «liquidavano i loro padroni comunisti come se fos­sero animali» [14].

Leslie B. Bain, un osservatore molto moderato che conosce bene l'Ungheria, e che fu pure a Budapest durante l'insurrezione, scrive che mentre i segni della reazione estrema apparvero fin dall'inizio del­l'azione violenta, a partire dal 29 ottobre essi si fecero via via più decisi:

«... in diversi punti della città, dovunque si formava un gruppo di tumultuanti, vi erano alcuni individui che lan­ciavano parole d'ordine di nazionalismo estremo. Certe volte chiedevo se questi elementi nazionalisti avessero un comando centrale: ho fatto del mio meglio per scoprirlo, ma senza ottenere prove convincenti. Comunque, l'ondata nazionalista continuava a salire».

Bain racconta che «il quinto giorno» [cioè, il 28 ottobre] «un personaggio molto vicino a Nagy am­mise che coloro che avevano dato avvio alla rivolta ne avevano ormai perso il controllo». Col passare dei giorni, «il Governo Nagy sprofondava sempre più nel caos. L'insurrezione andava alla deriva» [15].

Il 31 ottobre, l'Associated Press trasmetteva da Budapest dispacci come questo - dove, ancora, l'as­sicurazione che le vittime erano membri della «poli­zia segreta» va presa con un po' più di un grano di sale:

«Squadre di vendetta di giovani rivoluzionari girano ancora per le strade e perlustrano le fogne della città, alla caccia di membri della odiata polizia segreta ungherese. Quelli che vengono trovati nelle fogne, sono uccisi e gettati al fondo; nelle strade, essi vengono impiccati per i piedi. Altri, fucilati nelle vie, vengono poi cosparsi di benzina e bruciati» [16].

Un altro dispaccio trasmesso lo stesso giorno da Varsavia riferiva similmente che «alcune delle no­tizie qui giunte da Budapest hanno causato oggi grande preoccupazione: si tratta delle notizie di massacri di comunisti ed ebrei da parte di elementi indicati come "facisti" [17]...

Le librerie furono un obiettivo particolare dei «combattenti della libertà». Opere classiche di co­munisti e di autori progressisti di tutto il mondo furono ammucchiate in grandi roghi per le strade.

«I fuochi bruciarono per tutta la notte» riferiva estaticamente Leo Cherne sul New York Times [18].

Ed ecco la testimonianza di Georges Vanhoute, segretario del sindacato americano di sinistra Che­mical and Oil Workers Trade Union International [Unione internazionale dei chimici e lavoratori del petrolio], che fu a Budapest in quei giorni:

«Le atrocità furono compiute specialmente nella seconda fase dei tragici eventi di Budapest, sull'onda di una cam­pagna che veniva in primo luogo dall'esterno del paese, e qui vanno ricordate le trasmissioni di Radio Europa libera dalla Germania occidentale, ma anche di una campagna di eccitamento all'odio condotta da elementi fascisti all'in­terno, e soprattutto a Budapest.
«Conosciamo direttamente casi di intere famiglie tru­cidate, come la famiglia Kalamar, e di operai attivi e co­raggiosi, come Imre Mezo, già partigiano in Francia, che sono stati selvaggiamente torturati e uccisi.
«Venivano stampate e affisse nelle strade delle liste nere con i nomi di uomini e donne che dovevano essere uccisi, fra cui quelli di personalità culturali ungheresi e sovietiche, e di membri di organizzazioni operaie» [19]

Il corrispondente da Budapest del settimanale ra­dicale francese L'Express riferì, il 31 ottobre, di esser stato testimonio oculare della caccia ai membri della polizia di sicurezza:

«Ho visto esecuzioni sommarie: bastava che una perso­na fosse indicata da qualcuno come «spia della polizia», perché la si impiccasse, fucilasse o bruciasse viva. Ho assi­stito all'esecuzione di un presunto graduato della polizia po­litica e ho udito la folla impazzita sulla piazza Koztasasagter urlare i suoi insulti al "lurido ebreo" che aveva final­mente pagato per la sua razza maledetta».

L'inviato speciale del quotidiano jugoslavo Politika, riassumendo gli eventi di quei giorni sul nu­mero del 13 novembre del suo giornale, riferisce di abitazioni di comunisti marcate con una croce bian­ca, e quelle degli ebrei con una croce nera, come segni di riconoscimento per le squadre di sterminio. «Non vi è più dubbio possibile - scrive il giorna­lista jugoslavo - si tratta di un classico esempio di fascismo ungherese e di terrore bianco». «Le in­formazioni che arrivano dalle province - continua poi - parlano di luoghi dove ai comunisti veni­vano cavati gli occhi, tagliate le orecchie, recata la morte nei modi più orribili».

André Stil, redattore capo del quotidiano comu­nista francese l'Humanité, arrivò a Budapest il 12 novembre. I risultati della sua visita in varie parti della città e dei suoi colloqui con molti sopravvis­suti del terrore bianco, comunisti e altri, coincidono sostanzialmente con le relazioni dirette dei testimoni oculari del New York Times, New York Herald Tribune, Commonweal, Commentary, United Sta­tes News, Life e Politika - massacro sistematico fascista, che ricorda i giorni del 1933 a Berlino, e del 1919 nella stessa Budapest.

«... dopo le torture, quelli che respiravano ancora ven­nero impiccati. Furono impiccati anche dei morti. Spesso i corpi degli impiccati erano in uno stato tale che non si potè più riconoscerli: gli alberi della piazza della Repubblica portano ancora le tracce dei pesi e dei colpi. I cadaveri erano forati dappertutto da colpi di baionetta, lividi di calci, graf­fiati, coperti di sputi...
«Fra coloro stessi che si erano lasciati trarre in inganno, ve ne furono molti che non poterono sopportare questi atti. Quasi tutti i compagni con cui ho parlato dovevano la loro salvezza solo all'intervento di questi individui, spesso gli stessi che, fino a un momento prima, si erano accodati ai tumulti».


Mentre ottobre passava in novembre, la furia cre­sceva, e sempre più il massacro prendeva la forma di un'azione bene organizzata. Sempre nuove infor­nate di persone venivano arrestate e tenute pronte per il successivo sterminio. Alla fine del 3 novembre gli arrestati in attesa di esecuzione nell'immediato futuro erano centinaia a Budapest, e altre centinaia si trovavano in centri minori di tutto il paese. Vi sono prove conclusive del fatto che solo l'entrata delle truppe sovietiche a Budapest prevenì l'ucci­sione di centinaia, forse migliaia di ebrei: fra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, i pogrom antise­miti - segni del terrore fascista senza più freni - erano riapparsi in Ungheria, dopo una pausa di circa un decennio.

