Il «frutto proibito» dell'economicismo

di Mikhail Antonov

Dalla rivista «Moskva» (n.3, 1988). L'autore, che dirige un settore dell'Istituto di Economia Mondiale e Relazioni Intemazionali dell'Accademia delle Scienze, attacca l'accademico Aganbeghjan e gli «ideologi» di un nuovo modello di sviluppo. Da "Perestrojka, amici e nemici", Editrice l'Unità, 1988, pp. 70-74.


L'accademico Aganbeghjan ha criticato la stagnazione da cui è stata dominata la scena economica sino alla metà degli anni '80 e ha tracciato i programmi di accelerazione dello sviluppo del paese. La via d'uscita, a suo avviso, sta nella crescita dell'inte­resse materiale dei lavoratori e nella saturazione del mercato con tutte le merci necessarie a controbilanciare la massa di rubli in circolazione. In altri termini le sue considerazioni puntano sull'«homo economicus», che vive secondo il principio «più lavori, più guadagni, meglio vivi». Ma l'uomo non somiglia affatto a questo «modello teorico». E allora anche le conclusioni dell'accademico appaiono discutibili. Il concetto di «homo economicus» richiama anche un altro ragionamento: «Più meriti ha l'individuo, tanto più è pagato. Più soldi ho, più sono prezioso per la società. Allora debbo avere più danaro possibile e diventare un eroe del nostro tempo». Così pensano e agiscono moltissime persone, convinte di «saper vivere», e disprezzano chi ha come unica fonte di reddito il suo modesto salario (e da noi quasi tutti hanno un salario modesto) e nel tempo libero preferisce arricchire lo spirito.

I dati di numerosi sondaggi rivelano che soltanto il 25-35% dei lavoratori si applicano come potrebbero. Questo calo di impegno non va forse attribuito a ragioni ben più profonde del puro meccanismo economico o dei metodi di gestione? Perché il lavoratore non vuole impegnarsi a fondo e con il massimo senso di responsabilità? Come mai, invece, negli anni dei primi piani quinquennali gente non sempre sazia, con abiti fuori moda e «attrezzature tecniche» come la vanga, il piccone e la carriola ha costruito la Turksib e Magnitka, Kuznetsk e Komsomolsk sull'Amur a ritmi che ai nostri contemporanei muniti di potenti scavatrici e bulldozer sembrano inverosimili? Quegli uomini non lavoravano semplicemente per la pagnotta, come suol dirsi; costruivano un mondo nuovo, visibile non solo nei sogni ma quasi tangibile, come se fosse già lì, a portata di mano, e l'entusiasmo cancellava la fatica del lavoro.

La causa principale della stagnazione non sta nel meccani­smo economico e neppure nei metodi di gestione, ma nella perdita di quel sentimento di partecipazione ai destini storici della Patria, di quella sensazione precisa di essere i padroni della produzione e i padroni del paese. I grandi ideali trasmet­tono ai popoli un'energia inimmaginabile che innalza i tassi di sviluppo a livelli ritenuti forse irraggiungibili al giorno d'oggi. Senza motivazioni ideali si possono investire nello sviluppo centinaia di miliardi di rubli, che però si perdono come l'acqua nella sabbia, lasciandosi dietro opere incompiute, scavi abban­donati, terreni deserti, fiumi, laghi e mari contaminati.

E' sorprendente che l'accademico Aganbeghjan definisca accelerazione l'aumento dei tassi di crescita del reddito nazio­nale dal 3 al 4% in questo quinquennio e addirittura del 5% nel prossimo! Come si fa a non capire che con una simile «accelerazione» ci toccherà «inseguire e raggiungere» i paesi capitalistici avanzati per lo meno fino alla metà del duemila, continuando peraltro a sbandierare la superiorità del sociali­smo. Nei documenti del partito si è più volte detto che ancora non abbiamo analizzato a fondo, scientificamente, la società in cui viviamo, né saputo cogliere la molla capace di assicurarle un autentico decollo e una crescita di efficienza produttiva di alcune volte, anziché di qualche punto. Non l'abbiamo saputa cogliere perché i più autorevoli studiosi, formatisi negli anni della stagnazione e artefici essi stessi di questa stagnazione, restano subalterni all'ideologia dell'«economicismo», contagiando anche noi.

I teorici dei «rapporti mercantili» affermano che negli anni '20 si sarebbe dovuto andare avanti sulla via della Nep indicata da Lenin. Ma noi, obbedendo incomprensibilmente al volonta­rismo di Stalin, smantellammo la politica leniniana del «sociali­smo abbinato al calcolo economico», sostituendola con un sistema di gestione prettamente amministrativo. Basta perciò ripristinare i princìpi della Nep, sviluppare senza limiti i rapporti monetari-mercantili e tutto tornerà a posto.

