Dare vita alla fase costituente
di una nuova formazione politica

Mozione presentata da una maggioranza schiacciante (si vedano le firme in coda) al congresso di scioglimento del PCI del marzo 1990. Il testo è ripreso da "Documenti per il Congresso straordinario del PCI, n. 3", supplemento a l'Unità del 23 gennaio 1990, pp.3-36.


1. Le ragioni fondamentali
per proporre una nuova formazione politica

  Il Pci decide di aprire una fase costituente e di impegnare le proprie forze per dare vita a una nuova formazione politica della sinistra italiana. L'obiettivo è quello di costruire una forza capace di rimettere in moto un processo di aggregazione delle correnti riformatrici della società italiana, e ciò sulla base di un programma di rinnovamento sociale e politico volto a ridefinire l'identità della sinistra alle soglie del Duemila. I mutamenti epocali nella scena mondiale e la fine della guerra fredda, che ha condizionato nel profondo anche la storia politica italiana, richiedono un salto di qualità nella iniziativa dei comunisti. La fine della vecchia divisione del mondo pone alle forze riformatrici (a tutte, compreso il Pci) enormi pro­blemi. Il comunismo italiano non è travolto dalla crisi dei paesi del «socialismo reale». L'autonomia ideale e politica del Pci, il suo radicamento nella società italiana, la sua grande storia che fa tutt'uno con la storia della democrazia e delle libertà italiane, la sua critica di lunga data dei modelli statali autoritari e burocratici dell'Est trovano anzi conferma nel tumultuoso processo in atto. Questi fatti sconvolgenti non mettono, quindi, in causa, di per sé, la peculiare identità del Pci. La crisi del «socialismo realizzato» porta con sé il rischio che ad essere travolti siano, in tanta parte del mondo, gli ideali stessi del socialismo. Da ciò ne viene il pericolo di una omologazione ai modelli sociali attuali e agli equilibri di potere dominanti dell'Occidente capitalistico.

   Ma vi è anche la possibilità che la battaglia per il socialismo riprenda slancio su basi nuove; che essa conosca «un nuovo inizio». Vi è la possibilità, innanzitutto per le giovani generazioni, di essere protagoniste di una società futura, nella quale contro vecchie e nuove costrizioni e aliena­zioni, possa affermarsi la grande idea della libertà di ciascuno come condizione della libertà di tutti. I comunisti italiani intendono impegnarsi per questa prospettiva. Ciò richiede un profondo rinnovamento culturale e politico e, insieme, una loro convergenza con altre forze di ispirazione socialista e progres­sista oltre divisioni storiche, le cui ragioni appaiono larga­mente superate dai processi in atto nel mondo. La nuova sfida del socialismo sta nella capacità di dare risposte ai grandi problemi della civiltà umana: il pericolo nucleare, il rischio di catastrofe ecologica, il divario crescente e drammatico fra Nord e Sud del mondo, il problema della democrazia e del suo concreto affermarsi come valore universale, in presenza e in lotta con poteri sovranazionali e grandi potentati che tendono a sottrarsi a ogni controllo. Questa sfida ha, dunque, un carattere nuovo. Essa non può più essere reciprocamente distruttiva, ma si deve svolgere sul terreno della cooperazione, della qualità delle proposte, della capacità di «governare il mondo» verso fini di emancipazione e liberazione umana, sulla base di idealità, scelte, valori che vanno oltre le logiche e gli orizzonti del capitalismo. La sinistra italiana può dare, nel solco della sua tradizione internazionalista, un contributo importante sul piano europeo e mondiale a questa battaglia. La guerra fredda ha condizionato, nel profondo, anche la storia politica italiana, imponendo una democrazia incompiuta e un blocco del sistema politico con gravi degenerazioni e rischi incombenti di involuzione. Si creano ora nuove e più favorevoli occasioni per proporre e fare avanzare una prospet­tiva di alternativa nel nostro paese. Da tempo si è esaurita una lunga fase di sviluppo e consolidamento del sistema democra­tico italiano: quella fase che è stata chiamata della «democra­zia consociativa». Da oltre un decennio, in concomitanza con un gigantesco processo di ristrutturazione economica che ha spostato risorse e poteri a danno dei lavoratori e dei ceti più deboli, vi è un vero e proprio ristagno della vita democratica, una crisi profonda, un rischio concreto di regressione, di restringimento della democrazia. Mentre la capacità dei partiti di interpretare i bisogni e i movimenti che si esprimono nella società civile si indebolisce sempre più. Nella fase più recente questa tendenza negativa è venuta aggravandosi per il preva­lere, all'interno dell'alleanza di governo, di forze che puntano apertamente ad un consolidamento della «democrazia bloc­cata» anche sulla base di un patto con i gruppi più conserva­tori del grande capitale finanziario.

