Luciano Gruppi

Democrazia, riforme
e problema del potere

Si tratta della ottava lezione tenuta da Luciano Gruppi all'Istituto Gramsci di Roma tra il 13 marzo e il 3 maggio 1974 'sui caratteri della strategia della via italiana al socialismo nella concezione e nell'azione di Palmiro Togliatti'. Il testo è tratto da: Luciano Gruppi, Togliatti e la via italiana al socialismo, Editori Riuniti, Roma, ottobre 1974, pp. 191-218.


  «È posta in Italia, da tutto lo sviluppo economico e sociale, la necessità di una rivoluzione socialista. Questo risulta dal peso che il capitalismo industriale e agrario ha nella economia, dal passaggio evidente del capitalismo italiano, sin dal primo decennio di questo secolo, alla fase dell'imperialismo, dal particolare rapido processo di con­centrazione capitalistica, dal sopravvento dei grandi gruppi monopolistici nella direzione della vita economica, dalla parte sempre più grande che la classe operaia e la sua coscienza socialista assumono nella vita del paese.» [1]

   Cosi inizia il quinto paragrafo degli Elementi per una dichiarazione programmatica del Partito comunista ita­liano, approvati nel '56 dall'VIII Congresso, e noti più semplicemente come Dichiarazione programmatica.

   Anche se questo testo, che costituisce da allora il programma del Partito comunista italiano, è il documento collettivo di tutto il congresso, si può tuttavia considerare la Dichiarazione programmatica anche come una delle opere di Togliatti, poiché essa fu da lui concepita e scritta si può dire interamente, anche se poi essa accolse emen­damenti, proposti sia dal dibattito che si svolse nella com­missione del Comitato centrale incaricata di redigere questo documento, sia nelle successive discussioni con­gressuali.

   È posta dunque, dalla situazione oggettiva del nostro paese, la necessità della rivoluzione socialista. Il che vuol dire che nessuno dei problemi di sostanza della vita na­zionale, a cominciare dalla questione meridionale per andare a quella dell'agricoltura, dell'emigrazione, della disoccupazione, dell'emancipazione femminile e così via, può essere risolto veramente e compiutamente al di fuori di una soluzione socialista.

   Da allora questa affermazione si è fatta ancora più vera, non solo perché tutti i problemi che enumeravo sono diventati più acuti, ma altri si sono aggiunti, come quelli dell'ambiente naturale, della scuola, dell'assistenza sanitaria, dei trasporti, ecc. Sicché si può dire che, non a caso, tutti abbiano parlato, al momento del blocco dei rifornimenti di petrolio, della crisi e del fallimento di un «modello» di sviluppo della nostra società, ed Enrico Berlinguer, in una sessione del Comitato centrale abbia potuto parlare della necessità di introdurre, fin da ora «elementi di socialismo» per la soluzione di alcuni dei problemi che ci stanno di fronte.

   Il problema è dunque di adeguare l'elemento sogget­tivo - lo schieramento delle forze politiche e la coscienza delle masse - a questa necessità oggettiva. Bisogna inoltre considerare che tale necessità obiettiva di socialismo si pone in un paese uscito dal fascismo - in cui la democrazia deve essere rafforzata -, inserito in un'area politica dominata dall'imperialismo, il quale dà forza e sostiene i processi di concentrazione monopolistica. E il dominio di questi gruppi si pone in un paese in cui tale sopravvento del capitalismo monopolistico ha te­nuto in piedi elementi di arretratezza economica, sociale e culturale; ha mantenuta aperta la minaccia fascista, o comunque di tentativi reazionari e autoritari.

   Sicché, se è sempre vera l'affermazione di Lenin che al socialismo non si può marciare «... per un cammino che non sia quello della democrazia politica» [2], ciò è ancora più vero per l'Italia.

   Qui le minacce eversive della destra, i tentativi di ritorni reazionari, la spinta a spostare a destra l'asse politico del paese esigono che la classe operaia proponga a tutte le forze popolari un'ampia piattaforma demo­cratica, operi per una politica di larghe alleanze. Qui il dominio monopolistico può essere isolato e battuto solo se, contro i monopoli, si raccoglie un ampio schieramento di ceti medi, il che può avvenire soltanto sulla base di rivendicazioni democratiche.

   Si stabilisce perciò da noi uno stretto nesso, direi un intreccio, tra democrazia e socialismo. Qui più che mai vale una proposizione della Risoluzione della conferenza mondiale dei partiti comunisti del '60 che dice: «I comu­nisti considerano la lotta per la democrazia parte inte­grante della lotta per il socialismo» [3].

   In questo nesso tra democrazia e socialismo sta l'es­senza della «via italiana al socialismo». Questo nesso è offerto, direi imposto, sia dalla storia passata e recente, sia dalla concreta situazione in cui oggi operano i comu­nisti. È offerto in modo particolare dal fatto che la classe operaia, con il suo partito di avanguardia, ha assunto quella funzione nazionale, che oggi la caratterizza, nel corso della guerra di liberazione antifascista; ha difeso tale funzione in questi anni, con la lotta antifascista e democratica. Il momento democratico assume l'enorme rilievo attuale proprio per il carattere antifascista della lotta operaia in Italia, e per il fatto che, per questa ragione, l'antifascismo è elemento essenziale della rivo­luzione democratica e socialista nel nostro paese.

   Viene così ripreso dal PCI un elemento essenziale del leninismo. Lenin diceva: «Noi abbiamo condotto la rivoluzione democratico borghese fino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza e inflessibilità, verso la rivoluzione socialista, sapendo che essa non è separata da una muraglia cinese dalla rivo­luzione democratico borghese» [4]. Lenin osservava che il momento democratico e quello socialista si intrecciano e la rivoluzione democratica apre la strada a quella socia­lista, mentre la rivoluzione socialista completa quella de­mocratica [5].

   In questo quadro si colloca la lotta del PCI per la Costituzione, la sua difesa e la sua attuazione.

   Abbiamo già visto quale sia il carattere di tale Costi­tuzione: democratico avanzata, ma ancora borghese, e tuttavia non più borghese nel senso classico della parola, per il limite che essa pone all'esercizio della proprietà privata.

   Proprio perché la Costituzione prevede e prescrive riforme atte a limitare e colpire il dominio monopolistico, vale a dire l'asse intorno a cui ruota il sistema capita­listico oggi, il principale nemico della classe operaia e il maggiore ostacolo sulla via del socialismo; proprio per­ché la Costituzione prevede il decentramento del potere statale e l'accesso dei lavoratori alla direzione dello Stato, la Dichiarazione programmatica può dire: «La Costitu­zione repubblicana, pur distinguendosi dalle costituzioni di tipo socialista, sia per il suo contenuto sociale, sia perché non prevede una democrazia direttamente artico­lata sulle basi della produzione... pone in essere alcune condizioni che possono, ove siano realizzate, favorire que­sto accesso [dei lavoratori alla direzione dello Stato] e consentire un notevole ampliamento della società nazio­nale sulla strada della sua trasformazione in senso so­cialista» [6].

