Luciano Gruppi

Il XX Congresso
e il problema dello «stalinismo»

Si tratta della sesta lezione tenuta da Luciano Gruppi all'Istituto Gramsci di Roma tra il 13 marzo e il 3 maggio 1974 'sui caratteri della strategia della via italiana al socialismo nella concezione e nell'azione di Palmiro Togliatti'. Il testo è tratto da: Luciano Gruppi, Togliatti e la via italiana al socialismo, Editori Riuniti, Roma, ottobre 1974, pp. 137-163.


La grave sconfitta della CGIL, nelle elezioni delle commissioni interne nelle grandi fabbriche, nel '55, indi­cava - come già dicevo - un certo nostro distacco dalle realtà aziendali, e da ciò che era avvenuto e stava avvenendo nella realtà economica e sociale del paese.

   La lieve flessione dei voti del PCI nelle elezioni am­ministrative della primavera del '56 sarà una conferma di qualche cosa che non va. Vi è dunque la necessità di una discussione aperta e approfondita, di un esame auto­critico, sgombro da qualsiasi irrigidimento dogmatico. Quando si tiene il XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, Stalin è morto da tre anni. La sua morte suscitò nel movimento operaio e popolare di tutto il mondo un dolore, una commozione ed una preoccupa­zione enorme. È per reagire a uno stato d'animo di incertezza, e fors'anche di smarrimento, che i dirigenti sovietici iniziano, subito dopo la morte di Stalin, a valo­rizzare il metodo della direzione collettiva, ed anche affacciano, senza riferimenti a persone, una critica al «culto della personalità», come di un atteggiamento estraneo al marxismo e al leninismo.

   Che qualche cosa stesse mutando nell'URSS, nei con­fronti dell'atteggiamento verso Stalin, si cominciò qua e là confusamente ad avvertire. Ma nessuno poteva pre­vedere il carattere del XX Congresso: che in esso mancasse ogni celebrazione del compagno scomparso, che scarsissimi fossero i riferimenti alla sua persona, che alcune delle sue posizioni fossero chiaramente criticate, anche se, in genere, senza riferimenti espliciti.

   Ma quali sono gli elementi essenziali della linea e della impostazione proposta dal XX Congresso? Esso prende prima di tutto coscienza di come siano profondi i mutamenti intervenuti nei rapporti di forza interna­zionali, anche rispetto a quelli registrati nel '47, alla prima riunione dell'Ufficio di informazioni. La rivolu­zione cinese ha vinto. In Indonesia il partito comunista partecipa al governo. Alla conferenza di Bandung, del 1955, non solo si è adunato un grande fronte di paesi afro-asiatici, schierati su posizioni antimperialistiche, ma è apparso chiaro che la forza di questo schieramento si regge, da un lato, sulla alleanza tra l'URSS e la Cina, e, dall'altro, sull'alleanza tra la Cina e l'India. Si regge inoltre sugli ottimi rapporti che intercorrono tra l'URSS e l'India. Si ha quindi un gigantesco triangolo URSS-Cina-India, che comprende la maggioranza del genere umano.

   L'URSS non è più il solo paese socialista, ma si è creato un vero e proprio campo socialista con un suo mercato. «La caratteristica della nostra epoca sta nel fatto - dice Chruščëv nel suo rapporto - che il socialismo ha varcato i confini di un solo paese ed è divenuto un sistema mondiale.» [1] L'URSS è divenuta, quanto a pro­duzione industriale globale, il secondo paese del mondo dopo gli Stati Uniti. L'imperialismo, il capitalismo non sono quindi più il sistema economico che da solo carat­terizza un'era storica. Gli Stati Uniti non hanno più il monopolio delle armi termonucleari. Ecco allora che il problema della pace o della guerra si pone in modo nuovo. «Rimane naturalmente valida la tesi leninista, secondo la quale, finché esiste l'imperialismo sussiste anche la base economica per nuove guerre.» [2] Il peri­colo di guerra perciò persiste, ed esige una permanente mobilitazione delle forze di pace; ma queste ultime si sono enormemente accresciute. Si affaccia quindi una pos­sibilità nuova: non che l'imperialismo non sia più portato, per la sua stessa natura, alla guerra, ma che le forze di pace siano così grandi che si può affermare che «le guerre non sono più fatalmente inevitabili» [3]. Inoltre una parte dei circoli imperialisti comincia a riflettere e a capire che, in una guerra atomica, «non ci sarebbero vincitori» [4]

   Ecco allora che il problema della pace e della guerra va oggi posto, si dice, in termini diversi da come lo poneva Lenin, ai suoi tempi. «Come è noto, una tesi del marxismo-leninismo afferma che le guerre sono ine­vitabili finché esiste l'imperialismo. Questa tesi è stata elaborata in un periodo in cui: 1. l'imperialismo era un sistema generale che comprendeva tutto il mondo; 2. le forze sociali e politiche contrarie alla guerra erano deboli, non abbastanza organizzate, e non potevano quindi co­stringere gli imperialisti a rinunciare alle guerre.» [5]

   A questo riguardo, oggi la situazione è mutata. Il pericolo di guerra persiste, anzi esso è grave, ma la guerra non è più inevitabile.

   È questa la prima grande novità, la prima tesi pro­fondamente innovatrice del XX Congresso. Essa costitui­sce uno sviluppo, in una situazione nuova, della conce­zione di Lenin, ma è anche una critica a Stalin, il quale, ancora nel '52, a situazione già mutata dunque, aveva dogmaticamente riaffermata la tesi di Lenin sulla inevitabilità della guerra [6].

   Nasce di qui la possibilità di riprendere il criterio, già formulato da Lenin, della coesistenza pacifica tra Stati a regime sociale e politico diverso. Senonché questo principio assume, nella nuova situazione, una ben mag­giore portata.

   L'offerta della coesistenza pacifica viene fatta dal­l'URSS alla più grande delle potenze imperialistiche. «Noi pensiamo che se le relazioni tra l'URSS e gli Stati Uniti fossero basate sui nuovi cinque principi della coesistenza pacifica [proclamati alla conferenza di Bandung] tutta l'umanità ne trarrebbe un enorme vantaggio e lo stesso popolo americano ne beneficerebbe non meno dei popoli dell'URSS e di tutti gli altri popoli.» [7]

   Si tratta, si badi bene, di principi che darebbero alle relazioni internazionali un'impronta antimperialistica e il cui affermarsi costituirebbe già una vittoria sull'impe­rialismo. I cinque principi enunciati a Bandung sono infatti: 1. reciproco rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità; 2. la non aggressione; 3. la non inge­renza reciproca negli affari interni; 4. la parità e il van­taggio reciproco; 5. la coesistenza pacifica e la collabo­razione economica.