   E' difficile pensare che una nuova prospettiva possa aprirsi senza una profonda riforma del sistema politico italiano; una riforma non solo delle regole ma dei meccanismi del potere e dei soggetti (istituzioni e partiti) che costituiscono il nostro sistema democratico. L'idea di una fase costituente per dare vita a una nuova formazione politica della sinistra italiana nasce da qui. Non basta più un rinnovamento del Pci, sia pure profondo, per cominciare a dare risposte a questa esigenza. Ciò che ci proponiamo è la costruzione di un nuovo soggetto, che sia il punto di incontro di forze diversamente collocate, ma in vario modo prigioniere di un sistema politico e di potere segnato dalle discriminanti ideologiche che hanno operato nell'epoca della guerra fredda. Questo non significa certo tagliare le nostre radici. Significa al contrario dare ad esse nuova linfa. Noi possiamo farlo perché la nostra stessa origina­lità, rispetto ad ogni altro partito comunista, anche in Occi­dente, consiste nell'essere stati, storicamente, punto di contatto e di frontiera tra molteplici esperienze e idee del progressismo e del riformismo. È questo tratto peculiare della tradizione comunista italiana che può oggi consentirci di svolgere un ruolo dinamico e insostituibile nel nuovo processo politico che si apre. Non dunque di autoscioglimento del Pci si tratta. Ma della costruzione di una nuova formazione politica democra­tica, popolare, riformatrice, aperta a componenti progressiste laiche e cattoliche, interprete delle nuove domande che ven­gono dal mondo del lavoro e della cultura come dai movimenti dei giovani e delle donne, dall'ambientalismo, dal pacifismo e dal movimento per la nonviolenza, dal femminismo. Una nuova forza della sinistra che non esaurisce tutta la sinistra.

   Di questa nuova formazione i comunisti vogliono essere promotori, con il loro patrimonio ideale, organizzativo e politico.

2. Una politica per il mondo
che esce dalla contrapposizione Est-Ovest

  Il fatto da cui noi partiamo nel proporre una svolta così radicale è dunque quel mutamento profondo della struttura del mondo che deriva dalla fine della guerra fredda e delle logiche dei blocchi (militari, politici, ideologici). Il mondo scisso è spinto dai fatti a cercare le vie della sua unificazione. Perciò la fine della contrapposizione Est-Ovest obbliga tutti a ripensarsi e a trasformarsi. Il crollo del muro di Berlino è solo l'aspetto emblematico della fine di un assetto mondiale. Di qui possono sorgere nuove prospettive positive ma anche rischi di destabilizzazione e spinte nazionalistiche e regressive. La stessa questione della unificazione tedesca - qualora non si conciliasse il diritto alla autodeterminazione dei popoli con la sicurezza reciproca in un contesto di unificazione europea - può essere tale da mettere in discussione, assieme alla prospet­tiva politica della perestrojka di Gorbaciov, anche la pace nel mondo. Ma, oltre ai pericoli, il dissolversi, in tempi straordina­riamente accelerati, dell'ordine politico che ha retto il pianeta per oltre quarant'anni, rompe una gabbia, libera forze, non solo in Europa, apre nuovi orizzonti, e crea problemi e conflitti inediti, che dovranno essere guidati dentro l'alveo di un effettivo processo di democratizzazione. Di fatto vengono meno i presupposti dei sistemi di idee e di forze che hanno determi­nato per quasi un secolo le forme della coscienza, sia quella dei governanti che dei governati, la concezione stessa del socia­lismo.