   Ecco dunque porsi un rapporto dialettico nuovo fra democrazia e socialismo, proprio attraverso la Costituzione. Ciò è dovuto a due fatti: primo, la Costituzione, essendo democratica, anche se non varca i limiti borghesi della democrazia, è, per questo stesso fatto, orientata in senso antimonopolistico. È una Costituzione democratica in un'epoca in cui lo sviluppo del capitalismo non pro­muove la democrazia, ma tale sviluppo, essendo giunto alla fase monopolistica, si volge invece contro la democrazia e minaccia gli stessi istituti democratici borghesi tradi­zionali. Il fascismo lo prova; lo prova, sia pure in modo diverso, il gollismo; lo provano, in questi anni, tutti i tentativi operati dalla Democrazia cristiana o di colpire direttamente la democrazia e la Costituzione, o di svuo­tarle dei suoi contenuti reali.

   Secondo, è oggi la classe operaia quella che ha preso nelle proprie mani, per impiegare un'immagine usata da Stalin nel suo saluto al XIX Congresso del PCUS, la bandiera della libertà e della democrazia, lasciata cadere dalla borghesia. È ciò che ha fatto concretamente la classe operaia nella guerra di liberazione antifascista e in tutti gli anni successivi, contro gli attacchi scelbiani alle libertà, contro la «legge truffa», contro il tentativo di colpo di Stato di Tambroni nel '60, e fa oggi contro i tentativi eversivi e i tentativi di spostare a destra la vita politica italiana.

   Si è insomma verificata appieno quella situazione che Engels prevedeva quando, nel 1895, dopo aver illustrato l'uso efficace che ai suoi tempi la classe operaia francese e quella tedesca facevano del suffragio universale e delle istituzioni democratiche, esclamava: «L'ironia della storia capovolge ogni cosa. Noi, i rivoluzionari, i "sovversivi" prosperiamo molto meglio coi mezzi legali che coi mezzi illegali e la sommossa. I partiti dell'ordine, come essi si chiamano, trovano la loro rovina nell'ordinamento legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente: la legalità è la nostra morte. Mentre noi, in questa lega­lità, ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti e prosperiamo che è un piacere. E se non commetteremo noi la pazzia di lasciarci trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non rimarrà a loro altro che spezzare questa legalità divenuta loro cosi fatale» [7].

   Ritornerò su queste affermazioni di Engels. Per ora, mi limito ad osservare che ciò che Engels dice è tanto più valido oggi, in quanto egli si riferiva a tempi in cui la legalità democratica era stata stabilita sotto l'egemonia della borghesia, mentre oggi la legalità democratica è il risultato di una lotta di liberazione guidata dalla classe operaia, e forza dirigente nella lotta per la democrazia, la sua difesa, il suo sviluppo, non è più la borghesia ma il proletariato.

   Ecco allora il nesso che la Dichiarazione programma­tica stabilisce tra la lotta rivoluzionaria della classe ope­raia e le istituzioni democratiche da essa conquistate e difese: «Gli istituti democratici possono venire svilup­pati come base effettiva di un regime che, facendo fronte ai tentativi sovvertitori dei gruppi monopolistici, e ta­gliando le basi del loro potere, avanzi verso il sociali­smo» [8]. Di qui la funzione e l'importanza delle autonomie locali, delle regioni. Di qui le possibilità nuove che si aprono per il parlamento.

   «Il regime parlamentare, il rispetto del principio della maggioranza liberamente espressa, il metodo definito dalla Costituzione per assicurare che le maggioranze si formino in modo libero e democratico, sono non soltanto com­patibili con l'attuazione di profonde riforme sociali e con la costruzione di una società socialista, ma agevolano e assicurano, nelle condizioni di oggi, la conquista della maggioranza dei partiti della classe operaia, il contatto e la collaborazione con altre forze sociali e politiche, l'av­vento di una nuova classe dirigente, in seno alla quale la classe operaia sia la forza determinante.» [9]

   Queste affermazioni vennero riprese, confermate, ma anche precisate ed approfondite nei successivi congressi.

   Per ora, mi basta osservare che da questa imposta­zione derivano due conseguenze. La prima è che noi pro­poniamo una linea democratica e quindi anche pacifica, cioè non insurrezionale, di sviluppo verso il socialismo. Non si ignora certo ciò che Engels aveva visto con acu­tezza [10]: che quando le classi dominanti vedono la lega­lità democratica volgersi contro di loro, e favorire l'ascesa dei lavoratori, esse sono mosse a spezzarla. Una trasfor­mazione democratica e socialista della società italiana non può compiersi in modo indolore, senza profonde crisi ed acuti scontri. Essa ha sempre alla sua base la lotta di classe e il movimento delle masse.

   Ma si dice, nella Dichiarazione: «Le condizioni odierne sono tali che la violenza di queste classi può essere impedita dalla attiva adesione della schiacciante maggioranza della popolazione agli istituti democratici, dalla riforma delle strutture economiche, dalla lotta di massa dei lavoratori» [11].

   Luigi Longo insisterà su questo tema nel suo inter­vento alla conferenza mondiale dei partiti comunisti del '60, affermando che tanto più la classe operaia sa bat­tersi con coerenza per la democrazia, tanto più essa riesce a isolare i gruppi eversivi, ad impedir loro di scendere sul terreno della violenza, e a batterli con i loro stessi mezzi se ciò fosse necessario.

   Non si scorda dunque mai la possibilità che lo svi­luppo della democrazia verso il socialismo possa scontrarsi con la violenza delle forze reazionarie nazionali ed inter­nazionali, ma si sottolinea che, in uno scontro di questo tipo, le condizioni della vittoria popolare sono essenzial­mente politiche prima che militari. È quanto osservava Engels, in quel suo scritto che già ricordavo, e come prova l'esperienza della Rivoluzione di ottobre che giunge alla vittoria del 7 novembre quando gran parte dell'eser­cito è ormai passata dalla parte del proletariato e dei bolscevichi.

   La possibilità di uno sviluppo verso il socialismo col metodo democratico trova le sue basi non nella astratta garanzia giuridica di istituti democratici, dietro i quali la classe operaia si porrebbe al riparo e che la borghesia rispetterebbe. Tale possibilità si trova invece nella forza che deriva alla lotta di classe del proletariato dal fatto che essa si congiunge strettamente alla funzione degli isti­tuti democratici, alla Costituzione, e trova, su questa base, ampiezza di consensi, nuove possibilità di alleanze, nuove possibilità di isolare e battere le forze eversive e rea­zionarie.