   L'altra tesi innovatrice, presentata dal XX Congresso, parte da una proposizione di Lenin, secondo cui: «Tutte le nazioni giungeranno al socialismo... ma vi giungeranno in modo non del tutto identico; ciascuna darà il suo con­tributo originale con questa o quella forma di democrazia, con questa o con quella varietà della dittatura del pro­letariato» [8].

   Si analizzano nel congresso i processi rivoluzionari ormai compiutisi nel mondo, se ne constata la diversità e l'originalità, per giungere alla conclusione: «È assai probabile che le forme di passaggio al socialismo diven­gano sempre più varie» [9]. La varietà può essere tale che alcuni paesi potranno giungere, pur sempre attraverso un'aspra lotta, poiché le classi dominanti non cedono mai volontariamente le proprie posizioni, al potere del pro­letariato senza passare necessariamente per la guerra ci­vile. Era questa una possibilità già vista da Lenin per la stessa rivoluzione russa del 1917.

   Si pone ancora, in questo quadro, il problema «se sia possibile passare al socialismo valendosi anche delle vie parlamentari» [10]. Stiamo attenti! qui non si parla di «via parlamentare al socialismo», ma del «valersi anche delle vie parlamentari».

   Al tempo di Lenin questa ipotesi non poteva essere affacciata. Oggi vi è una diversa situazione: intanto nei rapporti internazionali, poi nella forza organizzata della classe operaia in alcuni paesi, nella tradizione democra­tica in cui essa opera in certi casi e nelle posizioni che essa ha conquistato nella vita parlamentare di determi­nate nazioni.

   In certi casi - si dice - la classe operaia potrebbe, con una politica di larghe alleanze, «conquistare una salda maggioranza in parlamento e trasformarlo da organo della democrazia borghese in strumento della autentica volontà popolare» [11]. Per tutta una serie di altri paesi, il pas­saggio al socialismo invece non può che avvenire attra­verso la lotta armata.

   Questa tesi, sulla nuova funzione che può assumere il parlamento nella lotta rivoluzionaria, fu per il PCI di grande importanza e di grande aiuto, anche se questi non la assunse mai pari pari, nel modo piuttosto semplificato in cui era stata formulata al XX Congresso.

   Per ciò che riguarda la vita interna dell'URSS, il congresso poneva tutta una serie di esigenze e di com­piti per lo sviluppo dell'economia e per l'allargamento della democrazia socialista, su cui non mi soffermo. In modo particolare poneva problemi di decentramento della direzione.

   Come si vede, la critica a Stalin c'era, ma restava implicita, probabilmente per un faticoso compromesso raggiunto nella Presidenza del Comitato centrale del PCUS.

   Chi si spinse più in là, in uno splendido intervento, fu Mikojan. Egli iniziò con l'affermare: «Il tratto prin­cipale che caratterizza l'attività del Comitato centrale e del suo Presidium negli ultimi tre anni è che, nel nostro partito, dopo un lungo intervallo, è stata restaurata la direzione collegiale» [12]. Dopo un lungo intervallo...! il riferimento a Stalin e ai suoi metodi di direzione non democratici è chiaro.

   Del resto - egli precisa ancora - da lungo tempo non vi era più direzione collegiale e si era «diffuso invece il culto della personalità. Quel culto condannato prima da Marx e poi da Lenin» [13]. Mikojan si riferisce inoltre alla tesi espressa da Stalin, nel suo I problemi economici del socialismo, dove questi affermava che l'economia capi­talistica, nell'attuale epoca dell'imperialismo, era entrata in una fase di ristagno assoluto, tesi che già Chruščëv aveva criticato nel suo rapporto. Ma qui, in Mikojan, il riferimento alla persona di Stalin è diretto [14]. Se del resto Chruščëv aveva alluso alle violazioni della legalità, rife­rendosi ai famosi fatti di Leningrado del '47, quando erano stati condannati ingiustamente molti dirigenti del partito di quella città, attribuendone le responsabilità a Beria, Mikojan è più esplicito: mentre il diritto sovietico si sviluppò correttamente ai tempi di Lenin e negli anni immediatamente successivi, «non si può dire lo stesso del periodo posteriore, e ciò ha suscitato legittime ansie nel Comitato centrale del PCUS, che ha creduto neces­sario intervenire per porre rimedio alla situazione, muovendo dalla necessità di affermare in tutta la sua pienezza la legalità socialista, leninista» [15].

   Ma ciò che non venne detto su Stalin, durante i lavori ufficiali del congresso, fu detto da Chruščëv in un rapporto riservato per i soli delegati sovietici, quello che poi venne chiamato il «rapporto segreto».

   Qui Chruščëv si riferì a fatti precisi. Parlò di pro­cessi politicamente montati, di confessioni estorte, di comunisti onesti fucilati, o deportati, o perseguitati, a volte anche senza alcun processo. Criticò Stalin per aver sottovalutato la minaccia dell'aggressione nazista, per non aver dato retta agli avvertimenti di Churchill e del ser­vizio di spionaggio sovietico, e per aver lasciato cogliere impreparato l'esercito sovietico dall'aggressore.

   La sua fu una requisitoria appassionata, violenta, ma da cui non emergevano le ragioni per cui tali fenomeni avevano potuto prodursi, e per cui la direzione di Stalin aveva trovato il consenso di tanti altri dirigenti sovietici.

   Chruščëv fece leggere preliminarmente il suo «rap­porto segreto» a Togliatti e a Thorez i quali, risulta, non si dichiararono d'accordo sul modo in cui si pro­cedeva alla critica di Stalin.

   Ma perché avveniva e avveniva in quel momento, quella che fu chiamata la grande svolta del XX Congresso?

   Nel '56 si avvertiva ormai chiaramente che, mentre i rapporti internazionali erano profondamente mutati e l'URSS era diventata una grande potenza, ci si continuava a muovere nella politica estera, seppure su una giusta linea di pace, in modo rigido, ristretto, con la mentalità di quando l'URSS era ancora un paese isolato.

   Inoltre, dopo la ricostruzione dei danni della guerra, l'Unione Sovietica aveva conosciuto, dal '50 al '55, un grande balzo nella produzione; ma compiti ancor più ambiziosi si ponevano in questo campo mentre, dall'altro lato, gravi ritardi andavano recuperati nell'agricoltura.

   Ciò poneva l'esigenza di un metodo di direzione meno centralizzato, non burocratico, di maggiore iniziativa alla periferia e quindi di maggior democrazia.