Già nei materiali ricordati fin qui il lettore avrà notato indizi del carattere antisemita di una parte dei massacri. Vi sono poi chiari indizi del fatto che le azioni di eliminazione in massa di ungheresi ebrei avevano carattere organizzato.

Così, nell'articolo di Peter Schmid su Commentary - pubblicazione del Comitato ebraico americano - l'autore, acceso anticomunista come si è già detto, pure affermando recisamente che «è una menzo­gna» sostenere che l'insurrezione «era caduta in potere di reazionari e fascisti», scrive tuttavia che «questi elementi erano presenti fra i ribelli», e, specificamente, riferisce di aver «individuato» quel­la che chiama «una corrente sotterranea di antise­mitismo» nella sollevazione ungherese.

Quanto fosse difficile «individuare» questa «cor­rente sotterranea» risulta poi dall'esempio che Schmid stesso racconta per illustrarla. Un gruppo di «combattenti della libertà» sta lavorando con delle scavatrici meccaniche per arrivare alle cantine di un edificio in cui ritiene siano nascosti «dei mem­bri della polizia di sicurezza». Schmid è presente e assiste alla scena; scopo dell'azione, naturalmente, è lo sterminio. A questo punto, scrive Schmid, «uno degli scavatori venne verso di me e mi rivolse la parola con un pretesto, cominciando a spiegare che gli ebrei dovevano essere sterminati perché avevano portato il comunismo in Ungheria». Questo indi­viduo era membro di quel che Schmid chiama sen­z'altro «un gruppo di combattenti della libertà» ! Naturalmente, se tali sono i sentimenti appropriati a un combattente per la libertà, si è costretti a rico­noscere, come insensata l'affermazione che l'insur­rezione «fosse caduta nelle mani di reazionari e fa­scisti» [20].

Anche Leslie B. Bain, già citato, e il cui orienta­mento politico generale non differisce di molto da quello di Peter Schmid, notò che a Budapest, fin dai primi giorni, «si videro gruppi di personaggi inde­finibili che si raccoglievano ai crocicchi e comin­ciavano a urlare "Sterminio agli ebrei!"». E osser­va: «Già nella prima nottata, e poi nei giorni suc­cessivi, c'era in giro abbastanza antisemitismo... da presentare un chiaro segno di pericolo...».

Il corrispondente del giornale israeliano Maariv di Tel Aviv scrisse

«Durante l'insurrezione un certo numero di ex-nazisti furono liberati dalle prigioni, e altri giunsero in Ungheria da Salisburgo... Questi li incontrai al confine.. A Budapest ho visto manifesti antisemiti nelle strade... Sui muri, sui lampioni, sui tram si leggevano scritte come " Abbasso l'ebreo Gerö!", "Abbasso l'ebreo Rákosi! ", o semplice­mente: " Abbasso gli ebrei! "» .

Ai primi di novembre i circoli dirigenti rabbinici di New York ricevettero un telegramma dai loro confratelli di Vienna, in cui si comunicava che «san­gue ebraico scorre in Ungheria per opera dei ri­belli». Molto più tardi, nel febbraio del 1957, il Congresso mondiale ebraico dichiarò che «durante la rivolta ungherese di ottobre-novembre eccessi an­tisemiti hanno avuto luogo in più di venti villaggi e piccoli centri della provincia». Ciò era avvenuto, affermava questo organismo molto conservatore, per­ché «gruppi fascisti e antisemiti, a quanto sembra, avevano colto l'occasione offerta dalla carenza del potere centrale per ripresentarsi alla superficie». Sempre secondo il rapporto del Congresso ebraico mondiale, molti dei profughi ebrei si erano allon­tanati dall'Ungheria per sfuggire alla tremenda atmosfera di pogrom antisemita che invadeva il paese [21].

Ciò veniva a confermare la relazione fatta in pre­cedenza dal rabbino inglese R. Pozner, il quale, dopo una visita ai campi di profughi ungheresi, di­chiarò che «la maggior parte degli ebrei che hanno lasciato l'Ungheria sono fuggiti per paura degli un­gheresi e non dei russi». Il giornale ebraico di Pa­rigi, Naye Presse, riferiva poi che i profughi un­gheresi ebrei in Francia dichiaravano molto spesso di aver avuto salvata la vita da soldati sovietici [22].

Il carattere reazionario e antisemita di alcuni ele­menti dirigenti dei «combattenti della libertà» viene via via confermato dalle notizie che si vanno accumulando intorno a buona parte dei rifugiati un­gheresi. In Inghilterra e nel Canadà la polizia ha dovuto intervenire in alcuni campi di profughi per impedire il linciaggio degli ebrei. Il ministro degli Interni austriaco Oskar Helmar riferiva in gennaio episodi di dimostrazioni e aggressioni antisemite nei campi di profughi ungheresi in Austria [23].

Poco dopo Mr. Zev Weiss, membro del comitato esecutivo della Youth Aliyah, un'organizzazione in­ternazionale per l'assistenza ai bambini ebraici, vi­sitò i campi di profughi in Austria, e riferì lui pure che un «virulento antisemitismo» vi aveva libero corso.

L'8 dicembre 1956 il Cleveland News riferiva il discorso tenuto da Ferenc Aprily, ex-tenente dell'E­sercito di Horthy e prigioniero in Russia durante la guerra, a una riunione di ufficiali aviatori della ri­serva. Costui, che il giornale ci presenta come «un patriota ungherese», raccontò che, tornato in patria dalla prigionia, «cominciò immediatamente a com­plottare contro la dominazione sovietica» ; fu presto «ben noto ai russi come sabotatore, cospiratore, spia e combattente per la libertà», per cui, arrestato nel 1948, subì tuttavia «un processo senza prove».

Comunque sia, egli era stato rilasciato nel settem­bre 1956, «in tempo - a quanto ci dice lui stesso - per unirsi al fervido sentimento di rivolta che ribol­liva in tutta l'Ungheria». Della lotta armata vera e propria, cui egli prese parte fin dall'inizio, Aprily racconta : «Noi non volevamo legarci a nessun sin­golo gruppo o uomo politico, cosicché i combatti­menti si sviluppavano, per così dire, semplicemente là dove sembrava via via necessario. Io ero consi­gliere e capo di un gruppo di 35 combattenti». (Que­st'osservazione può servire a gettar luce sul proble­ma di quella «spontaneità» che ha reso perplessi tanti osservatori dell'insurrezione: troveremo più avanti altri elementi a questo proposito).