   La seconda conseguenza è che tale lotta democratica può avanzare verso il socialismo se essa non si limita alla difesa e all'esercizio delle libertà, ad attuare una piena funzionalità degli istituti democratici, ma si pone altresì obiettivi di riforma che siano tali da investire il potere statale, il modo accentrato e burocratico in cui esso è organizzato, per decentrarlo e avvicinarlo al popolo. Si pone obiettivi di riforme economiche e sociali tali da limitare e colpire il potere monopolistico, da limitare la proprietà agraria, da incidere insomma sui rapporti di proprietà, spostando a questo modo, alla base, i rapporti tra le classi, i rapporti di forza sociali e politici.

   Ecco dunque che la libera formazione della maggio­ranza, assicurata dalla Costituzione, il formarsi di una maggioranza nuova, entro la quale la classe operaia assu­ma una funzione dirigente, non appare come il risultato di una pura e semplice competizione elettorale, di una pura e semplice vicenda parlamentare, ma come l'esito di trasformazioni già compiutesi nell'assetto di base, eco­nomico e di classe, della società. Come risultato di pro­cessi sottoposti sì alla sanzione parlamentare, ma irre­versibili nella loro natura di fondo, o difficilmente reversibili, perché si compiono nella struttura economica e sociale, e non solo e non essenzialmente a livello par­lamentare.

   La lotta per le riforme si presenta dunque come ele­mento essenziale di uno sviluppo della democrazia verso il socialismo che non si limiti all'aspetto formale della democrazia medesima, ma abbia di mira i suoi contenuti sociali, e la veda progredire, in quanto tale, proprio perché capace di sostanziarsi di contenuti sociali più avanzati e portare alla direzione dello Stato le forze lavoratrici.

   Ecco allora la trasformazione delle strutture non es­sere rinviata al momento in cui scocca l'ora della rivolu­zione socialista (e come farla scoccare?), ma essere il risultato di tutto un processo.

   «I comunisti sanno - si scrive nella Dichiarazione - che una compiuta trasformazione in senso socialista delle strutture, e con essa la soluzione delle fondamentali con­traddizioni interne della nostra società possono essere realizzate soltanto con la conquista del potere politico da parte della classe operaia e dei suoi alleati. Ma nei rap­porti di forza in atto tra le forze del proletariato, del popolo e del progresso e quello dello sfruttamento e della reazione, di fronte alla urgenza dei problemi del lavoro della terra, della miseria, i comunisti dichiarano aperta­mente che lo smantellamento delle più arretrate e pesanti strutture della società italiana, e l'avvio a una loro tra­sformazione in senso democratico e socialista non pos­sono e non debbono essere rinviate all'ora della conquista del potere da parte della classe operaia e dei suoi alleati, ma possono e debbono essere perseguite come obiettivi concreti e realizzabili, da raggiungersi con la lotta eco­nomica e politica dei lavoratori.» [12]

   Ecco dunque che, raccogliendo l'esperienza del pas­sato recente, della guerra di liberazione e degli anni successivi, il PCI elabora una strategia originale e la rende esplicita all'VIII Congresso.

   Tale strategia si distingue per due aspetti. Primo, un rapporto nuovo della classe operaia, rispetto a quello tra­dizionale, con le istituzioni democratiche, di cui era stata portatrice storicamente la borghesia. Secondo, un rap­porto nuovo della classe operaia con gli obiettivi di riforma. Vi è qui un recupero, perché non dirlo, di esi­genze già poste dall'ala riformista del movimento socia­lista italiano nel passato, sia per ciò che concerne le riforme, sia per ciò che concerne le istituzioni democratiche.

   Il primo che aveva posto esplicitamente queste esi­genze era stato, intorno al 1890, Eduard Bernstein. Ma egli aveva trovato la risposta a problemi di lotta della classe operaia tedesca nel quadro delle istituzioni demo­cratiche, che effettivamente si ponevano (ed Engels lo aveva visto), a problemi di lotta per le riforme, credendo che ciò richiedesse la liquidazione, la «revisione», allora si disse, dei fondamenti della concezione marxista: del me­todo dialettico, della teoria della tendenziale proletariz­zazione dei ceti intermedi, della concezione della dittatura del proletariato, ed attribuendo inoltre a Marx una teoria dell'«impoverimento assoluto» del proletariato che in­vece non gli è propria.

   La maggioranza della II Internazionale, con alla testa Kautsky, rigetta la «revisione» di Bernstein, con la sostanziale riaffermazione delle tesi di Marx, ma senza avvedersi che il problema in realtà era posto dal modo stesso in cui si svolgeva la lotta in quel momento, in un nuovo quadro di legalità democratica per il movi­mento operaio, in una serie di importanti paesi europei, quali la Germania, la Francia e l'Italia. Il problema era di sviluppare in modo coerente il marxismo per dare risposta alla nuova situazione e alle nuove esigenze.

   Fu anche per questa insufficiente risposta teorica che, dietro l'«ortodossia» di Kautsky, si insinuò l'opportu­nismo via via sempre più aperto. Da esso si tennero immuni quelle correnti che, con Rosa Luxemburg, non evitando errori, e ancor più con Lenin, al revisionismo e all'opportunismo risposero con uno sviluppo originale e coerente del marxismo, e non semplicemente ripetendo le tesi di Marx e di Engels.

   Per il socialismo italiano avvenne che esso restasse, prima della guerra mondiale del '14 e negli anni imme­diatamente successivi, fermo alla non risolta e sterile alternativa tra riformismo e massimalismo. Tra un rifor­mismo, da un lato, che vede gli obiettivi concreti e immediati di riforma ma non sa congiungerli a quelli del potere, ed anzi, per inseguire le riforme, abbandona l'obiettivo del potere, si abbandona alle illusioni parlamentaristiche ed elettoralistiche. E, dall'altro lato, un massimalismo che agita invece le parole d'ordine del po­tere, del socialismo, della rivoluzione, ma non sa indi­viduare la via concreta per giungervi.

   Con la politica mandata avanti dalla guerra di libera­zione in poi e con l'VIII Congresso, il Partito comunista, il movimento operaio italiano escono appunto da questa sterile alternativa; l'alternativa tra le rivendicazioni immediate (sindacali, sociali e politiche) e l'obiettivo ultimo del potere e del socialismo. Trovano, fra l'uno e l'altro, il nesso: il nesso della lotta per le riforme che congiunge le rivendicazioni immediate all'obiettivo del potere.

   Tra la lotta delle masse e le istituzioni democratiche l'VIII Congresso colma un distacco: proietta le riven­dicazioni della lotta delle masse nelle istituzioni demo­cratiche; fa delle proposte ed iniziative parlamentari una piattaforma di lotta per le masse medesime. Stabilisce un nuovo stretto nesso tra lotta delle masse e lotta par­lamentare.