   Come ottenerlo se non si spazzava il cammino da tutto ciò che nel passato aveva limitato la democrazia, incorag­giato il dogmatismo, limitata l'iniziativa? La critica del metodo di direzione, invalso all'epoca di Stalin, diventava una necessità oggettiva.

   Noi considereremo sempre grande merito di Chruščëv aver capito questa necessità, e aver avuto il coraggio politico e morale di affrontarla.

   Ma in quale posizione si trovava collocato Togliatti nei confronti del cosiddetto stalinismo? Quali erano i problemi che per lui derivavano dal XX Congresso? Ri­tengo abbia ragione Ernesto Ragionieri quando osserva che Togliatti non fu solo partecipe del «culto della per­sonalità» di Stalin, ma anzi fu uno dei costruttori di tale «culto» [16]. Di quel «culto della personalità» di Stalin che si era espresso e aveva preso avvio dalla cele­brazione del suo cinquantesimo compleanno, nel 1929, avendo le sue ragioni nella necessità di rispondere agli attacchi dei trotskisti e alla critica dei buchariniani, col fare barriera intorno alla sua persona, ma che era anche l'espressione del processo di burocratizzazione compiutosi nella vita sovietica e nel suo partito, sotto la direzione di Stalin, ed anche di quella mentalità contadina portata a riporre la speranza nell'«eroe liberatore», che certo era forte nell'URSS, paese che solo allora si avviava verso un'economia prevalentemente industriale.

   Anche la nozione di «culto della personalità» va precisata. Esso non consiste solo nella esaltazione spro­porzionata, retorica e acritica di un uomo. Non consiste solo nell'attribuire a lui tutti i meriti, dimenticando, o quasi, gli altri dirigenti, il partito, la lotta delle masse; ma ancor più consiste nel far di ciò che un uomo dice ed opera il criterio della verità. Con ciò si capovolge tutto il corso del pensiero scientifico e critico moderno.

   Ma - chiudendo questa parentesi - si può ricono­scere in Togliatti uno dei costruttori del culto per Stalin ove si considerino, ad esempio, le parole con cui egli salutò Stalin a nome di tutti i delegati al VII Congresso dell'Internazionale.

   «I popoli non vogliono né la guerra né il fascismo. Essi si volgono ogni giorno di più verso l'Unione Sovie­tica e fissano con speranza e con amore i loro sguardi su te, compagno Stalin, capo dei lavoratori di tutti i paesi. In Germania, in Cina, nel Giappone, in Spagna, in Polonia, in Italia e in altri paesi, i nostri eroici com­battenti conducono le masse alla lotta con il tuo nome im­presso nel cuore, compagno Stalin. Questo nome ci riempie di fede nella vittoria della nostra causa.» [17]

   Perché Togliatti compiva questa operazione politica? In parte, credo, con convinzione. In realtà, le sue parole non tendevano solo a suscitare determinati sentimenti nelle masse, ma anche li interpretavano. D'altra parte, credo sia giusta l'ipotesi di Ragionieri: riportandola alla persona di Stalin, egli dava più forza alla politica che si voleva portare avanti con il VII Congresso dell'Interna­zionale, e più forza anche alla propria funzione personale di dirigente, nel confronto del quale - non si dimentichi il X Plenum del '29 - si erano appuntate nel passato tante critiche. Si può dire che, salvo un suo certo atte­nuarsi dal '44 al '47, quell'atteggiamento verso Stalin fu costante, e nel PCI e in Togliatti, ed ebbe estreme espressioni in occasione del settantesimo compleanno di Stalin nel '49, e poi al momento della sua morte. Ma, in quest'ultimo caso, noi interpretavamo veramente ed esprimevamo una larga, profonda emozione popolare.

   Inoltre si deve ancora osservare che, dopo le critiche che Togliatti rivolse, nel suo intervento al VI Congresso dell'Internazionale del '28, ai metodi di direzione che si andavano mettendo in opera, a parte ancora la sua oppo­sizione alla politica del «socialfascismo» del X Plenum, egli, dal '35 in poi, collocò sempre con piena convinzione la sua azione politica, di dirigente intelligente ed originale, nel quadro della generale strategia dell'Internazionale, e di quel partito comunista bolscevico di cui l'Internazionale riconosceva la funzione dirigente. Anche i momenti più originali e audaci della politica di Togliatti, come la «svolta» di Salerno, si collocano nel quadro della stra­tegia staliniana.

   Eppure credo si possa dire che Togliatti non fu mai, in senso stretto, uno «staliniano», e con questa espres­sione non mi riferisco tanto a Stalin quanto ai suoi imitatori e ripetitori. Togliatti era stato educato alla scuola di Gramsci, ad un metodo critico aperto, all'analisi spregiudicata, all'indagine del concreto. Quando, fuori del quadro dell'Internazionale e del suo stile, egli potè, giunto in Italia, manifestare con più scioltezza la propria personalità, noi vedemmo il suo stile di scrittore e di oratore, sempre lineare e limpido, arricchirsi, aborrire dalle affermazioni apodittiche, rifiutare lo stile didasca­lico, che era proprio di Stalin, non ricorrere quasi mai a citazioni, - che egli riteneva stampelle per chi non sa camminare con le proprie gambe, - rigettare ogni atteg­giamento dogmatico, ricercare sempre vie nuove nello sviluppo del movimento e del partito.

   Ecco perché Togliatti, trovatosi a 63 anni di fronte ad una svolta che metteva in discussione tutto il suo passato politico, seppe uscirne, porsi alla testa di un processo di rinnovamento della politica, della sua fon­dazione teorica, dello stile di lavoro del Partito, recu­perare in pieno quella popolarità che, per un momento, parve scossa. E seppe far ciò evitando lacerazioni, crisi nel partito che molto facilmente avrebbero potuto pro­dursi. Anzi, è proprio dopo il XX Congresso che Togliatti si manifesta in tutta la sua statura, perché, da questo momento, egli si pone alla testa della elaborazione di una strategia originale, quella che deve seguire un partito chiamato a battere vie nuove, a risolvere il problema della rivoluzione socialista in un paese di capitalismo avanzato. Quella «via italiana al socialismo» appunto, di cui egli aveva indicata la necessità, nel '47, a Firenze e la cui ricerca si era poi interrotta. Quella esigenza di una nuova strategia per i paesi di capitalismo avanzato che già Gramsci aveva intuito nei Quaderni del carcere.

   Ma tutto ciò non avvenne in lui senza travaglio, non avvenne in modo lineare, senza momenti di offuscamento, che tuttavia furono sempre superati.