Aprily raccontò orgogliosamente ai suoi uditori americani come aveva contribuito a liquidare 80 comunisti in una sede di partito. Non furono presi prigionieri: le vittime «vennero impiccate». La storia narrata dal Cleveland News si conclude così:

«Quando una ricerca sistematica in tutta la città fu lanciata contro di lui, racconta Aprily, i capi della rivolta lo esortarono a partire. Egli pedalò su una bicicletta presa a prestito fino alla frontiera austriaca, e in seguito ottenne asilo negli Stati Uniti».

Negli Stati Uniti hanno trovato rifugio anche altri eminenti «patrioti». Il conte Edmond de Szigethy, antico proprietario di un'azienda tessile con 1200 operai, si trovò spossessato con l'avvento del socia­lismo. Anche questo gentiluomo fu un «combat­tente della libertà», riuscì a scappare e certamente potrà cavarsela anche senza le sue 1200 «mani» [24]. Il signor conte, infatti, ha sposato Mrs. Gabor, ma­dre più volte impalmata delle non meno impalmate sorelle Gabor, i cui amori, occhi dipinti e gonne tra­sparenti hanno conquistato la stima di tutti i cono­scitori dei night-clubs. Il felice evento con tutti que­sti commoventi particolari è riferito nel New York Post del 28 febbraio 1957.

Da Emil Lengyel, sulla Saturday Review del 25 febbraio 1957, apprendiamo che «antichi membri del partito ungherese delle "croci frecciate", in con­fronto al quale gli stessi nazisti tedeschi erano amici degli ebrei», si sono guadagnati il titolo di «com­battenti della libertà», insieme ad altri elementi più degni. Lengyel riferisce che «il capo della "Sezione per l'eliminazione degli ebrei" del suddetto partito riusci a evadere dalla prigione durante i giorni di caos a Budapest, e si trova ora negli Stati Uniti».

Ma anche nella piccola città di Helena nel Mon­tana, due «combattenti della libertà», arrivati dall'Ungheria, furono accolti con solenne cerimonia dal Governatore in persona. Poco tempo dopo, li si trovò occupati come crumiri mentre i lavoratori ameri­cani stavano di picchetto davanti a una carpenteria in sciopero. Un giornale locale scrive:

«I funzionari del Locale 2409 [25] si misero immediata­mente in contatto con le autorità religiose che hanno tutela dei rifugiati, ma queste si rifiutarono di intervenire nella spiacevole situazione dichiarando che "il vostro sindacato deve rendersi conto che questi sono combattenti della li­bertà"» [26].

Negli ultimi tempi il Servizio dell'immigrazione del Governo americano ha effettivamente espulso un «combattente della libertà», in seguito alle proteste del Comitato ebraico americano. Si tratta del dr. Odon Mainasi, responsabile della propaganda del regime nazista di Szalasi verso la fine della seconda guerra mondiale: anche costui era «riuscito a eva­dere» dal carcere comunista e aveva combattuto per la libertà e ottenuto il permesso di entrare negli Stati Uniti. Però era troppo notorio, e così, lui al­meno, è stato espulso. Un altro capo del partito delle «croci frecciate», Miklos Serenyi, a quanto sembra la persona di cui parla Emil Lengyel, giunto negli Stati Uniti in circostanze simili, ha tuttora la sua domanda di naturalizzazione sotto esame del­l'Ufficio competente [27].

Ancora recentemente il dr. Richard Saunders, presidente della Save the Children Federation [Unione per l'aiuto all'infanzia], ha dichiarato che molti de­gli adolescenti che si trovano fra i profughi «non sono in nessun senso rifugiati politici», ma, per la maggior parte, «elementi asociali e delinquenti pre­coci». Egli aggiungeva che anche fra gli adulti si trova una larga proporzione di «criminali e avven­turieri», i primi presumibilmente liberati dalle pri­gioni durante l'insurrezione [28].


Indicazioni riguardo all'entrata in Ungheria, su­bito dopo l'inizio dell'insurrezione, di gruppi rea­zionari provenienti dall'estero, oltre a quelle conte­nute in alcuni dei testi già citati, vengono date da molte altre fonti in maniera abbondante e sufficien­temente conclusiva.

Vi è intanto il fatto, già accennato, che per diversi mesi prima dell'ottobre, il confine con l'Austria fu praticamente aperto e che migliaia di turisti entra­rono nel paese, specialmente a partire da agosto. In secondo luogo, è pure un fatto che gli insorti, quasi subito dopo i primi atti di violenza il 23 ottobre, concentrarono i loro sforzi sul tentativo di ottenere il controllo delle zone occidentali del paese: nes­suna resistenza a quest'azione fu opposta dalle forze sovietiche, e il Governo di Budapest, quanto meno a partire dal 27 ottobre, non aveva certamente il potere di intervenire efficacemente in quelle regioni, anche nel caso che lo desiderasse. Alla fine di ottobre non vi era più nessuna forma di controllo di frontiera, mentre il paese stesso - col Governo cen­trale sciolto e ricostituito quasi ogni giorno e ten­dente a spostarsi sempre più verso destra ad ogni nuovo cambiamento - si avvicinava a uno stato di caos, e cominciava a esser preda del terrore bianco.

Così, per esempio, Peter Schmid, nel reportage che abbiamo già ricordato altrove, riferisce di esser entrato in territorio ungherese il 1° novembre, con un autocarro carico di rifornimenti - «cibi, abiti e medicinali», egli scrive - che andava alla città di frontiera ungherese di Sopron direttamente da Zurigo, in Svizzera. Giunti al confine, racconta Schmid,

«Le guardie di frontiera ungheresi non si diedero nep­pure la pena di gettare uno sguardo dentro il camion, ancor meno di controllare il mio passaporto. Il paese era in quella fase anarchica che corre fra la caduta di un regime e l'av­vento di un altro, che non ha ancora preso il suo posto» [29].

Questo, ripetiamo, accadeva il 1° novembre.
Peter Fryer - il corrispondente in Ungheria del Daily Worker inglese, che diede le sue dimissioni dal giornale per il suo netto disaccordo col giudizio della direzione del Daily Worker sulla questione ungherese - pur ammettendo che «il pericolo della controrivoluzione esisteva davvero» stimava che esso non fosse acuto e che gli ungheresi, favorevoli al socialismo in grande maggioranza, avrebbero potuto opporsi da soli con successo a un tentativo di instaurare il fascismo [30]. Ciò nonostante, dichiarava:

«Da alcuni comunisti austriaci ho appreso che prima del 4 novembre circa 2000 emigrati, addestrati e armati dagli americani, avevano attraversato la frontiera con l'Ungheria occidentale per recarsi a combattere e a fare opera di agita­zione» [31].