   Afferma Togliatti, nel suo rapporto al IX Congresso del PCI (Roma, 1959): «Si debbono realizzare una serie di misure e di riforme [che devono costituire]... un in­sieme organico e unico. Qui sta la differenza tra la nostra posizione e quella... delle vecchie correnti riformiste del socialismo italiano. Il vecchio socialismo italiano, ispirato da queste correnti, non riuscì a elaborare e presentare al paese, come programma della classe operaia, un insieme di proposte aderenti alla situazione italiana del momento. I suoi obiettivi rimasero frammenti staccati, che non investivano in modo radicale le strutture economiche e politiche. Problemi di fondo, come quello del Mezzo­giorno, quello contadino e persino quello del suffragio universale, o non furono visti o furono trascurati, o posti in modo sbagliato. Per questo, dopo essere riuscito a vincere la battaglia della libertà di organizzazione per i lavoratori, il socialismo italiano perdette la strada, si esaurì in un massimalismo di parole, non riuscì a offrire a tutte le forze democratiche una piattaforma per una lotta di rinnovamento politico e sociale» [13].

   Tutto questo passo merita di essere attentamente considerato. Qui si individua la sostanziale differenza tra l'azione riformistica e la lotta rivoluzionaria per le ri­forme.

   La lotta per le riforme del vecchio riformismo sociali­sta mancava di organicità. Qui vi è una prima differenza. Se non vi è organicità di collegamenti, tra una riforma e l'altra, quello che viene a mancare è la visione di insie­me della trasformazione che si vuole attuare nella società.

   In secondo luogo, le riforme che i riformisti propone­vano riguardavano essenzialmente le libertà politiche e sindacali, ma non investivano né il modo di essere dello Stato, la sua organizzazione e i suoi poteri, né soprattutto la base economica di quella società, i rapporti di pro­prietà. E qui la differenza tra le due concezioni si fa rilevante.

   Ma tra i problemi non posti Togliatti ne indica due: quello del Mezzogiorno e quello contadino.

   Nei confronti dei contadini i socialisti non avevano una politica effettiva. Ne ritenevano inevitabile la proletarizzazione, non vedevano come questa tendenza si attui in un modo assai complesso, e attendevano, con mecca­nico determinismo, dalla riduzione a salariati dei conta­dini la loro adesione al socialismo. Rinunciando a una politica di rivendicazioni in difesa della piccola proprie­tà contadina, si lasciavano sfuggire l'essenziale della po­litica di alleanze della classe operaia di allora: l'alleanza con i contadini, come elemento necessario per costruire l'ege­monia del proletariato.

   Infine la questione del Mezzogiorno. Il socialismo ri­formista italiano operò con successo prima della guerra mondiale del '14, sotto il governo di Giolitti, quando quest'ultimo condusse effettivamente una politica che ri­conosceva le libertà sindacali, agevolava i miglioramenti salariali, il raggiungimento dell'obiettivo delle otto ore, e conduceva una politica di aiuti alle cooperative e alle amministrazioni comunali, anche quelle socialiste, del nord. Ma tutto ciò Giolitti faceva a spese del Mezzogior­no, e facendo pagare ai contadini del sud il prezzo delle concessioni ai lavoratori del nord. Lo faceva cioè appro­fondendo il solco tra i lavoratori del nord e i contadini del sud; quel solco che, come Gramsci spiega nella Quistione meridionale, è la condizione perché si regga il bloc­co industriale-agrario, cioè l'alleanza tra i capitalisti del nord e i proprietari terrieri del sud.

   Non vedendo la questione meridionale, il partito so­cialista restava nel quadro dell'egemonia borghese, e a quella rendeva subalterna la classe operaia. Non vedeva insomma la questione decisiva, quella dell'autonomia della classe operaia, che è strettamente congiunta alla questione del potere.

   Qui, nel rapporto che si stabilisce tra la lotta per le riforme e la lotta per il potere, sta la differenza decisiva tra il riformismo e la lotta rivoluzionaria per le riforme. A questo proposito Togliatti precisava, sempre nel suo rapporto al IX Congresso: «Sappiamo benissimo che una nazionalizzazione, o questo o quell'intervento dello Stato per un razionale sviluppo economico, o una estensione del­le autonomie politiche, o un maggior benessere per i la­voratori non cambiano ancora la natura del regime e della società in cui viviamo. Cambiano però qualcosa, e possono cambiare molto del modo come si sviluppa la lotta delle masse lavoratrici per conquistarsi il nuovo livello di be­nessere e una nuova dignità, per avere una parte nuova nella direzione della vita sociale, e quindi per modificare tutti i rapporti di forza tra le masse operaie e popolari e le classi sfruttatrici. Ed è questa avanzata, sono i succes­si ottenuti in questa direzione che noi chiamiamo, e che di fatto è, marcia verso il socialismo. La natura dell'or­dinamento cambierà radicalmente solo quando saremo riu­sciti a cambiare le classi dirigenti della società e dello Stato» [14].

   Il nesso tra la lotta per le riforme e la lotta per il potere è posto in un modo strettissimo.

   La lotta per le riforme non è certo vista come una sorta di ginnastica rivoluzionaria. No, le riforme val­gono per gli obiettivi che esse consentono alle masse di raggiungere, per ciò che danno in più, ma proprio per questo incidono sui rapporti di forza. La lotta per le ri­forme serve a mutare i rapporti di forza. Se l'ordinamento sociale cambia solo con la conquista del potere da parte delle masse lavoratrici, vi è un modo, questo appunto, di marciare concretamente verso il potere. La rivoluzio­ne non appare più come lo scoccare dell'ora X, dovuta ad una crisi insuperabile del sistema borghese che meccani­camente si produce, ma come il risultato di un processo di lotta, che conosce tutta una serie di tappe e di obiettivi intermedi.

   Ciò che è recuperato è quindi, in realtà, non la tra­dizione riformistica, ma il modo in cui la sinistra dei partiti operai, già prima della rivoluzione d'ottobre, ve­deva la questione delle riforme.