   Giustamente, mi pare, Ragionieri osserva che Togliatti fu uno di quei pochi uomini politici che seppero essere gli uomini non di una fase storica soltanto, ma di fasi storiche diverse [18].

   Nella sua relazione del febbraio 1956 al Comitato centrale, di ritorno dal XX Congresso del PCUS, Togliatti ha di fronte a sé un partito commosso, estremamente teso. Egli pone prima di tutto in rilievo le grandi novità del XX: l'affermazione della coesistenza pacifica, che del resto riprende un tema già da lui svolto nel suo appello ai cattolici del '54. Ricorda anche come, al VII Congresso dell'Internazionale, già si fosse cominciato ad affermare che, in determinate condizioni, la pace può essere salvata e lo aveva fatto lui stesso - come abbiamo visto - nel suo rapporto. Rilancia ancora una volta il suo appello ai cattolici per una comune azione per la salvezza della pace. In modo particolare insiste sull'affermazione del XX Congresso, secondo cui i processi rivoluzionari vanno nel mondo sempre più differenziandosi. Egli rivendica al nostro partito il merito di questa ricerca di una via originale di sviluppo. «La ricerca di una via nostra, ita­liana, di sviluppo verso il socialismo è stata nostra costante preoccupazione. Credo di poter affermare che essa fu già preoccupazione di Antonio Gramsci.» [19] Del resto, senza perder tempo, di «via italiana al socialismo» egli aveva già parlato portando il saluto al XX Congresso.

   Egli ritrova questa nostra ricerca originale nel modo in cui avevamo operato nella Costituente e in generale negli istituti della democrazia. Ricorda il disastro che si è abbattuto sul popolo e sul partito greco, per non aver capito le novità e le necessità della nuova situazione, e per aver assunto una posizione che aveva portato alla guerra civile e alla sconfitta.

   Ma quanto alla funzione del parlamento egli aveva già prima fatto alcune precisazioni. Affinché il parla­mento adempia ad una funzione progressiva bisogna che esso sia veramente lo specchio della realtà del paese, che le elezioni avvengano in modo corretto. Tutte condizioni che si possono realizzare, in un paese dominato dalla borghesia, solo con una strenua lotta. «Nostra tesi fon­damentale deve essere che la utilizzazione del parlamento, per una politica di positive trasformazioni sociali, è pos­sibile quando esiste un grande movimento operaio e socia­lista, diretto da grandi partiti, i quali abbiano chiara­mente davanti a sé la prospettiva e un programma di marcia nella direzione del socialismo. Se questa condi­zione manca, come fate a utilizzare il parlamento?» [20] Ma, dopo aver sottolineato il valore delle innovazioni del XX, e come queste tengano conto anche di nostre esperienze, come di esperienze del partito francese, To­gliatti affronta apertamente la questione di Stalin e rende esplicite le critiche che il XX non aveva chiaramente espresse.

   Ricordo che nel momento in cui cominciò a parlare di Stalin, Togliatti, che soleva svolgere i suoi rapporti sulla base di appuntì, passò alla lettura di un testo già scritto.

   Il suo giudizio su Stalin è estremamente equilibrato: «Nessuno di noi crede che sia possibile cancellare Stalin dalla storia» [21]. Aggiunge: «Stalin è stato e rimane una grande figura di tutto il nostro movimento, Stalin è stato un grande pensatore marxista. Nei suoi scritti viene spesso raggiunta una tale unità di analisi profonda e di chiarezza di esposizione che non molti sanno toccare» [22].

   Ma Stalin errò profondamente quando enunciò, in piena buona fede, che più si procede nella costruzione del socialismo e più la lotta di classe diventa dura. È vero il contrario, perché si ha, in questo processo, la graduale liquidazione dei nemici di classe. Da una tale tesi derivava, dice Togliatti, «una prospettiva quasi dispe­rata di reciproca persecuzione senza fine, di una parte della società contro l'altra, anche all'interno delle orga­nizzazioni della classe operaia» [23]. Di qui errori gravi, come lo scioglimento del Partito comunista polacco. «Così hanno potuto aver luogo altre repressioni ingiustificate. Così ha potuto essere violata la legalità socialista, acco­gliendo, per esempio, come metodo generale di prova, unicamente la confessione e non il materiale di fatto.» [24]

   Togliatti ricorda i meriti di Stalin nella lotta contro le deviazioni dal leninismo, ma anche la tendenza, che in lui venne sviluppandosi, a porsi al di sopra degli organismi dirigenti del partito. Ricorda ancora i ritardi nell'agricoltura, l'impreparazione a fronteggiare l'attacco nazista, e così via. «Il complesso di questi errori - egli dice - richiedeva una critica e una critica aperta.» [25] I compagni sovietici «hanno fatto ciò che doveva essere fatto» [26], altrimenti sarebbe rimasto un vuoto, non si potrebbero ora superare insufficienze ed errori, ed affron­tare i nuovi compiti.

   Nel suo rapporto, Togliatti era andato ben al di là degli atti ufficiali del XX Congresso. Già aveva intro­dotto, almeno concettualmente, gli elementi fondamentali delle rivelazioni contenute nel «rapporto segreto» di Chruščëv, anche se a quel rapporto, secondo gli impegni presi, egli non aveva fatto cenno.

   Ora erano possibili, di fronte al XX Congresso, due posizioni. Una, volta a ridurne al massimo la portata, gli effetti innovatori, la conseguenza sconvolgente della denuncia degli errori compiuti sotto la direzione di Stalin. Molti partiti scelsero questa strada e ne derivò un ritardo per tutto il movimento. Ma un'altra posizione era pos­sibile: accogliere tutta la carica innovatrice di quel con­gresso, anche la più lacerante, farla propria, equilibrarla, aprire un processo di rinnovamento, che si compisse senza rotture. Fu questa la via scelta dal Partito comunista italiano e da Togliatti. Ma a ciò noi eravamo spinti dalla nostra precedente esperienza, dal modo in cui avevamo visto, nella guerra di liberazione e nei lavori dell'As­semblea costituente, la possibilità di intraprendere una via di sviluppo originale della rivoluzione socialista.

   Certo, non tutti i nostri compagni compresero la svolta del XX, e la necessità di accogliere la spinta che da esso veniva. E ciò non solo alla base, per ragioni evidenti di attaccamento emotivo a Stalin, per ciò che egli aveva rappresentato soprattutto durante la guerra antifascista, ma anche tra alcuni dirigenti qualificati. Tutto ciò diede luogo ad una acuta discussione. Eppure si riuscì nel complesso, ad evitare rotture, a garantire il rinnova­mento nella continuità.