A nostro giudizio, gli elementi oggi disponibili indicano che la valutazione del numero di queste persone presentate da Mr. Fryer cada alquanto al di sotto della realtà (in accordo con la sua tendenza a minimizzare la minaccia della controrivoluzione, della restaurazione e del fascismo, che ci sembra provata dalle testimonianze raccolte in queste pa­gine). Tuttavia, il fatto che egli citi una cifra di 2000 individui ha un grande valore indicativo, per­ché anche solo questo numero di terroristi reazio­nari, addestrati e armati allo scopo e gettati nel cuore di quella tormenta che era l'Ungheria dopo il 23 ottobre, potevano avere un ruolo decisivo nel tener viva la violenza, il disordine e il panico. Essi potrebbero avere un peso determinante, per esempio, nello spiegare perché siano rimasti in gran parte senza eco i ripetuti appelli a deporre le armi lanciati da radio Budapest, anche e soprattutto dopo che un Governo a schiacciante maggioranza non-comunista aveva assunto il «potere». E potrebbero avere parte decisiva nello spiegare il fenomeno delle squadre volanti di assassini che sterminarono un buon nu­mero di ebrei, comunisti, e altri, comprese intere famiglie, soprattutto nei cinque giorni dal 30 otto­bre al 3 novembre.

Non solo è certo che una corrente di fascisti e di altri reazionari emigrati dilagò al di là della fron­tiera ungherese dopo il 23 ottobre, ma è anche im­possibile dubitare che il fenomeno non abbia avuto essenzialmente un carattere organizzato; è possibile che esso sia stato addirittura coordinato da un unico centro superiore. Inoltre vale la pena di notare, come scrisse il ben noto giornalista di Washington Drew Pearson nella sua colonna per i giornali a catena dell'8 novembre 1956, che «per una strana coinci­denza, praticamente tutti i capi in esilio dei paesi satelliti attualmente domiciliati a Washington sono partiti per Parigi immediatamente prima della ri­volta ungherese». I personaggi citati comprende­vano il polacco Mikolajczyk, il cecoslovacco Osusky, il bulgaro Dimitrov, e Ferenc Nagy, ex-Primo mi­nistro ungherese; scrive Mr. Pearson: «Forse ave­vano un presentimento di quel che stava per ac­cadere».

Naturalmente non si può dire nulla con certezza, e questi personaggi si riuniscono spesso a consiglio. Però è un fatto che essi si sono riuniti in assemblea plenaria, e questa volta alla metà di ottobre a Pa­rigi: è certo anche, come abbiamo mostrato a suo luogo, che essi si incontravano come membri di un «Comitato centroeuropeo» di capi di partiti rea­zionari e borghesi di prima della seconda guerra mondiale, ora in esilio, e che il loro obiettivo era la distruzione del socialismo. È certo infine che Fe­renc Nagy era il presidente del Comitato, e che questo aveva ricevuto un trattamento di simpatia, fervidi incoraggiamenti e sostanziosi aiuti materiali. Sembra dunque inconcepibile che questo gruppo, nel momento in cui si riuniva a Parigi a metà ot­tobre, non fosse connesso in qualche modo oscuro e profondo con gli avvenimenti che stavano scuo­tendo l'Europa orientale.

Si sa che Ferenc Nagy, a Parigi il 28 ottobre, «dichiarò di esser pronto a tornare in patria per mettersi alla testa di un nuovo regime anticomuni­sta». È pure certo che egli, il mattino successivo, arrivò a Vienna, e «di li proseguirà per il confine ungherese», dove «dovrebbe incontrarsi con dei capi della rivoluzione» [32]. Chi egli sia poi riuscito a incontrare (secondo alcuni voci F. Nagy giunse fino alla città ungherese di Gyor), e se sia venuto a capo di qualcosa e come, resta invece ignoto.

Un altro dato certo è che gli Absburgo, che co­minciarono a trasmettere proclami da radio Madrid, e gli Horthy (padre e figlio) che fecero lo stesso da Lisbona, entrarono in azione, insieme ai loro se­guaci. Loro stessi o i loro rappresentanti apparvero a Parigi e a Vienna negli ultimi giorni di ottobre, e non si può dubitare che vi venissero per incorag­giare e sostenere azioni dirette a una restaurazione reazionaria in Ungheria. Quale fosse la loro effettiva influenza, e il numero dei loro seguaci, si può sol­tanto congetturare: ma è fuor di dubbio il loro sforzo di far pesare la prima e mettere in azione gli altri [33].

Subito dopo la fine dell'insurrezione due corri­spondenti americani dall'Europa centrale, Marie e Walter T. Ridder, scrissero da Vienna al loro gior­nale in California che

«Fra le difficoltà che assediarono lo sfortunato Governo dell'Ungheria libera vi fu il fatto che troppi premevano per un ritorno diretto e troppo rapido al sistema di prima della guerra. Costoro sembravano incapaci di attendere, ed eser­citarono un'enorme azione sul Governo Nagy perché re­staurasse senz'altro il vecchio modo di vita.
«Fra quelli che, in un modo o nell'altro, invocavano il ritorno del "buon tempo antico" vi erano anche degli ari­stocratici emigrati, fuggiti nel 1945 mentre i sovietici arri­vavano in Ungheria.
«Come disse sprezzantemente - anche se con una certa esattezza - una dama di Vienna: "L'aristocrazia ungherese sta uscendo da tutti i club notturni d'Europa per correre alla riscossa"» [34] .


È curioso trovare un'espressione assai simile nel Times di Londra del 9 novembre: «C'è qualcosa di macabro nel modo in cui l'aristocrazia ungherese si è precipitata alla riscossa, emergendo da tutti i night-clubs del mondo». Ma il giornale socialista belga Le Peuple scriveva, il 3 novembre : «Questi circoli sognano già una crociata. Tutto è pronto, de­naro e anche armi, si è affermato di recente dalla loro parte».

Però, se tutto ciò ha qualche accento da operetta, non c'era niente che potesse far sorridere nei vete­rani di Szalasi e assassini fascisti bene addestrati che si muovevano a decine di migliaia dai campi della Germania occidentale, e da altri gruppi orga­nizzati in una dozzina di paesi diversi, compresa la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Questi erano per­sonaggi che potevano stare a fianco degli editori di quel giornale emigrato in Germania occidentale che, come il lettore certamente ricorda, minacciava di «tornare per l'attacco finale», nel quale non si sa­rebbe usata misericordia «neanche per i bambini».

Molti uomini siffatti erano arruolati e addestrati in unità «speciali» nel quadro della NATO, o in varie altre strutture organizzative rese possibili da certa legislazione americana; altri si trovavano in diversi organismi spionistici come quelli diretti da Gehlen, o direttamente dalla CIA. Altri ancora, erano inquadrati in organizzazioni paramilitari, co­me la MHBK, associazione internazionale dei vete­rani del fanatico esercito fascista di Szalasi.