   Senza riferirmi a Rosa Luxemburg, mi limito a Lenin. Egli rispondeva, nel 1915, a quanti, nella sinistra dei partiti socialisti, reagivano al fallimento della II Interna­zionale dicendo che essa si era svirilizzata per aver dato troppa importanza alle riforme, precisamente così: «Noi critichiamo con la massima severità la vecchia II Inter­nazionale... dichiariamo che essa è morta... ma non di­ciamo mai che finora si sia dato troppo peso alle cosid­dette rivendicazioni immediate, né che questo possa por­tare alla svirilizzazione del socialismo. Affermiamo e di­mostriamo che tutti i partiti borghesi, tutti i partiti, tran­ne il partito rivoluzionario della classe operaia, mentono e sono ipocriti quando parlano di riforme. Cerchiamo di aiutare la classe operaia a ottenere un miglioramento reale (economico e politico) sia pur minimo della sua situazio­ne, e aggiungiamo sempre che nessuna riforma può essere stabile, autentica e seria se non è sostenuta dai metodi ri­voluzionari di lotta delle masse. Insegnamo continuamen­te che un partito socialista, che non unisca questa lotta per le riforme ai metodi rivoluzionari del movimento ope­raio, può trasformarsi in una setta, può staccarsi dalle masse, e questo è il pericolo più serio per il successo del vero socialismo rivoluzionario» [15].

   Lenin aggiunge, in modo significativo: «Noi soste­niamo un programma di riforme che è anch'esso diretto contro gli opportunisti. Questi tali sarebbero ben felici se noi lasciassimo loro in esclusiva la lotta per le ri­forme» [16].

   Siamo dunque di fronte al problema del potere, al problema dello Stato. Come si pone esso nella via ita­liana al socialismo?

   Togliatti affrontava questo problema già nel suo in­tervento alla sessione del Comitato centrale del giugno '56, in preparazione dell'VIII Congresso.

   Qui egli dice: «Prima di tutto, fa parte della dottrina della dittatura del proletariato l'affermazione del ca­rattere di classe dello Stato e di ogni Stato, tanto dello Stato diretto dalla borghesia, quanto dello Stato diretto dalla classe operaia. "Ogni Stato è una dittatura", diceva Gramsci. Questa affermazione è vera e rimane valida.

   «Ma questo non è tutto ciò che vi è nella dottrina della dittatura del proletariato. Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin, nello sviluppare questa teoria, afferma­rono che l'apparato dello Stato borghese non può servire per costruire una società socialista. Questo apparato deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito dall'apparato dello Stato proletario» [17].

   E si chiede: «Questa posizione rimane pienamente valida oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando forme parlamentari, è evidente che cor­reggiamo qualche cosa di questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stan­no compiendo nel mondo» [18].

   Ora, pare a me di dover osservare che Togliatti ha ra­gione quando considera che, prevedendo l'impiego delle forme parlamentari, nel modo che oggi ci è proprio, noi correggiamo qualche cosa rispetto a Marx e a Lenin, anzi innoviamo. Se è vero che sia Marx che Lenin avevano affermata la necessità che la classe operaia partecipasse al suffragio elettorale, alla vita parlamentare, respingen­do Marx le posizioni degli anarchici, e respingendo Lenin quelle dell'ala estremistica del movimento comunista, am­bedue però non avevano visto nel parlamento altro che un organo del dominio della borghesia sui lavoratori. Le cose mutano ora che la classe operaia non ha nel parla­mento soltanto alcuni rappresentanti, che al massimo pos­sono utilizzarlo come tribuna di denuncia contro la bor­ghesia, ma ha in questa assemblea rappresentanze a volte determinanti, e perciò può stabilire un rapporto nuovo tra la lotta delle masse e la lotta parlamentare.

   Quanto però alla questione dello «spezzare» lo Sta­to borghese, pare a me che Togliatti tenga presente esclu­sivamente il testo di Lenin - certo fondamentale - di Stato e rivoluzione, dove appunto, su un piano di teoria generale dello Stato e in una polemica rivolta essen­zialmente contro i socialdemocratici, si parla della ne­cessità di spezzare lo Stato e soltanto di spezzarlo.

   Ma devo osservare che il pensiero di Lenin non è tut­to qui. In un testo, che è contemporaneo a Stato e rivo­luzione, cioè dell'estate '17, I bolscevichi conserveranno il potere statale?, Lenin afferma che, nello Stato moderno, accanto «all'apparato essenzialmente "oppressivo", che consiste nell'esercito permanente, nella polizia, nella bu­rocrazia, esiste... un apparato legato... alle banche e ai trust, che svolge, se così si può dire, un vasto lavoro di statistiche e di registrazioni. Non è necessario spezzare questo apparato e non lo si deve spezzare. Bisogna strap­parlo al dominio dei capitalisti» [19]

   Lenin aggiunge: «Senza le grandi banche, il sociali­smo sarebbe irrealizzabile. Le grandi banche sono "l'ap­parato statale" che ci è necessario per la realizzazione del socialismo e che noi prendiamo già pronto dal capitali­smo» [20]. Bisogna liberare questo apparato da «ciò che lo deturpa in senso capitalistico», per «renderlo più democratico» [21]. Dunque, anche per Lenin non tutto de­ve essere spezzato dell'apparato statale. Non deve essere spezzato quel capitalismo di Stato che, nell'economia ita­liana tra l'altro, ha tanta parte. Anzi esso è, come poi vedremo, uno dei presupposti della via italiana al so­cialismo.

   Ma noi estendiamo - e qui sta la novità - la ne­cessità non di spezzare ma di impiegare in modo diverso, di ulteriormente democratizzare, anche gli istituti demo­cratici tradizionali. Il fatto è che, nella fase del suo svi­luppo monopolistico, il capitalismo si volge contro questi istituti per spezzarli o svuotarli, mentre essi sono stati ri­conquistati dalla classe operaia che esercita in essi un peso sconosciuto nel passato.

   Dovremmo noi spezzare il parlamento, i consigli co­munali, i consigli regionali? Questo è oggi piuttosto l'obiettivo delle destre. Per noi si tratta di potenziare la funzione di questi istituti, di porli in più stretto rapporto con il popolo, con i lavoratori, i loro problemi, le loro lotte. Per noi si tratta non di contrapporre, in alternativa, gli istituti della democrazia parlamentare e gli istituti della democrazia diretta, ma di fare degli istituti della demo­crazia diretta l'integrazione degli istituti democratici tra­dizionali, prima, e poi, sempre di più, nello sviluppo della democrazia, gli elementi di base essenziali della demo­crazia socialista.

   Si propone quindi una particolare dialettica tra la lotta di classe rivoluzionaria e lo Stato, questo specifico Stato italiano al quale ci troviamo di fronte.

   È questo il problema che Togliatti riprende ed appro­fondisce nel suo rapporto al X Congresso del '62, quando la polemica con il Partito comunista cinese interessa non solo i temi della politica estera, ma quelli della strategia proletaria all'interno dei singoli paesi ed era uno stimolo di più all'approfondimento.