   Vi furono poi partiti comunisti in cui la chiusura verso il XX Congresso portò ad una rottura interna, ad un distacco dalle masse, già scontente per precedenti errori di direzione, e di qui derivò la crisi polacca, con­tenuta entro limiti pacifici grazie a Gomulka, e il con­flitto civile in Ungheria.

   Di fronte ai fatti di Ungheria, dell'autunno '56, dopo qualche esitazione iniziale, noi rifiutammo l'atteggiamento di chi spiegava tutto con l'azione del nemico di classe. Questi certo operava, ma la causa vera della protesta delle masse ungheresi andava ricercata negli errori di direzione che erano stati compiuti, nella crisi che aveva investito il partito, ponendolo nella impossibilità di gui­dare il paese. Ciò aveva aperto la strada alle forze anti­socialiste, e aveva consentito ad esse di guidare, in una seconda fase, il movimento di protesta, aprendo un reale pericolo di controrivoluzione. Di qui la dolorosa neces­sità del grave intervento sovietico, che noi ritenemmo e riteniamo giusto.

   Ma quale discussione e quale travaglio ciò apriva nel PCI, quando si manifestavano, in modo così drammatico, tutte le difficoltà di edificare in modo giusto il sociali­smo; quando si rivelavano così gravemente gli errori com­piuti! Come più complesso appariva il rapporto tra la base economica e le superstrutture, il rapporto tra il partito e le masse!

   Fu in quella situazione che Mario Alicata ebbe a dire: «Vi sono momenti in cui bisogna decidere di diventare comunisti una seconda volta» [27]. Ma si trattava di diven­tarlo, aggiungo, in modo diverso, profondamente diverso. Chi non seppe farlo uscì dal partito, o vi rimase, nella maggioranza dei casi, fedele militante, ma non più alla altezza dei nuovi problemi che si ponevano.

   Il 6 aprile del '56 si apre il consiglio nazionale del PCI, che deve preparare la campagna per le elezioni amministrative. In quei giorni la stampa borghese ha rivelato e riprodotto il testo del «discorso segreto» di Chruščëv, uscito probabilmente dalla Polonia. L'emozione nel partito è enorme. Estesa ed accanita la speculazione degli avversari. Accesa ed anche confusa la discussione nelle organizzazioni comuniste.

   Nel suo rapporto al consiglio, Togliatti si concentra solo sui problemi della situazione politica e sul pro­gramma del partito per le elezioni amministrative. Non dice una parola su Stalin, e sulle cose che si erano in quei giorni sapute. Forse, nella sua lucida razionalità, egli pensava che in realtà si era già detto tutto, poiché la sostanza dei fatti rivelati dal «rapporto segreto» era stata da lui resa nota nel suo rapporto precedente al Comitato centrale. Non si rendeva conto, sufficientemente, in quel momento, a mio parere, che le masse si emozionano di fronte ai fatti, e di fronte a quelli dimenticano i concetti.

   Dopo il rapporto di Togliatti, serpeggiava nel con­siglio uno stato d'animo di delusione e di disagio. Come si poteva del resto mobilitare il partito per le elezioni amministrative, sotto il fuoco concentrato degli avversari, se non si affrontava il problema di cui tutti parlavano e di cui tutti soffrivano, da cui tanti erano disorientati?

   Un primo tentativo di correggere il tiro, di portare il discorso sui problemi sollevati dal «rapporto segreto» lo fece Giancarlo Pajetta. Ma chi prese il toro per le corna fu Giorgio Amendola. Egli espresse tutta l'emo­zione, il dolore dei compagni per le rivelazioni ricevute, ma sottolineò come, attraverso quel dolore, si compiva una nuova maturazione del partito. Erano infatti state tolte dal XX, egli disse, pesanti «ipoteche», che frena­vano la nostra ricerca di una via originale di sviluppo della rivoluzione socialista in Italia. Dalle insufficienze della ricerca, compiuta fino allora, derivavano gli ammic­camenti, i sottintesi: insomma l'adesione alla lotta per la Costituzione e la democrazia come cosa giusta e ne­cessaria, ma come una tattica provvisoria, dietro la quale prepararsi ad un improvviso mutamento di obiettivo e di metodo di lotta. Vi è invece continuità, sottolinea Amendola, riprendendo un tema sempre svolto da To­gliatti, tra la nostra lotta per la Costituzione e la lotta per il socialismo. Attuare la Costituzione significa ri­muovere una serie di ostacoli che fanno da sbarramento sulla via del socialismo; la lotta per la Costituzione è una lotta rivoluzionaria.

   È chiaro che Amendola ha contrapposto, alla impo­stazione dei lavori data da Togliatti, un'altra imposta­zione. È questo un momento che non manca, nei lavori di quel consiglio nazionale, di tensione e direi anche di drammaticità.

   Ma, nelle conclusioni, Togliatti riprende magistral­mente il tema dello stalinismo, addita le condizioni in cui si sviluppò la rivoluzione sovietica, le durezze obiettive che poterono facilitare quegli errori, la necessità che, in quei tempi di ferro, di fronte al fascismo che stava per ricoprire l'Europa, tutto il movimento comunista si ser­rasse intorno all'Unione Sovietica, dividendone le gran­dezze e gli errori, ed anzi degli errori non riuscendo e rifiutando quasi di prendere coscienza. Ma egli indica anche la grande forza che emana dal XX Congresso, dal coraggio di quella autocritica. Era il discorso di cui i compagni sentivano la necessità.

   Se Togliatti, nel suo discorso al Comitato centrale dopo il XX, aveva affrontato il giudizio sulla persona di Stalin, è nella famosa intervista a Nuovi argomenti, nel giugno '56, che egli affrontò il problema della genesi, delle ragioni, della natura del cosiddetto «stalinismo». Qui l'obiezione che egli muove al modo in cui Chruščëv ha affrontato l'argomento, e quindi la sua critica dei limiti del XX Congresso, si fa chiara.

   «Sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare come causa di tutto i difetti personali di Stalin, si rimane nell'ambito del "culto della personalità". Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo, ora tutto il male viene attribuito agli altrettanto gravi e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell'altro, siamo fuori dal criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica potè giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità, e persino di degene­razione.» [28]

   Il termine «degenerazione» solleva la critica della Pravda, ma Togliatti la respingerà con l'appoggio di tutto il Comitato centrale.