   A questo punto anche i modelli dominanti dello sviluppo, fondati sulla crescita quantitativa, sul ruolo trainante delle spese militari e su una spartizione dei mercati che monopolizza le risorse materiali e immateriali a vantaggio di ristrette oligarchie possono essere rimessi in discussione, mentre il procedere del disarmo può aprire la strada a un diverso uso della potenza scientifica e tecnologica. E questo può consentire di passare da una retorica della solidarietà verso il Sud del mondo a uno sviluppo realmente nuovo, effettivamente soli­dale, capace di superare le attuali divisioni. Ritorna di attua­lità la grande intuizione di Berlinguer sulla necessità di una profonda trasformazione del modo di produrre e di consumare dei paesi industrialmente sviluppati, l'idea cioè di una produ­zione e di un consumo solidali con le esigenze di sviluppo dei paesi più poveri. La combinazione di questi fatti ci indica la reale portata dei problemi che una nuova politica deve essere in grado di affrontare e padroneggiare.

   Il mondo non è più pensabile secondo i vecchi schemi. La concezione totalitaria del socialismo generata dal movimento comunista, è approdata a esiti tragici. D'altra parte le grandi novità mondiali spingono ad andare oltre quelle concezioni tradizionali della socialdemocrazia fondate su una politica redistributiva e su una sostanziale accettazione dei modelli di crescita quantitativa. Di qui nasce la necessità di un nuovo pensiero, di una nuova scala di valori, di una nuova politica. Crollano i miti del collettivismo autoritario, ma le nuove risposte ai bisogni dell'umanità non possono essere trovate nell'individualismo e nella lotta di tutti contro tutti, si deve affermare, in forme nuove, l'idea della libertà come responsa­bilità verso di sé e verso gli altri, e quella della solidarietà. La sopravvivenza dell'umanità è il primo problema della politica. E questo significa affermare, come abbiamo fatto al XVIII Congresso, un più ampio concetto di sicurezza, che parte dalla questione della pace e della guerra, ma va al di là di essa.

   Prioritario resta, dunque, l'obiettivo del disarmo. Ma oltre al folle rischio di una conflagrazione mondiale è necessa­rio scongiurare altre possibili catastrofi, mettendo in campo le risorse indispensabili per arrestare il deterioramento fisico, chimico e biologico del pianeta e, quindi, per consentire uno sviluppo generale accettabile dall'insieme della popolazione mondiale. Ne discende la necessità di una costante e più incisiva mobilitazione dei popoli per accelerare il processo di disarmo con atti e scelte nuove, di cui sia promotore anche il nostro paese (ad esempio in riferimento agli FI6 in Calabria, all'allargamento delle zone denuclearizzate, alla riduzione delle flotte nucleari). Non ci si deve fermare al pure impor­tante equilibrio verso il basso degli arsenali militari delle due grandi potenze. Sottrarre risorse alle spese per gli armamenti in favore della vita è oggi il primo imperativo etico. Centinaia di milioni di esseri umani moriranno di fame nel prossimo decennio se non si muoverà qualche passo in questa direzione. In tal senso un rinnovato movimento per la pace non potrà non avanzare proposte, e sollecitare controlli, sull'uso delle risorse sottratte alle spese per gli armamenti.