   Siamo del resto in Italia, in quel momento, nel 1962 cioè, di fronte al primo tentativo di centro-sinistra, con l'appoggio esterno dei socialisti. Siamo di fronte ad un programma della Democrazia cristiana e di una parte della grande borghesia italiana che vuole avviare a soluzione con una serie di riforme (nazionalizzazione dei monopoli elettrici, superamento della mezzadria, istituzione dell'en­te regione, programmazione economica volta alla piena occupazione) le contraddizioni più acute della società ita­liana. E che cerca di far ciò rendendo subalterna a questo progetto quella parte della classe operaia che segue il partito socialista, dividendo quindi la classe operaia, iso­lando, neutralizzando, sconfiggendo il partito comunista.

   L'esperienza dimostrerà che senza e contro il partito comunista una politica di riforme non si fa. Ma iniziava allora nel movimento operaio italiano, nel PCI stesso, la discussione sulle riforme. Vi era chi affermava che, con tali riforme, la borghesia sarebbe riuscita a razionalizzare il proprio sistema e a restringere in modo sostanziale la piattaforma democratica dell'azione operaia, togliendo così valore alla lotta contro il fascismo, per l'emancipazione della donna, per la questione meridionale e così via.

   Anche qui l'esperienza dimostrerà che nessuna rifor­ma seria può oggi essere compiuta dalla borghesia ita­liana, ma che una politica di riforme, per la quale vi è ampio spazio nella realtà oggettiva del paese, non può avere come suo protagonista che la classe operaia e la sua unità. L'esperienza dimostrerà che la lotta antifascista, per la questione meridionale, per l'emancipazione femmi­nile, per la piena occupazione si è fatta sempre più acuta ed esige sempre di più che la classe operaia unita ne sia protagonista.

   Appariva cosi allora - e appare anche adesso - una singolare coincidenza tra la posizione riformistica tradizionale e quella estremistica. Mentre i riformisti di­cono: con le riforme si risolvono i problemi senza mutare il sistema, gli estremisti dicono: quella per le riforme non è lotta rivoluzionaria perché non intacca il sistema. Negli uni e negli altri vi è una sopravalutazione della capacità della borghesia, delle possibilità razionalizzatrici del ca­pitalismo, una sottovalutazione del carattere insuperabile delle contraddizioni capitalistiche, che è particolarmente evidente in Italia. Negli uni e negli altri, nei riformisti e negli estremisti, la lotta per le riforme viene separata dalla lotta per il potere, e ciò indica il cordone ombeli­cale che unisce riformismo ed estremismo, facendo di entrambi una variante dell'opportunismo.

   In quel suo rapporto, dunque, Togliatti affronta il problema del rapporto tra lotta per le riforme e lotta per il potere, tra lotta democratica e problema dello Stato.

   A proposito del piano di riforme di struttura che noi proponiamo (nazionalizzazioni, piano di sviluppo econo­mico e democratico, eccetera), egli osserva: qui «si avanza l'obiezione in apparenza più seria. La lotta per questo obiettivo si svolge nell'ambito dell'attuale Stato, il quale mantiene la sua natura di Stato borghese, fino a che non vi sia un salto di qualità. E sta bene. La natura di classe dello Stato sappiamo qual è, né viene modificata perché si approvi una o più nazionalizzazioni. La stessa nostra Costituzione, che non è una costituzione socialista, non ha cambiato la natura dello Stato. Questo ragionamento però è ancora astratto. Per renderlo concreto si deve scendere all'esame del modo come è formato ed organiz­zato l'attuale blocco di potere delle classi dirigenti, e della possibilità e del modo di trasformarlo con una avanzata di natura politica. I governi di fronte popolare, prima della guerra, cambiavano la natura dello Stato? In astratto no; in concreto aprivano una nuova prospettiva politica e sociale. Si tratta di vedere se, partendo dal­l'attuale struttura sociale, muovendosi sul terreno di quel­la organizzazione democratica alla quale partecipano oggi le grandi masse popolari, realizzando le profonde rifor­me previste dalla Costituzione, sia possibile sviluppare un movimento e ottenere risultati tali che modifichino l'attuale blocco di potere, e creare le condizioni di un al­tro, del quale le classi lavoratrici facciano parte e nel quale possano conquistare la funzione che loro spetta» [22].

   Qui è evidente che Togliatti collega strettamente la lotta per le riforme e dentro le istituzioni democratiche alla questione del potere, alla questione della creazione di un nuovo blocco di potere.

   Il tema di una trasformazione della società in senso socialista, che si operi all'interno dello Stato democra­tico, riprende senza dubbio un motivo proprio della tra­dizione riformista, ma rompe con questa tradizione quan­do concepisce la lotta all'interno dello Stato come combat­tuta da posizioni autonome della classe operaia, sulla base di un programma alternativo che investa i rapporti di proprietà e le organizzazioni dello Stato e congiunga questi obiettivi alla conquista del potere. Quando cioè il passaggio dal capitalismo al socialismo non sia più visto solo come il risultato dello sviluppo delle forze produt­tive e della necessità di riforme che obiettivamente ne derivano, in modo meccanico ed evolutivo (come avve­niva nella concezione riformistica), ma invece affidi la trasformazione della società e dello Stato prima di tutto all'iniziativa politica dei partiti operai e alla lotta delle masse.

   Vi è perciò una sostanziale differenza tra la gradualità che il PCI introduce nel processo rivoluzionario e la gradualità riformista. Quest'ultima è evolutiva, senza rotture, si accompagna ad un preteso attenuarsi della lot­ta di classe e ad una crescente neutralità dello Stato. Nella gradualità della politica del PCI è ben presente il carattere di classe dello Stato che sta di fronte al proleta­riato e l'acutizzarsi della lotta di classe. La sua conce­zione della gradualità non dimentica che, ad un certo punto, interviene una rottura, una crisi profonda della società.

   Dice Togliatti: «È evidente che nell'accettare que­sta prospettiva, che è quella di un'avanzata verso il socia­lismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai dif­ficile dire quando precisamente abbia luogo il mutamento di qualità. Ciò che prevediamo è, in un paese di capita­lismo sviluppato e di radicata organizzazione democratica, una lotta, che può estendersi per un lungo periodo di tempo, e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare le classi dirigenti e quindi aprire la strada al rinnovamento della società» [23].

   Come si vede la gradualità prepara il salto di qualità, e questo è inevitabile. Il salto di qualità ha sì il suo fondamento nella struttura economica della società e nel­la crisi del sistema capitalistico, ma il suo agente princi­pale è la lotta politica. Ciò che caratterizza il salto di qua­lità è la crisi di un blocco di potere, è la crisi di una ege­monia, è il formarsi di un altro blocco di potere, social­mente e politicamente ampio ed articolato, ma che abbia alla sua testa la classe operaia. Il momento politico, quel­lo della lotta per il potere è il momento decisivo. La tra­sformazione dunque della società non appare affatto in­dolore. La possibilità di una trasformazione democratica e pacifica è vista come una possibilità offerta dalla situa­zione oggettiva, ma non come un processo ormai certo, alla maniera dei riformisti. Essa è anche e soprattutto un obiettivo di lotta del movimento operaio. Solo con la lotta la classe operaia e i suoi alleati possono sventare i piani eversivi e mantenere il processo rivoluzionario nel quadro della democrazia, di uno sviluppo che non passi attraverso la guerra civile.