   Togliatti rifiuta le tesi di coloro che vedono nelle degenerazioni, denunciate dal XX, una ragione per met­tere in discussione il socialismo. Mentre afferma che nell'URSS si deve andare ad un ristabilimento della demo­crazia sovietica e ad un suo allargamento, nega che in essa si debbano compiere mutamenti istituzionali, quali un ritorno al parlamentarismo, al pluripartitismo. Sot­tovaluta tuttavia, a mio parere, il fatto che la necessità di taluni mutamenti istituzionali si ponga anche se essi devono restare nel quadro della democrazia socialista sovietica.

   Egli ricerca la radice delle deformazioni conosciute dal regime sovietico, durante la direzione di Stalin, nella forte tradizione burocratica dello Stato russo, non debel­lata dalla rivoluzione, e su cui Lenin, negli ultimi anni della sua vita, aveva richiamato fortemente l'attenzione. Indica anche come una causa, l'asprezza della lotta contro le opposizioni di Trotskij, poi di Trotskij-Zinovjev e Kamenev, e infine di Bucharin. Erano in discussione que­stioni di vita o di morte per la rivoluzione.

   Stalin, dice Togliatti, «ebbe in quel periodo... una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si potrà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidate da lui accettarono tali modificazioni nel funzionamento del partito e dei suoi orga­ni dirigenti, tale nuova funzione degli apparati diretti dall'alto, per cui non poterono più opporsi quando ven­nero alla luce le cose cattive, oppure non compresero nemmeno bene all'inizio che si trattava di cose cattive» [29].

   Giocò forse una concezione semplicistica e schematica del socialismo - in questo senso economicistica, io di­rei - per cui una volta eliminato il capitalismo, tutti i problemi potevano considerarsi risolti, superate le con­traddizioni oggettive.

   Ma non era così. E di fronte alle difficoltà nacque la tendenza a spiegare tutto con l'azione del nemico, dei sabotatori. Ora questi esistevano, ma la lotta contro il sabotaggio finì, proprio perché non si aveva sufficiente coscienza delle difficoltà oggettive, per valicare ogni limite e travolgere un'enorme quantità di ottimi compagni.

   Ma forse il cuore della spiegazione che Togliatti dà degli errori del tempo di Stalin sta in questa afferma­zione: «Stalin fu ad un tempo espressione ed autore di una situazione, e lo fu tanto perché si dimostrò il più esperto organizzatore e dirigente di un apparato di tipo burocratico, nel momento in cui questo prese il soprav­vento sulle forme di vita democratica, quanto per aver dato una giustificazione di quello che in realtà era un indirizzo errato e sul quale poi si resse fino ad assumere forme degenerative il suo potere personale» [30].

   Quanto alla corresponsabilità dei dirigenti degli altri partiti comunisti, Togliatti afferma qui come «i diri­genti comunisti non avessero nessun elemento che con­sentisse loro di dubitare della legalità dei giudizi, soprat­tutto perché sapevano che, sconfitti politicamente... i dirigenti dei gruppi di opposizione non erano alieni dal perseguire la lotta con mezzi terroristici» [31].

   «Il fatto che tutti gli accusati confessassero - aggiunge - suscitò senza dubbio sorpresa e discussioni anche tra noi, ma non altro.» [32]

   Queste affermazioni possono oggi suscitare sorpresa, ma non va dimenticato che i processi del '37 e '38 si svol­gevano col fascismo dilagante in Europa, durante la guerra di Spagna, quando la necessità di serrarsi intorno all'Unio­ne Sovietica costituiva una ragione di vita o di morte. Nulla poteva essere concesso al nemico, nemmeno all'in­terno della psicologia comunista. Assai difficile era in quel momento una effettiva autonomia critica.

   Testimonianze successive ci dicono però che Togliatti, pur non essendo effettivamente in grado di valutare tutti i fatti, avvertiva che qualche cosa di abnorme si andava compiendo. Egli si muoveva però in una di quelle situa­zioni in cui un sottufficiale della polizia può contare di più di un segretario dell'Internazionale. Del resto, in una sua riunione, lo stesso Comitato centrale del partito sovie­tico sottolineò la necessità di porre un alt ai processi e alle cosiddette epurazioni, ma la cosa rimase senza effetto.

   Anche successivamente, Togliatti, nel suo intervento al Comitato centrale del giugno '56, in preparazione dell'VIII Congresso, e lo stesso Comitato centrale del partito, fecero proprie solo due autocritiche. Togliatti afferma: «Esiste [una nostra corresponsabilità], perché noi abbiamo accettato senza critica una posizione fonda­mentalmente falsa, circa l'inevitabile inasprimento della lotta di classe, con il progresso della società socialista, teoria che era stata enunciata da Stalin e dalla quale derivarono terribili violazioni della legalità socialista. Esi­ste anche una nostra responsabilità di aver accettato e introdotto nella nostra propaganda il culto della perso­na di Stalin, anche se qui si deve riconoscere che ci siamo guardati dal trasportare quel metodo all'interno del nostro partito» [33].

   In realtà, a me sembra che alcune forme di «culto» per Togliatti qua e là si verificarono, non mai la sostanza del «culto»: il venir meno del lavoro collegiale, della discussione aperta e anche della critica a sue posizioni.

   L'intervista di Togliatti a Nuovi argomenti rappre­senta il maggiore e più riuscito sforzo, certo non esau­stivo, di superare i limiti del XX Congresso e di comin­ciare a indagare sulle ragioni profonde del fenomeno, che quel congresso aveva avuto il coraggio e il merito di denunciare.

   Occorre riconoscere che su quella via indicata da To­gliatti il Partito comunista italiano non seppe gran che lavorare, e grandi progressi non si ebbero. È pur vero che nessun aiuto, anzi, venne da chi poteva maggior­mente darlo, dai compagni sovietici [34].

   Il solo partito, se non sono male informato, che compì uno sforzo di indagine che, senza giungere alla finezza e alla profondità di analisi di Togliatti, rappre­senta tuttavia qualche cosa di importante fu il Partito comunista cinese. Parlo dei due documenti A proposito di un'esperienza storica riguardante la dittatura del pro­letariato (dell'aprile '56) e Ancora sull'esperienza della dittatura del proletariato (del dicembre '56).

   Non vi sono divergenze tra l'analisi di Togliatti e quella del Partito comunista cinese. Anche qui si cerca di dare un giudizio equilibrato della persona di Stalin e di porne in rilievo i meriti. Si dice però: «Tuttavia Stalin, dopo aver conquistato un alto prestigio nel popolo con la precisa applicazione della linea leninista, si abbandonò a una eccessiva esaltazione della parte da lui svolta, e oppose la propria autorità individuale alla direzione col­lettiva» [35]. Il giudizio più interessante, proprio perché cerca di risalire alle cause, è questo: «Il culto della personalità è un male ereditario che si tramanda sin dall'antica storia dell'umanità. Il culto dell'individuo ha le sue radici non solo nelle classi sfruttatrici, ma anche tra i piccoli produttori. È ormai riconosciuto che il pater­nalismo è un prodotto dell'economia del piccolo pro­duttore» [36].