In realtà le cose sono molto più complesse. Secondo Lenin, la Nep non era affatto lo sviluppo idilliaco del «socialismo abbinato al calcolo economico», ma una forma di lotta di classe acutissima e senza compromessi. Nella sua saggia e cauta ricerca di nuove vie di sviluppo del paese, egli, che univa fermezza e coraggio politico, non trascurò i tentativi di restaura­zione del capitalismo e riflettè a fondo sulle condizioni atte a scongiurare questo pericolo. Introdurre nelle imprese statali il cosiddetto calcolo economico equivaleva, secondo lui, ad intro­durvi «princìpi in gran parte commerciali e capitalistici». Il quadro dell'inizio degli anni '20 era dunque questo: princìpi di funzionamento delle imprese statali in larga misura capitalistici (inevitabilmente accompagnati, come fece osservare lo stesso Lenin, «a interessi di dicastero ed a un eccesso di solerzia dicasteriale»), libero commercio, capitalismo dei nepmen, con­trollo dello Stato. Tale quadro, quanto mai lontano dalla visione idilliaca del «socialismo abbinato al calcolo economico», presupponeva una lotta mortale tra capitalismo e socialismo. Inoltre, i princìpi capitalistici non si affermarono solo nello strato degli imprenditori privati della Nep, ma gradualmente germogliarono anche tra i contadini e nel comportamento delle imprese statali autonome.

È del tutto evidente che anche ai nostri giorni un'espansio­ne sfrenata dei rapporti monetari e mercantili finirebbe per porre gli stessi problemi, ovviamente nelle mutate condizioni storiche. Gli ideologi di questo modello di sviluppo non voglio­no vedere tutto ciò e così, quando accusano (per molti versi giustamente) i nostri attuali dirigenti economici per la loro insufficiente preparazione, essi stessi dimostrano a ogni pie' sospinto la loro immaturità politica e un'estrema leggerezza rispetto a questioni assai serie. Solo dei «teorici a tavolino», lontani dal popolo, a esempio, possono tranquillamente parlare di disoccupazione dosata. Quando qualcuno arriva a parlare di «zone economicamente libere», la cosa appare addirittura offensiva per un paese che è una grande potenza industriale. Ove i lacci amministrativi ed economici che impediscono al popolo di dare il massimo rendimento venissero sciolti, i lavoratori sarebbero in grado di riempire in breve tempo il mercato di ottimi prodotti alimentari e beni di largo consumo, di produrre ogni sorta di impianti modernissimi senza patroci­natori stranieri. Gli entusiasti delle joint-ventures dovrebbero prendere in considerazione l'esperienza di alcuni paesi socialisti che, intrapresa questa strada, sono stati investiti da tante nuove preoccupazioni, restando oltre tutto impigliati alla rete dei monopoli occidentali senz'aver potuto neppure accedere alle tecnologie avanzate.

Senza dubbio è indispensabile elevare la qualità e la competitività delle nostre merci, ma prima bisogna rimettere ordine nell'economia. Se adesso apriamo il nostro mercato ai prodotti dei paesi capitalistici c'è il rischio che l'Urss diventi un'appendice economica delle multinazionali. Mentre i fautori dei metodi amministrativi di gestione si sono mostrati incapaci di utilizzare l'enorme potenziale economico del nostro paese, i paladini della «cooperazione internazionale» (come la vorreb­bero loro) sono semplicemente schierati su posizioni capitolarde, se vogliamo chiamare le cose col loro nome.

L'idea che nel socialismo, così come nel capitalismo, l'economia debba essere autoregolata è ancora molto diffusa. Ma gli equilibri produttivi imposti dagli automatismi del mercato avvengono alle spalle dei produttori attraverso crisi, fallimenti e disoccupazione. Noi non abbiamo bisogno di un'e­conomia autoregolata, bensì dell'autogoverno della società, dove sia l'uomo a dirigere l'economia. A tal fine bisogna innanzi tutto stabilire la priorità degli obiettivi politici e sociali rispetto a quelli economici. I piani di sviluppo debbono prefiggersi il miglioramento della situazione demografica, l'aumento della durata media della vita e il rafforzamento della salute, finaliz­zando i compiti economici a questi traguardi. È necessario garantire un livello minimo di qualità della vita, che contempli limiti massimi di concentrazione di fattori inquinanti; occorre equiparare le condizioni di vita su tutto il territorio del paese, senza monetizzare perdite di salute o l'accorciamento dell'esi­stenza.

In tutto il mondo si discute oggi di «qualità della vita». Noi possiamo ampliare i contenuti di questo concetto. Non dobbia­mo parlare soltanto di comfort ed ecologia, ma anche della qualità della persona umana, della natura dei suoi interessi e delle sue preferenze. È auspicabile che aumenti il numero dei cittadini non solo istruiti, ma in possesso anche di una cultura e una civiltà autentiche, e diminuisca quello degli adoratori dei feticci.

Questo nuovo tipo di sviluppo è concepibile soltanto sulla base del sistema socialista di cooperazione, a un grado di civiltà qualitativamente diverso. Nella società borghese, come afferma­va Lenin, la cooperazione ha assunto un carattere prevalente­mente mercantilistico. Tale è rimasta anche nel periodo della Nep e tale rimarrà nel socialismo, se non si salderà a una civiltà superiore e alla rivoluzione culturale.