   Voi potete notare qui anche una modificazione di termini rispetto alla Dichiarazione programmatica del '56, sulla cui base tuttavia ci si muove. Ove quella parlava della conquista della maggioranza da parte dei lavoratori nel parlamento, qui Togliatti parla di blocco di potere, vale a dire di un qualcosa che è caratterizzato meno in senso parlamentare e più nel senso delle classi e del loro reciproco rapporto. Un qualcosa di socialmente e politi­camente più complesso. È un problema nuovo questo che si pone al movimento operaio. È un problema che sorge dalla ricerca di una via originale di sviluppo del processo rivoluzionario nei paesi di capitalismo sviluppato.

   Togliatti lo riassume così, nel Promemoria di Yalta: «Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, in uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una pro­gressiva trasformazione dall'interno di questa natura [del­lo Stato]» [24].

   Va da sé che, in questa prospettiva, la lotta per le riforme - che si riallaccia come abbiamo visto alle po­sizioni di Lenin - acquista un maggior rilievo, in quanto si compie entro un quadro di sviluppo democratico più ampio di quanto non potesse avvenire ai tempi di Lenin. Inoltre, il programma di riforma non può non tenere conto oggi della «centralizzazione della direzione economica», che si compie negli Stati borghesi, e che li spinge - dice Togliatti sempre nel Promemoria - a «realizzare un programma dall'alto, nell'interesse dei grandi monopoli e attraverso l'intervento dello Stato... Questa questione è all'ordine del giorno in tutto l'occidente e già si parla di una programmazione internazionale, a preparare la quale lavorano gli organi dirigenti del Mercato co­mune» [25].

   La classe operaia - egli afferma - non può disinte­ressarsi di tale problema, non può non condurre una sua lotta per una programmazione economica democratica, che si contrapponga a quella dei monopoli non solo sul piano nazionale ma su quello internazionale. Il capitali­smo monopolistico di Stato diventa più che mai il terre­no di lotta fondamentale per colpire la politica dei gruppi dominanti e per fare del settore pubblico dell'economia, grazie ad una diversa direzione politica dello Stato, una leva decisiva per la trasformazione delle strutture econo­miche e sociali.

   Capitalismo monopolistico di Stato, programmazio­ne economica, riforme, formano un tutt'uno, che deve essere investito dalla lotta della classe operaia e dei suoi alleati.

   Qui ritorna una intuizione di Lenin: «Durante la guerra, il capitalismo mondiale ha compiuto un passo in avanti non solo verso la concentrazione in generale, ma anche verso la trasformazione dei monopoli in capitalismo di Stato... Le riforme economiche sono in tal senso ine­vitabili» [26]. Lenin non dice di più, ma è su quella sua intuizione che siamo oggi chiamati a lavorare.

   Mi sono riferito al termine di blocco di potere, ed è in tal senso, osserverei, che Berlinguer parla di «blocco storico» nel suo intervento al XII Congresso di Bolo­gna (1969). Qui il «blocco storico» sta soprattutto ad indicare che la lotta per le riforme non è tutta la politica del PCI, ma un momento essenziale della lotta per le alleanze, per la creazione di un nuovo blocco di forze. Il «blocco storico», nel senso esatto che Gramsci dava a questa espressione, indica piuttosto una nuova società nel suo complesso, una unità di struttura e superstrutture garantita dalla ideologia. In questo senso, il «blocco di potere», che ora si tratta di realizzare, è la condi­zione per creare un nuovo «blocco storico», una società socialista.

   Quando si parla, come fa Togliatti, di «blocco di potere», o di «blocco storico», come Berlinguer, è chiaro che si è ben lungi da una visione elettoralistica della lotta per il potere medesimo.

   Sempre nel rapporto al X Congresso, Togliatti dice: «Ridurre questa lotta [per la creazione di un nuovo blocco di potere] alle competizioni elettorali per il par­lamento, e aspettare la conquista del 51% sarebbe, oltre che ingenuo, illusorio» [27]. La borghesia è sempre in grado di impedire tale conquista.

   Berlinguer non solo porrà in luce, nei suoi articoli di Rinascita sul Cile, la difficoltà di raggiungere questo obiettivo, ma la sua insufficienza, la impossibilità di ge­stire il potere se non ci si regge su un blocco di forze assai più ampio del 51%. L'esperienza della guerra civile di Spagna nel passato, quella del Cile oggi, sono una con­ferma.

   Ecco perché, già nel suo intervento più volte citato alla sessione del Comitato centrale del giugno '56, To­gliatti ad un certo punto affermava: «Chi ha detto che "via italiana" voglia dire "via parlamentare"?». To­gliatti indica l'essenza della via italiana in un seguito di lotte che partano dalle posizioni conquistate, si avval­gano delle istituzioni democratiche, e procedano verso nuove conquiste nell'ambito dell'assetto sociale e di quel­lo politico. «Se non si pone la questione in questo mo­do - ammonisce - se si fa una sommaria identifica­zione esteriore fra "via italiana" e "via parlamentare", si possono creare da un lato illusioni pericolose, mentre dall'altro si possono avere anche gravi delusioni» [28]. Il momento decisivo è sempre quello della lotta delle mas­se, della iniziativa politica. È questa la domanda a cui deve rispondere la via italiana al socialismo. Dice Togliatti, nel suo rapporto al X Congresso: «È in grado essa [la classe operaia] di trovare nella società capitalistica avanzata quella forza di massa che deriva dalla intesa, dalla collabo­razione, dall'alleanza con strati di popolazione non prole­tari, come furono in altri paesi le grandi masse indiffe­renziate dei contadini poveri e senza terra?» [29].

   Insomma, in una società del nostro tipo, il problema delle alleanze si pone in modo più complesso che non per la rivoluzione russa e per altre rivoluzioni.

   Qui da noi, nella lotta contro il potere monopolistico, nella fase del capitalismo monopolistico di Stato, si tratta di trovare alleanze ben più ampie, che arrivino non solo al ceto medio delle campagne - che ormai si è molto ri­stretto, tra l'altro - ma a quello delle città; a neutralizzare e a ottenere convergenze con settori non monopo­listici della stessa borghesia capitalistica, di muoversi nel quadro di una pluralità di partiti, che corrisponda alla maggiore articolazione sociale delle alleanze, entro una dialettica democratica assai più ricca.