   Da tutto quanto si è detto, deriva che la lotta per il progresso non è più riducibile allo scontro tra sistemi contrap­posti. Ma con ciò la sfida al capitalismo non si abbassa ma si alza. Essa sta, appunto, nel governare le interdipendenze, nel far proprie le nuove spinte alla libertà, all'affermazione di sé, per i nuovi diritti, la salvaguardia dell'ecosistema, la valorizza­zione dei bisogni sempre più differenziati di un mondo di miliardi di uomini e di donne che (anche in conseguenza della rivoluzione delle comunicazioni, dell'informazione, della scien­za) non accettano di essere emarginati, divisi in cittadini e sudditi. In tutto il mondo una grande trasformazione nella esistenza e nella coscienza delle donne sta schiudendo una inedita possibilità: quella di realizzare la libertà femminile. Essa spinge a mutamenti radicali nei modi di vivere, di produrre, di organizzare la società, secondo un autonomo orizzonte di liberazione umana. Essa comporta in tutto il mondo una redistribuzione dei rapporti di potere tra i sessi. La libertà femminile non è una resa alle ragioni di un egoistico individualismo, ma è una grande risorsa per una regolazione più giusta dei rapporti sociali. La nuova soggettività femminile costituisce la più grande rivoluzione non violenta del nostro secolo.

   La sfida sta quindi nel porre al centro le donne e gli uomini, che sono «il fine del socialismo e non il mezzo per realizzare un ideale astratto». La sfida è quella di fare della soggettività degli individui e dei popoli il motore di una nuova grande politica democratica. E in questo senso profondamente nuovo che parliamo della democrazia come via del socialismo. Ciò richiede un più largo spirito unitario perché solo incon­trandosi e contaminandosi reciprocamente, e non chiudendosi in se stesse, idee, culture, religioni diverse possono concorrere a un nuovo progetto di liberazione umana, a un umanesimo moderno. Ma questo progetto resterebbe astratto se non facesse i conti con un capitalismo inedito, il quale, per le logiche che lo dominano (finanza, concentrazioni di potere non soltanto economico, uso distorto della scienza), affidato alla propria spontaneità, è sempre meno in grado di superare le laceranti contraddizioni di un mondo di 5 miliardi di uomini che non può essere integrato nel modello consumistico dell'Oc­cidente. Quel che occorre è dunque un diverso governo dello sviluppo, un diverso rapporto tra Stato e mercato, tra politica ed economia, in cui lo Stato e le forze politiche e sociali non siano subordinati a una economia senza regole, e siano, allo stesso tempo, in grado di misurarsi fino in fondo con le ragioni della efficienza e della produttività, di utilizzare il mercato, regolandolo. Fondare nuove regole, nuovi diritti sociali e nuovi poteri democratici e istituzionali transnazionali, all'altezza della nuova fase di sviluppo economico, è questione decisiva.

   Si tratta, dunque, di scendere sul terreno dei conflitti reali del mondo moderno e di affrontare le forze della conservazione nella loro effettiva potenza che non consiste solo nello sfrutta­mento del lavoro salariato ma nelle nuove forme di dominio che si estendono a tutte le sfere della vita sociale. E di affrontarle non solo con l'arma delle rivendicazioni economi­che ma della libertà, dei nuovi diritti, e dei bisogni umani, del valore delle differenze e, quindi, essenzialmente, sul terreno dei nuovi poteri democratici. È in considerazione di tutto quel che si è detto che è oggi possibile e necessario un nuovo fronte riformatore che cominci a pensare il socialismo come un «processo mondiale». Un processo multiforme di cui facciano parte quelle forze socialiste e socialdemocratiche che si pongono ormai apertamente il problema di un diverso governo dello sviluppo, quei movimenti cristiani che si interrogano, e si impegnano, con crescente incisività, per l'affermazione dei valori di una rinnovata solidarietà, i movimenti verdi che pongono la questione di uno sviluppo sostenibile, i movimenti femminili. I comunisti italiani, anche sulla base di analisi compiute da tempo, sono disponibili a confrontarsi e mesco­larsi con altre esperienze per realizzare una effettiva e positiva trasformazione dell'esistente. Mettendo in moto un processo che sia in grado di concepire il governo del mondo come il risultato di una cooperazione multipolare e pacifica fondata sull'idea dell'inter­dipendenza e non come l'inveramento di un disegno già dato. Una simile idea del socialismo non comporta affatto l'accettazione del mondo così com'è, la rinuncia alla lotta per cambiarlo, la sottovalutazione dell'asprezza dei con­flitti drammatici che l'attraversano. Significa invece comin­ciare a dare risposte politiche effettive a quei «grandi problemi del mondo» su cui abbiamo posto l'accento fin dal congresso di Firenze. Le nostre stesse idealità resterebbero astratte se non si traducessero in un concreto progetto storico che abbia la forza di una sintesi politica superiore. Ma questa impresa sarebbe impossibile se non si partisse dal fatto che si è chiusa una intera esperienza storica segnata non solo dalle degenerazioni di tipo staliniano ma da una determinata concezione del socialismo caratterizzata da una visione totalizzante del partito e dello Stato.