Si tratta di questi gruppi nell'articolo di Mirko Bojic sul New Leader del 28 gennaio 1957, dove è detto: «Gli esuli ungheresi dell'Europa occidentale partirono in massa per andare a combattere in Un­gheria» [35]. Quest'autore è un antico seguace di Mikhailovich in Jugoslavia e laureato dell'«Università dell'Europa libera» di Strasburgo. Ma del resto i giornali europei di tutte le tendenze politiche die­dero notizia abbastanza francamente di questo fatto, a cominciare dal viennese Oesterreichische Volksstimme, che il 30 ottobre parlava di «centri di co­mando ben stabiliti» nelle zone di confine, dove agenti di Horthy e altri reazionari «hanno passato la frontiera in questi giorni insieme ad altri pro­fughi ungheresi, per unirsi, a quanto essi stessi af­fermano, agli insorti in patria».

Il giorno successivo la Agence France Presse co­municava : «Si conferma che nella Germania occi­dentale si apprestano febbrilmente formazioni mi­litari, allo scopo di prendere misure politiche le cui conseguenze andranno molto lontane». L'agenzia informava poi che questi gruppi militari erano le­gati a membri del partito delle «croci frecciate» «e con gli ultranazionalisti che si trovano in Austria».

Il campo-profughi di Traunstein, nella Germania occidentale, ospitava in buona parte degli svevi un­gheresi ed ex-soldati di Szalasi: il 24 ottobre costoro cominciarono ad abbandonare il campo diretti in Ungheria, e le partenze continuarono per altri quat­tro giorni. A quanto riferiva la Berliner Zeitung del 20 novembre, il loro compito principale era quello di «indurre a sollevarsi la minoranza nazionale [sveva] in Ungheria» che nel 1956 contava circa 300.000 individui.

Uj Hungaria, organo di gruppi reazionari estremi di emigrati ungheresi in Germania occidentale, di­chiarava il 2 novembre che «battaglioni di volon­tari» erano già stati formati in Inghilterra, Francia, Germania, Austria «e altri paesi d'Europa», ed erano «in viaggio verso l'Ungheria; forse hanno già passato la frontiera».

Abbiamo già ricordato come la situazione di anar­chia rendeva il passaggio del confine ungherese un semplice atto materiale che chiunque poteva com­piere - purché fosse un anticomunista. Queste con­dizioni si riflettono nel caso abbastanza drammatico dell'americano Stuart Whitehill Kellogg del Massa­chusetts, studente all'Università di Bonn con una borsa del Governo per i militari, il quale partì da questa città e, vestito dell'uniforme dell'Esercito ame­ricano entrò in Ungheria e partecipò a scontri ar­mati fra il 2 e il 4 novembre. La cosa divenne pub­blica qualche tempo dopo solo perché il Kellogg era riuscito a tornare nella Germania occidentale e aveva difficoltà per il passaporto [36].

Gli assassini fascisti addestrati che entrarono in Ungheria non venivano solo dall'Europa. Vi è te­stimonianza non sospetta che alcuni fecero perfino il viaggio dagli Stati Uniti, e che anche costoro par­teciparono ad atti di violenza in Ungheria. Verso la fine del 1956 cominciò a pubblicarsi a New York un giornale ungherese di estrema destra chiamato Szabad Magyarsag: nel numero del 21 dicembre tro­viamo un articolo di Hugo Martonfalvy, vice-capo­gruppo dell'MHBK negli Stati Uniti. Dopo aver espresso il suo rincrescimento perché le potenze occidentali non intervennero direttamente con armi e truppe, questo signore scrive:

« Un piccolo gruppo, tuttavia, formato di antichi sol­dati ungheresi, membri dell'MHBK, riuscì a partire per riprendere i contatti con gli insorti, a dispetto di tutti gli ostacoli e i divieti. Il ruolo di questo piccolo gruppo non ha pesato molto, forse, sulla bilancia della situazione, ma esso è divenuto il simbolo della volontà di combattere degli ungheresi nazionali in esilio.
«Il nostro lavoro, durato per anni in silenzio, non si è dimostrato inutile. Allo scoppio della rivoluzione, la nostra direzione cominciò a trattare, e noi eravamo pronti per ogni azione attiva. Si comprende che il nostro lavoro, per la sua stessa natura, deve svolgersi in silenzio e per qualche aspetto in segreto» [37].


A quanto risulta, questi «combattenti della li­bertà» non incontrano difficoltà da parte dell'Ufficio passaporti del Dipartimento di Stato degli USA.

Non solo rifornimenti e combattenti furono man­dati in Ungheria da occidente ma anche altro ma­teriale «speciale». Il lettore ricorderà i manifestini, in lingua russa, che apparvero a Budapest negli ul­timi giorni e che facevano appello ai soldati dell'Ar­mata Rossa perché rivolgessero le armi contro i loro ufficiali, e, in altri casi, perché si unissero agli un­gheresi in una crociata per la «liberazione» dell'U­nione Sovietica. Sembra ora certo che questi mani­festini furono stampati a migliaia a Milano, in Ita­lia, prima di essere introdotti per vie ignote in ter­ritorio ungherese.

In un discorso pubblico fatto a Milano il 20 gen­naio 1957 Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista italiano, fece menzione di questi manife­stini, e dichiarò:

«... Ebbene. Sapete da che parte vengono questi mani­festini? Vengono da Milano... L'Avanti! ha già pubblicato che in un campo presso Lodi è stato trovato un gran pacco pieno di questi manifestini. Ma i nostri compagni hanno anche scoperto che vi è una tipografia a Milano dove si stampano questi foglietti, in carattere cirillico, a decine di migliaia di esemplari, in cui si incita alla ribellione nelle file dell'esercito sovietico. Potrei fornire il nome della tipografia, l'indirizzo e il nome del proprietario...» [38].

Durante l'insurrezione l'imperialismo occidentale inviò alla reazione ungherese, attraverso le sue sta­zioni radio in Germania occidentale e in Austria, tutto quello che si può immaginare dall'ispirazione alle promesse di aiuto con le armi - soprattutto dopo le elezioni presidenziali americane, che dovevano aver luogo il 6 novembre - fino a direttive specifi­che per la condotta delle ostilità già in corso. Se il lettore richiamerà qui alla memoria le origini e la motivazione politica delle iniziative come Radio Europa libera - strumento della «Crociata per la libertà» - e «Voce dell'America», entrambe de­scritte a loro luogo, gli sarà più facile comprendere la portata che potè avere questa invasione radiofo­nica dell'etere ungherese.