   Qui si ha la risposta alla esigenza posta da Gramsci, nei Quaderni del carcere, di una nuova strategia per quei paesi dove, diversamente che in Russia, lo Stato non è tutto e la società civile non è fluida e gelatinosa, ma com­plessamente organizzata. Se là bastò la guerra manovra­ta, - scrive Gramsci, - lo scontro frontale rapidamente risolutivo di grandi masse, qui ciò non basta più. Qui bi­sogna, con una «guerra di posizione», che non signi­fica difensiva, investire ad una ad una le complesse arti­colazioni della società e dello Stato. Così si costruisce l'egemonia della classe operaia.

   A questo interrogativo, sulla possibilità di una tale strategia, Togliatti risponde in un modo nettamente po­sitivo.

   Ma, si badi, queste più ampie e complesse alleanze che sono possibili, come dimostrano del resto le posizioni conquistate dalle sinistre in una serie di regioni italiane; questo sviluppo della rivoluzione democratica e sociali­sta, nel quadro dello Stato borghese, può realizzarsi per una serie di condizioni nuove. In questo Stato, l'egemonia della grande borghesia è in netta crisi, al suo dominio corrisponde sempre meno la sua capacità dirigente. La classe operaia, politicamente, idealmente autonoma, avan­za nella vita nazionale indicando la soluzione positiva dei problemi che stanno di fronte al paese, e con questa sua capacità dirigente costruisce la propria egemonia. Di fron­te allo Stato reale sta, in contraddizione con esso, lo Stato previsto dalla Costituzione. Ma la Costituzione non è un pezzo di carta, bensì una autentica forza politi­ca, che si è impadronita della coscienza delle vaste masse, e offre alla loro lotta un terreno unitario. La legalità de­mocratica sta dalla parte dei lavoratori. La concezione del marxismo e del leninismo ha un peso sempre più grande nella cultura nazionale.

   Da questa visione del modo di lottare e di avanzare verso il socialismo deriva anche un modo diverso di con­cepire il regime socialista.

   Se al socialismo si può arrivare, in una società di ca­pitalismo sviluppato, attraverso una intensa lotta demo­cratica, e con un blocco di forze sociali e politiche più ampio di quello tradizionale, tale cioè da isolare il mo­nopolio e colpire questo nemico principale; se l'ampiezza e l'articolazione di questo blocco comporta, da un lato, che per tutta una fase il ceto medio produttivo, la pic­cola e media industria, possano essere forze positive nella costruzione di una nuova economia, e quel tipo di pro­prietà possa essere superato solo con il consenso dei ceti ad esso legati; e se questo comporta, dall'altro, anche una pluralità di partiti che convergano nell'obiettivo del so­cialismo, ma tra cui può anche stabilirsi una dialettica di governo e di opposizione, assai più ampia risulta allora anche la base sociale del regime socialista. Più ricca e più articolata la sua democrazia.

   È questa la via e la condizione reale che noi indichia­mo, non solo per evitare le deformazioni antidemocrati­che conosciute dai regimi socialisti, ma per attuare con pienezza la natura democratica del socialismo.

   La società socialista appare allora come una società unitaria ed articolata, in cui è aperto il confronto poli­tico, culturale e ideale. La nozione stessa di dittatura del proletariato assume nuovi aspetti. Non va mai dimenti­cato che Lenin vedeva nella dittatura non solo l'eserci­zio della violenza contro il nemico di classe, ma anche la capacità di direzione della classe operaia, la sua capa­cità di costruire e guidare un sistema di alleanze. Affer­mava che la dittatura del proletariato aveva vinto in Russia «perché ha saputo combinare la coercizione e la persuasione» [30].

   Quando Gramsci parla di egemonia parte da qui. E quando afferma che la più grande conquista teorica e pratica di Lenin è quella dell'egemonia, egli indica ap­punto la dittatura del proletariato come capacità di do­minio e di direzione ad un tempo. Ma, nella sua conce­zione dell'egemonia, Gramsci dà senza dubbio partico­lare rilievo e sviluppo al momento della direzione, del consenso, alla funzione delle idee e della cultura. In questo senso, egli arricchisce la nozione di dittatura del proletariato e sviluppa coerentemente il leninismo. Affron­ta insomma la questione della dittatura del proletariato di fronte a una società più avanzata e complessa di quel­la russa.

   Come afferma il PCI, nelle tesi del X Congresso, nel­la dittatura del proletariato «si allarga l'area del con­senso intorno alla classe operaia e della dittatura del pro­letariato emerge soprattutto l'aspetto della funzione diri­gente medesima» [31].

   Come si pone infatti la questione quando si parla di «blocco di potere»?

   È questo «blocco di potere», che va dalla classe operaia ai ceti medi delle campagne e delle città, che eser­cita l'egemonia sulla società, con la coercizione della leg­ge e con la capacità di direzione e di persuasione. All'in­terno di questo blocco, promosso e costruito dalla classe operaia, il proletariato esercita una funzione di guida, lo tiene insieme, cerca di superarne le contraddizioni, cerca di rendere il suo carattere sociale e politico sempre più avanzato. La classe operaia è qui forza dirigente, o, se volete, egemone, ma nel senso della capacità di direzione.

   È questo, mi pare, il modo in cui il Partito comuni­sta italiano e Palmiro Togliatti cercano di rispondere ai problemi che si pongono oggi per la rivoluzione socialista nel nostro tempo e nel nostro paese, ai problemi che si pongono per l'edificazione di una società socialista.

Note

[1] VIII Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 906.
[2] Opere complete, cit., v. 9, p. 22.
[3] Documenti della Conferenza di 81 partiti comunisti e operai, cit., p. 75.
[4]] Opere complete, cit., v. 33, p. 38.
[5] Ibidem.
[6] VIII Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 912.
[7] Introduzione a K. Marx, La lotta di classe in Francia, in Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 1274.
[8] VIII Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 913.
[9] Ibidem.
[10] Cfr. il passo precedentemente citato.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem, p. 909.
[13] IX Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 66.
[14] Ibidem, p. 67.
[15] Opere complete, cit., v. 21, p. 387 e sg.
[16] Opere complete, cit., v. 23, p. 82.
[17] La via italiana al socialismo, cit., p. 107 e sg.
[18] Ibidem.
[19] Opere complete, cit., v. 26, p. 91 e sg.
[20] Ibidem, p. 92.
[21] Ibidem.
[22] X Congresso del Partito comunista italiano, cit., 1963, p. 70 e sg.
[23] Ibidem, p. 70.
[24] Sul movimento operaio internazionale, cit., p. 370.
[25] Ibidem, p. 368.
[26] Opere complete, cit., v. 23, p. 213.
[27] X Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 70 e sg.
[28] La via italiana al socialismo, cit., p. 108.
[29] X Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 70 e sg.
[30] Opere complete, cit., v. 31, p. 477.
[31] X Congresso del Partito comunista italiano, cit., p. 667.