   Il merito del secondo documento cinese sta nel porre in rilievo che, anche in una società socialista, l'armonia nel rapporto tra la struttura economica e la superstruttura non è automatica; che si possono produrre sfa­sature tra l'una e l'altra, e quindi la necessità di adeguare lo Stato, le sue istituzioni, le forme della vita civile allo sviluppo della base economica. Sono le famose contrad­dizioni all'interno delle file del popolo, che non hanno un carattere antagonistico, che devono essere subordinate alla contraddizione principale, antagonistica, con il ne­mico di classe, e che vanno risolte partendo dalla soli­darietà, attraverso la critica e la lotta.

   L'affermazione è importante, perché riafferma una tesi che era presente in Marx, e poi dimenticata, secondo cui anche in una società socialista esistono contraddizioni. Questa vive ancora, dice Marx nella Critica del Pro­gramma di Gotha, «nell'angusto orizzonte giuridico borghese».

   Interessante è ancora osservare come i documenti cinesi critichino la teoria strategico-tattica formulata da Stalin nei Principi del leninismo, secondo cui, come ricor­davo, il colpo principale va portato sulle forze intermedie, per osservare, sulla base della loro esperienza politica [37], che ciò è vero solo alcune volte, ma che nella maggioranza dei casi il problema sta proprio nel portare il colpo principale contro il nemico principale.

   Se con l'VIII Congresso, il PCI trae dal XX Con­gresso del PCUS la spinta che gli è necessaria per fondare le linee essenziali di una strategia innovatrice, capace di affrontare i problemi della rivoluzione socialista in un paese di capitalismo sviluppato, il dibattito su Stalin non si acquieta allora definitivamente. Il XX Congresso, dice Togliatti, è stato una tappa non solo di sviluppo ma di svolta innovatrice. Non si può tornare indietro.

   Tale dibattito riprende con il XXII Congresso del PCUS nell'autunno del '61. In questo congresso Chruščëv rinnova in pieno la critica a Stalin e rende pubbliche le accuse, prima riservate, del «rapporto segreto». Egli non supera tuttavia i limiti della denuncia. Per farlo, del resto, egli non avrebbe dovuto soltanto risalire alle radici storiche degli errori dei tempi di Stalin, ma porre anche in discussione il rapporto che, in quegli anni, si era stabilito, e continuava, tra il partito e lo Stato - cioè di identificazione sostanziale tra i due, e di subordinazione dello Stato al partito. Avrebbe dovuto porre in discus­sione il rapporto del partito con la società, esistente in URSS, in cui il partito si presenta non solo, come è giusto, quale dirigente politico e ideale della società medesima, centro di organizzazione della vita sociale, ma anche come supremo amministratore di essa in tutti i suoi momenti. Avrebbe dovuto denunciare difetti di per­sistente centralismo burocratico. Per fare questo Chruščëv non aveva né la capacità soggettiva né le possibilità oggettive.

   Le perplessità, diciamo pure il malcontento di To­gliatti, per quel modo, già da lui criticato, di affrontare la questione di Stalin, si manifestano nel suo rapporto al Comitato centrale dell'11 novembre 1961.

   Egli illustra e valorizza largamente il programma trac­ciato dal XXII Congresso del PCUS, per gettare le basi economiche del comunismo. Ma quanto a Stalin dice: «Ci si chiede se fosse davvero necessario riaprire il capi­tolo della denuncia e concentrare il fuoco contro un gruppo di vecchi collaboratori di Stalin, esclusi dal Co­mitato centrale nel 1957» (si trattava di Molotov, Malenkov, Kaganovič e Ščepilov) [38]. Alla domanda, aggiunge Togliatti, «non è facile dare una risposta». Certo, egli osserva come si capisca ora meglio la lotta del XX con­tro quanto vi era di vecchio e superato. Ma la nuova denuncia non aggiunge nulla a quanto si sapeva. Poi afferma: «Può darsi che per noi queste denunce non fossero più necessarie». Egli approva, come giusto atto di valore simbolico, la traslazione della salma di Stalin dal mausoleo in cui essa si trovava accanto a quella di Lenin, ma quanto al mutamento del nome della città di Stalingrado in Volgograd, osserva: «Personalmente ri­mango invece perplesso di fronte alla decisione di cam­biare il nome della città di Stalingrado, e non per un riguardo per Stalin, ma perché con quel nome milioni e milioni di uomini hanno indicato, indicano e continue­rebbero egualmente ad indicare, la famosa battaglia che cambiò il corso della guerra mondiale».

   La discussione che si svolge nel Comitato centrale è molto ampia e contrastata [39]. Gerardo Chiaromonte non esprime soltanto la sua piena adesione al XX e al XXII Congresso, ma afferma che non è affatto scontato che tutto il Partito comunista italiano sia conquistato alla linea della via italiana al socialismo. Egli ritiene dun­que - in sostanza, in polemica con Togliatti - che quella ripresa della critica a Stalin fosse necessaria anche per noi.

   Per Amendola, indicare i limiti che, ancora una volta, il XXII Congresso ha avuto nella critica a Stalin non significa diminuirne il carattere positivo. Noi abbiamo posto con forza, dice, di fronte alle divergenze che sorgevano con i compagni cinesi la esigenza della unità inter­nazionale. Questo era giusto, ma ha comportato un atte­nuarsi della nostra ricerca di una via nazionale nostra, originale. Dopo l'VIII Congresso, ci siamo concentrati sul modo concreto di attuarne la linea, ma abbiamo atte­nuata la ricerca sui grandi temi della democrazia socia­lista, delle vie nazionali.

   Tra l'altro afferma: «Il mutamento del nome della città di Stalingrado può provocare turbamenti, ma dob­biamo accettarlo come espressione di volontà di distru­zione di un mito che ha pesato sulla vita dell'Unione Sovietica».

   Anche Alicata sottolinea la necessità di riprendere la ricerca e la elaborazione teorica sui grandi temi dell'VIII Congresso del PCI. E quanto a Stalingrado dice: «Il mu­tamento del nome ha un significato politico che dobbiamo accogliere e ribadire».