Normalmente, Radio Europa libera trasmetteva per l'Ungheria un programma di 20 ore al giorno. Altri organismi, come la radio francese e inglese, la radio vaticana e la «Voce dell'America» avevano pure dei programmi speciali per l'Ungheria, per una durata variabile da 1 ora e mezza a 4 ore e mezza al giorno. Tutti, a partire dal 23 ottobre, estesero grandemente i loro programmi e letteralmente satu­rarono l'aria, per tutti i minuti della giornata, con trasmissioni dirette ad ogni parte dell'Ungheria.

Queste trasmissioni - ma specialmente quelle pro­venienti da Radio Europa libera - chiesero esplici­tamente, prima, il rovesciamento del Governo un­gherese, e poi, senza interruzione, invitarono a pre­mere con sempre nuove richieste sul Governo Nagy.

Esse invocarono insistentemente la continuazione dell'azione armata, promettendo a chiare lettere che importanti aiuti materiali sarebbero presto arrivati dall'occidente. Alcune trasmissioni radio, sembra non direttamente dipendenti da Radio Europa libera, si assunsero il compito di fornire precise direttive tat­tiche di natura squisitamente militare.

Uno degli insorti disse a un giornalista di News­week che, se erano gli ungheresi a condurre i com­battimenti veri e propri «è stata la mano della radio occidentale a indicare dove dovevamo dirigerci e quali richieste dovevamo avanzare» [39]. Togliatti, nel discorso del 20 gennaio 1957 citato poco sopra, di­chiarava :

«Quelli di noi che hanno in questi giorni aperto l'appa­recchio radio, hanno sentito non solo la propaganda, ma gli ordini precisi che venivano dati dalle stazioni radio collocate in Germania e in Austria, a questo o quel determinato gruppo di armati, di assaltare questo o quel determinato edifìcio, di compiere questa o quella azione, di andare a raccogliere carichi di armi in quel punto della frontiera o del territorio. Queste cose le abbiamo sentite tutti...».

Perfino Mr. W. J. C. Egan, direttore di Radio Europa libera, «ammise - a quanto scrive il New York Times - che erano stati commessi alcuni "er­rori"». Uno di questi «errori», a suo dire, fu quello di «trasmettere "con un tono di grande eccitazione e urgente esortazione" delle notizie sui progressi della ribellione riprese da radio clandestine degli in­sorti che erano in funzione in Ungheria». Il New York Times aggiungeva poi che

«Mr. Egan ha osservato che le trasmissioni compiute da altre centrali di propaganda, che andarono molto al di là di quelle di Radio Europa libera e furono confuse con loro dagli ascoltatori ungheresi, costituiscono un problema diverso» [40].

Quello che «andava molto al di là» di Radio Europa libera non poteva essere altro che la trasmis­sione di messaggi del tipo normalmente affidato ai servizi di segnalazione di un'unità combattente, e di cui parla Togliatti. L'emblema di quest'organizza­zione radiofonica va cercato, crediamo, nelle lettere C.I.A. Quanto alla Radio Europa libera, tuttavia, è un fatto che essa diede direttive politiche imme­diate e invocò misure precise, dirette ad affrontare specifici problemi interni ungheresi [41].

Essa trasmise commenti come quello diffuso il 24-X a proposito del discorso del Primo ministro Nagy:

«Il discorso del Primo ministro era piuttosto implorante e compiacente che imperativo, e da questo discorso si può ricavare una conclusione: quanto sia grande la confusione all'interno del Governo stesso. Il Governo e le sue organiz­zazioni armate non sono più padroni della situazione...».

E il 2 novembre, Radio Europa libera argomentava che «non c'è il tempo... per una modificazione gra­duale nella composizione del Governo. Tutti gli elementi la cui semplice presenza ricorda il passato stalinista, e il cui solo nome è una provocazione al paese, devono essere allontanati dal Governo con un'unica decisione...». Chi Radio Europa libera po­tesse avere in mente, che ancora facesse parte del Governo Nagy il 2-XI, non è dato di comprendere - se non era però il Primo ministro medesimo.

Ancora il 7 novembre, quando l'Armata Rossa era tornata a Budapest, e non vi era più segno di re­sistenza armata se non qualche sporadica sparatoria, Radio Europa libera dichiarò: «L'occidente avrebbe potuto far di più per la sua libertà in Ungheria con cinque divisioni che con le cinquecento che ora forse si prepara ad allineare». Il corrispondente di France Soir, tornato da Budapest, dichiarò:

«Le trasmissioni che udivamo da Radio Europa libera, con il loro tono accalorato e i loro disperati incitamenti alla rivolta, causarono certamente molto malanno. "In que­gli ultimi giorni - ci hanno dichiarato numerosi unghe­resi - queste trasmissioni provocarono spargimenti di sangue"» [42].

L'amarezza degli ungheresi per queste promesse ingannevoli e queste provocazioni fu altrettanto gran­de che diffusamente riferita. La cosa giunse al punto che il Governo della Germania occidentale fu co­stretto a promettere un'indagine - anche se poi non se ne è fatto nulla, e Radio Europa libera è di nuovo in piena azione, con le sue migliaia di dipendenti, dozzine di stazioni, e milioni di dollari.

John McCormac, del New York Times, ha dichia­rato che Radio Europa libera svolse un'azione parti­colarmente perniciosa continuando i suoi incitamen­ti dopo che i comunisti erano stati allontanati dal potere, cosicché il Governo ormai essenzialmente bor­ghese non potè trovare un minimo di equilibrio e si trovò di fronte a un ostinato persistere della vio­lenza. Tutta l'azione di Radio Europa libera fu con­dotta in modo tale da sembrare una preparazione della guerra contro l'URSS, per cui «gli ungheresi erano assolutamente convinti che gli Stati Uniti sa­rebbero venuti in loro aiuto contro l'URSS».

Quando questo non si verificò, dopo le trasmis­sioni provocatorie dirette contro il Governo non ­comunista - che in realtà non aveva più alcun po­tere effettivo almeno a partire dal 2 novembre - la cosa apparve come un deliberato tradimento alle forze reazionarie ungheresi che avevano continuato a spingere Nagy sempre più a destra, e che erano direttamente responsabili del terrore bianco e dei pogrom.

John McCormac terminava il dispaccio or ora ricordato, datato da Vienna il 24 novembre, con queste parole:

«Se un giorno la storia considererà gli Stati Uniti col­pevoli di aver ingannato con false speranze un popolo co­raggioso, sembrerà giusto cercare le responsabilità più in alto [che negli strumenti di propaganda]» [43].

In forma alquanto più diretta Walter Ridder, nel­l'articolo surriferito della New Republic, indica i responsabili in questo ordine:

«Il distacco dei paesi satelliti dall'URSS è implicito come risultato ultimo sia nella politica del "contenimento" che in quella della "liberazione". La "Voce dell'America" e Radio Europa libera non parlavano un linguaggio più irre­sponsabile di quello del nostro Governo: soltanto, esse par­lavano più spesso, più insistentemente, e rivolgendosi più direttamente alle persone che erano immediatamente con­nesse con la "liberazione"».

Quest'azione degli strumenti di propaganda del­l'imperialismo occidentale, rivolta in primo luogo a pervertire una pacifica dimostrazione di massa a fa­vore della purificazione del sistema democratico po­polare in un attacco armato diretto a rovesciarlo, continuò poi nel disegno di trasformare questo at­tacco in un'azione generale di terrore bianco. Il terrore bianco doveva essere lo strumento per spin­gere sempre più a destra le forze che avevano messo in crisi il sistema della democrazia popolare, e nello stesso tempo, il mezzo di eliminare fisicamente - proprio come aveva fatto Horthy - quella parte della sinistra che avrebbe potuto opporre una resi­stenza consapevole e organizzata al successo della reazione.

Il risultato fu una svolta a destra eccessivamente rapida, che poneva in realtà ancora una volta, nel cuore dell'Europa, il problema del fascismo e della guerra. Ma proprio così questa svolta divenne troppo netta e andò troppo lontano, perdendo la sua coe­renza politica - e d'altra parte si era nel 1956, non nel 1919, ed essa si compiva, non di fronte alla Rus­sia sovietica appena nata, devastata e debole, ma di fronte alla Unione Sovietica quale essa è ai nostri giorni.

Le testimonianze di questa svolta «troppo rapida e troppo profonda» verso destra sono anch'esse ab­bondanti ed eccellenti. Anche qui, gli elementi fon­damentali sono già stati ricordati più avanti, nella documentazione di quello che fecero e dissero i per­sonaggi dirigenti - fino al discorso culminante del cardinale Mindszenty la sera del 3 novembre - e del modo in cui veniva mutando la composizione del Governo. Un'altra diretta testimonianza, poi, è la stessa apparizione del terrore bianco, il fatto stesso che si delineasse una politica di pogrom, di apertura delle prigioni e di liberazione degli elementi estre­misti di Horthy e Szalasi, e l'avvenuta incorpora­zione nell'apparato del massacro e del terrore di migliaia di emigrati ultrareazionari e di gruppi di assassini professionali.

Altri elementi non trascurabili si ricavano dalle analisi di molti osservatori e testimoni di prima mano, non comunisti.

Il lettore ricorderà che Marie e Walter Ridder, nel loro dispaccio da Vienna pubblicato nel San Jose News del 17 novembre, notavano che la pressione «per un ritorno diretto e troppo rapido al si­stema di prima della guerra» si fosse rivelata insostenibile per l'ultimo governo Nagy; e ricorderà i giudizi abbastanza simili di Peter Schmid e Leslie B. Bain.

Il timore che la situazione si sviluppasse proprio in questo senso fu presente fin dall'inizio dell'insur­rezione in alcuni circoli influenti della capitale ame­ricana. Così James Reston, scrivendo da Washington il 24 ottobre, riferiva una notizia che apparve poi nel New York Times del giorno successivo sotto il ti­tolo «Gli Stati Uniti Temono che i Ribelli Vadano troppo in Fretta». Si osservava a Washington, se­condo Mr. Reston, che, dopo la richiesta di inter­vento del Governo ungherese, l'azione dell'Armata Rossa avveniva tuttavia su scala molto ridotta e limi­tatamente alla città di Budapest: e si sperava che «il ritmo e gli aspetti antisovietici degli eventi unghe­resi» non fossero tali da spingere l'Unione Sovietica ad agire con maggior vigore. L'essenziale, scriveva sempre Reston, era che «quello che il Governo ame­ricano deve fare secondo le regole della prudenza è seguire attentamente gli sviluppi della situazione e tenersi fermo». Naturalmente, a pochi giorni dal termine per le elezioni era difficile, per i personaggi più in vista, «tenersi fermi»: ciò nonostante, con­cludeva Reston,

«Il giudizio delle persone meglio informate, a Washing­ton, è che qualunque cosa gli Stati Uniti facciano, va fatta con discrezione, e senza proclamare che la nuova situazione si è creata per opera loro».

Bruce Renton, corrispondente da Budapest della rivista londinese New Statesman and Nation - che criticò appassionatamente l'intervento sovietico in Ungheria, e giudicava il pericolo della controrivolu­zione un'invenzione comunista - riferisce nondi­meno che un seguace di Nagy, poco prima del 4 novembre, gli aveva detto «nell'ufficio del Primo ministro... " la tragedia è che la rivoluzione ha sor­passato i suoi scopi, ed è finita nelle mani della de­stra"» [44].

Similmente Leslie B. Bain, già ricordato, e le cui simpatie politiche sono probabilmente più conserva­trici di quelle di Mr. Renton, racconta di un'inter­vista che egli ebbe il 4 novembre a Budapest con Bela Kovacs, l'antico capo dei «piccoli proprietari» e membro del Gabinetto ristretto dell'ultimo Go­verno Nagy. Si ricorderà che Kovacs era stato de­scritto da George N. Shuster come fervente ammi­ratore e seguace del cardinale Mindszenty: ebbene, anche Kovacs disse a Bain : «siamo andati troppo in fretta e troppo lontano».

Bain chiese allora al «piccolo proprietario» se­guace di Mindszenty se non pensasse che la conti­nuazione di questo «troppo presto e troppo lonta­no» avrebbe presentato il pericolo di «un nuovo regno del terrore bianco. Egli ammise - continua Bain - che ci sarebbe stata questa possibilità», pur pensando che nessuno sarebbe riuscito a riprendere le terre ai contadini e le fabbriche agli operai e a conservarle. Però:

«politicamente, vi sarebbe stata la probabilità di uno sviluppo deciso verso destra, ma, mancando del potere eco­nomico, gli estremisti sarebbero stati ridotti al silenzio in pochi mesi» [45].

Non è questa la prospettiva di una guerra civile su vasta scala? E tale era il giudizio di un «piccolo proprietario» per cui lo spostamento ancora più a destra era «una probabilità», e «estremisti» erano coloro che si trovano alla destra del cardinale Minds­zenty!

Kovacs disse ancora qualcosa al giornalista ame­ricano, nel definire il suo «troppo in fretta e troppo lontano» :

«Vorrei che poteste convincere l'occidente, e indurlo a tenere i reazionari fuori dal nostro gioco. Molti degli esiliati che gli americani sostengono sono uomini bollati dai loro crimini di guerra. Alcune delle voci che giungono fino a noi, specialmente attraverso Radio Europa libera, non tro­vano buona accoglienza nel paese. Comprendo bene l'ardore degli americani, desiderosi di combattere il comunismo, ma questo non è il modo migliore di farlo».