   Ho solo dato alcuni esempi. Credo si possa dire che il Comitato centrale non accettò, nella sostanza delle cose, il rapporto di Togliatti. Era la prima volta, e restò l'unica, che questo avveniva.

   Nelle conclusioni del dibattito Togliatti cercò di cor­reggere esasperazioni ed esagerazioni, che certo vi erano state. Di richiamare i compagni alla realtà delle cose, allo stato effettivo del movimento comunista internazio­nale e del modo in cui si ponevano allora i rapporti tra i partiti. Ma, nella sostanza, egli ignorò e mortificò l'esi­genza di una più approfondita e audace ricerca sui mag­giori problemi, che giustamente veniva dalla discussione. Quella replica deluse il Comitato centrale. Ma non fu tanto per certe asprezze polemiche, che nella replica non mancarono, quanto, credo, per il fatto che nelle sue con­clusioni erano presenti numerosi riferimenti delicati a problemi che si ponevano nel movimento operaio inter­nazionale, e Togliatti stesso chiese che le sue conclu­sioni non venissero pubblicate. Era quella la prima volta, e restò l'unica, che le conclusioni ài Togliatti al Comitato centrale non vennero pubblicate.

   Le conclusioni vennero date, il 28 novembre, da un ampio documento della segreteria, ovviamente con l'ap­provazione di Togliatti. Un documento audace, equili­brato e senza compromessi. Nel documento si dice come l'ampio dibattito che si sta svolgendo nel partito indichi il giusto sforzo di individuare i nuovi problemi che si pongono al movimento operaio nazionale ed internazio­nale. Si afferma la necessità di ricavare da tutto ciò una spinta alla nostra elaborazione ideologica e politica. Si sottolinea come, in una società socialista, vi sia sempre la necessità di adeguare le sovrastrutture statali allo svi­luppo della struttura economica, e come di qui debba derivare la necessità di una rottura col passato, quale era stato appunto il XXII Congresso. Si insiste ancora sulla necessità di sviluppare la nostra indagine sul cosiddetto «stalinismo».

   Il rapporto di Togliatti al Comitato centrale era stato tenuto, per abbreviare i tempi, senza che si svolgesse la riunione della direzione del partito che, di norma, prepara le riunioni del Comitato centrale, ed era stato un errore. Di qui anche era derivato il contrasto fra il rapporto di Togliatti e l'orientamento della maggioranza dei compagni. Le successive riunioni della direzione, il comunicato della segreteria superano il contrasto. Anzi, il modo in cui To­gliatti segue la stesura del documento della segreteria e lo approva dimostra che in lui si è compiuto il necessario ripensamento.

   Nell'ultimo scritto della sua vita, nel Promemoria di Yalta, dell'agosto '64, egli ritorna ad insistere con forza sul valore innovatore del XX Congresso e sulla necessità di mandarne avanti la linea.

   «Il problema cui si presta maggiore attenzione, per ciò che riguarda tanto l'Unione Sovietica quanto gli altri paesi socialisti, è oggi quello del superamento del regime di limitazione, di soppressione delle libertà democratiche e personali instaurato da Stalin. L'impressione generale è di una lentezza e resistenza a ritornare alle norme leni­niste, che assicuravano al partito e fuori di esso larga libertà di espressione e di dibattito, nel campo della cul­tura, dell'arte e anche nel campo politico. Questa len­tezza e resistenza è per noi difficilmente spiegabile, so­prattutto quando non esiste più l'accerchiamento capita­listico e la costruzione economica ha ottenuto successi grandiosi. Noi partiamo sempre dall'idea che il sociali­smo è il regime in cui vi è la più ampia libertà per i lavoratori, e questi partecipano di fatto in modo orga­nizzato alla direzione della vita sociale. Salutiamo quindi tutte le posizioni di principio e tutti i fatti che indicano che tale è la realtà in tutti i paesi socialisti, e non soltanto nell'Unione Sovietica. Recano invece danno a tutto il movimento i fatti che talora ci mostrano il contrario.» [40]

Note

[1] Cfr. XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 12.
[2] Ibidem, p. 40.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem, p. 26.
[5] Ibidem, p. 39.
[6] Cfr. Problemi del socialismo nell'URSS, in Rinascita, Quaderno, ottobre 1952, pp. 15 e sg.
[7] Ibidem, p. 34.
[8] Opere complete, cit., v. 23, p. 67.
[9] XX Congresso del PCUS, cit., p. 41.
[10] Ibidem, p. 42.
[11] Ibidem, pp. 42 e sg.
[12] Ibidem, p. 175.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem, p. 199.
[15] Ibidem, p. 204.
[16] Cfr. E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 180 e sg.
[17] Cfr. P. Togliatti, Opere, v. III, cit., p. CCXXVI.
[18] Cfr. Palmiro Togliatti, cit., p. 46.
[19]P. Togliatti, II XX Congresso del PCUS, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 50.
[20] Ibidem, p. 53.
[21] Ibidem, p. 71.
[22] Ibidem, p. 71.
[23] Ibidem, p. 73.
[24] Ibidem, p. 74.
[25] Ibidem, p. 77.
[26] Ibidem, p. 78.
[27] In una riunione della commissione culturale della Federazione torinese del PCI, contemporanea ai fatti di Ungheria.
[28] P. Togliatti, Sul movimento operaio internazionale, Roma, Edi­tori Riuniti, 1964, p. 249 e sg.
[29] Ibidem, p. 251.
[30] Ibidem, p. 254.
[31] Ibidem, p. 259.
[32] Ibidem.
[33] P. Togliatti, Problemi del movimento operaio internazionale, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 147.
[34] Un passo avanti credo abbia fatto Giuliano Procacci nel suo saggio, Il partito nel sistema sovietico, in Critica marxista, a. 12, n. 1, gennaio-febbraio 1974, n. 2, marzo-aprile 1974. Ma la ricerca dovrà considerare anche altri aspetti.
[35] I comunisti cinesi e la dittatura del proletariato, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 15.
[36] Ibidem, p. 17.
[37] « C'è stato un periodo (i dieci anni della guerra civile tra il 1927 e il 1936) durante il quale alcuni dei nostri compagni hanno rigidamente applicato questa formula di Stalin » (ibidem, p. 25 e sg). « Il risultato è stato che invece di isolare il vero nemico, noi isola- vamo noi stessi, e subivamo delle forti perdite, mentre il nemico ne traeva vantaggio » (ibidem, p. 26).
[38] Cfr. l'Unità, 11 novembre 1961.
[39] Cfr. l'Unità, 12 novembre 1961.
[40] Sul movimento operaio internazionale, cit., p. 375.