Sullo sviluppo troppo rapido e troppo netto verso destra, ancora gettano luce particolarmente signifi­cativa gli elementi riferiti da Edmond Taylor, cor­rispondente dall'Europa di The Reporter. Nel nu­mero del 27 dicembre 1956 di questa rivista, Mr. Taylor scrive che, verso il 28 ottobre, egli aveva «appreso da una fonte ufficiale americana in Euro­pa, assai degna di fede, che la tendenza del nuovo regime ungherese a procedere troppo rapidamente continuava a destare preoccupazione». Anzi, ci dice Taylor, «l'incaricato d'affari americano [a Budapest] ricevette l'istruzione di chiamare Nagy e raccomandargli di mantenere un atteggiamento almeno un po' critico verso l'occidente, finchè le forze sovietiche non avessero sicuramente abbandonato il paese"

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NOTE

1. Corsivo nostro.
2. New York Times Book Review, 3 marzo 1957. Il libro del Michener è apparso a New York nel 1957.
3. V. per esempio, nel New York Times del 16 agosto 1956, la notizia di un larghissimo afflusso di turisti in Ungheria nelle ultime settimane, specialmente provenienti dall'Austria.
4. A Varsavia il Trybuna Ludu, organo del POUP, il 28 ottobre, indicando l'origine della sollevazione «prima di tutto negli errori, distorsioni e perfino delitti del passato», osservava però che «l'abo­lizione del potere popolare in Ungheria, indipendentemente dalle cause della crisi attuale e dalle intenzioni dei partecipanti al movi­mento, sarebbe una tragedia spaventevole non solo per l'Ungheria stessa, dove il risultato sarebbe un nuovo regno della dittatura dei magnati e dei capitalisti, ma rappresenterebbe anche una minaccia per la pace».
5. La frase di Mindszenty si trova a p. 46 del volume intitolato The Revolt in Hungary, October 23, 1956 - November 4, 1956, based exclusively on internal broadcast! by central ani provincial radios, pubblicato dalla «Commissione per l'Europa libera», New York 1956. Si tratta di un'organizzazione che fa parte della «Crociata per la libertà».
6. V. New York Times, 1° novembre 1956.
7. Val la pena di ricordare qui che il 31 ottobre l'Inghilterra e la Francia cominciarono il bombardamento dell'Egitto, e che il 1° no­vembre le loro truppe invadevano il territorio egiziano.
8. Cit. in The New Republic, 26 novembre 1956.
9. The New Leader, 11 febbraio 1957.
10. Sic. Gomulka non era Primo ministro, ma segretario del POUP N.d.T.
11. Peter Schmid, un giornalista svizzero che fu a Budapest durante l'insurrezione, scrive sulla rivista violentemente anticomunista Com­mentary: «Anche gli anticomunisti riconoscevano che il discorso del cardinale Mindszenty, coi suoi toni reazionari, era una catastrofe». (Numero del gennaio 1957, p. 32).
12. Pp. 79-80.
13. New York Times, 3 novembre 1956.
14. The Commonweal, 14 dicembre 1956, p. 280.
15. The Reporter, New York, 15 novembre 1956, p. 21.
16. Pubblicato nel New York Times, 1° novembre 1956.
17. Stessa fonte.
18. Corrispondenza al New York Times, 1° novembre 1956.
19. World Trade Union Movement, Londra, dicembre 1956, p. 20.
20. Lo stesso Mr. Schmid, del resto, scrive verso la fine del suo articolo che «la rapidità con cui gli uomini politici dell'anteguerra ricostituirono i loro vecchi partiti e ripresero le loro contese, come se in tutti gli anni trascorsi non fosse accaduto assolutamente nulla, induce a chiedersi se la rivoluzione non fosse in pericolo di deviare e sboccare in definitiva nella restaurazione». (p. 33).
21. Cit. in New York Times, 15 febbraio 1957.
22. Utili notizie su questo aspetto dell'insurrezione si trovano nel giornale ebraico canadese Vochenblatt, numero del 3 gennaio 1957, per opera di J. Gershman.
23. Riportato nel New York Times, 15 gennaio 1957.
24. Hands [mani] indica in inglese gli operai in quanto forza lavoro del padrone dell'impresa. Si è conservato questo termine espres­sivo. [N.d.T.].
25. Cioè, dell'ufficio locale del sindacato. [N.d.T.].
26. The People's Voice, Helena, 8 febbraio 1957.
27. New York Times, 7 marzo 1957; New York Post, 11 marzo 1957.
28. New York Times, 4 marzo 1957.
29. Commentary, gennaio 1957, p. 25.
30. Le tesi di Mr. Fryer sono esposte nel suo breve volume The Hungarian Tragedy, Londra, 1956.
31. Daily Worker (Londra), 16 novembre 1956.
32. New York Times. 29 ottobre 1956.
33. All'interno dei circoli emigrati vi sono naturalmente divisioni politiche di destra ed estrema destra. Così, il 7 gennaio 1957 si ebbe notizia da Strasburgo che Ferenc Nagy, Paul Auer e Hadji Nemeth avevano dato le dimissioni dal Comitato degli esuli unghe­resi di New York perché in esso prevalevano elementi «che sperano di restaurare il regime di Horthy o la Monarchia absburgica». (New York Post, 8 gennaio 1957).
34 . San Jose News, 17 novembre 1956.
35. Loc. cit., p. 14.
36. New York Post, 1° febbraio 1957; New York Times, 28 feb­braio 1957.
37. In novembre, i maggiori giornali di Toronto pubblicarono an­nunci a pagamento di una «Organisation for Hungary», presieduta da certo A. Kovari, e che chiedevano sovvenzioni e volontari «pron­ti ad accettare la disciplina militare» allo scopo di «aiutare atti­vamente» in Ungheria. V. la narrazione della faccenda in Canadian Tribune, 17 dicembre 1956.
38. L'Unità, Milano, 21 gennaio 1957. [L'Autore cita dal testo dato in inglese nel World News di Londra, 9 febbraio 1957, p. 86]. [N.d.T.].
39. Newsweek, 12 novembre 1956.
40. New York Times, 24 gennaio 1957.
41. Esempi di queste trasmissioni sono dati da Walter Ridder in The New Republic, numero del 17 dicembre 1956, p, 12.
42. Cit. in The New Republic, 26 novembre 1956, p. 4.
43. New York Times, 25 novembre 1956.
44. 17 novembre 1956, p. 614.
45. The Reporter, 13 dicembre 1956, p.14.