   Le speranze, i valori, le ragioni di impegno politico dei comunisti italiani restano quindi un immenso patrimonio umano, culturale e morale che non può essere cancellato, ma che deve essere reinverato. Né perdono significato le domande da cui è sorto il movimento comunista: il superamento di un modello di società alienante e mercificata, la ricerca di una nuova dimensione della politica che tenda a superare l'opposi­zione tra governanti e governati, la necessità di guardare ad un possibile futuro di liberazione dell'uomo. Ma la risposta a queste domande può venire solo dalla capacità - che è stata tipica del Pci - di costruire un intreccio di politica realistica e di tensione verso una nuova storia, un rapporto coerente tra mezzi e fini. Questa capacità è chiamata oggi a una nuova prova. Si tratta di realizzare nei fatti un processo che sviluppa l'idea di terza fase della storia del movimento operaio di cui parlava Enrico Berlinguer.

   Tutto ciò sarà possibile soltanto se sapremo misurarci senza riserve con gli orientamenti delle altre forze della sinistra europea. Perciò noi proponiamo al Congresso la scelta strate­gica dell'adesione del nostro partito all'Internazionale sociali­sta nella quale si riconosce oggi la maggior parte delle forze riformatrici europee. Essa costituisce già un interlocutore ineludibile delle forze riformatrici di ogni parte del mondo. Tale organizzazione si è modificata nel corso del tempo superando limiti eurocentrici, e al suo interno è destinata ad aprirsi una dialettica nuova, alimentata dal fatto che crescono, di fronte alle novità mondiali, le responsabilità del socialismo europeo, e che occorre compiere chiare scelte politiche capaci di porre l'Europa al centro della scena mondiale come fattore di pace e di cooperazione; aperta al rapporto con le forze riformatrici che emergono dai processi in corso nell'Est euro­peo, collegata ai movimenti progressisti del Terzo mondo. Chiediamo pertanto al Congresso un mandato che autorizzi il gruppo dirigente che sarà eletto, ad avviare, già nel corso della fase costituente, un rapporto con gli organismi dell'Internazio­nale socialista per discutere e realizzare al più presto le condizioni di una nostra adesione. Muovendosi su questa base, un partito come il Pci non recide certo le sue radici. Al contrario, fa vivere il meglio della propria storia in un orizzonte più alto e in un mondo che è radicalmente cambiato.

   Oggi abbiamo la forza e l'autorità per farlo. Se rinuncias­simo a tale prospettiva, mentre la realtà cambia, e cambiano con essa la coscienza, i bisogni, la percezione delle cose e delle forze in campo da parte soprattutto delle nuove generazioni, noi rischieremmo di non essere più tra i protagonisti delle nuove scelte strategiche che premono, col risultato di inaridire proprio quel nostro grande patrimonio. Il Pci non è stato una variante nazionale dello stalinismo. Non è per doppiezza o per calcolo strumentale che fummo tra i fondatori della democra­zia parlamentare italiana, attori principali del suo rinnova­mento, difensori delle libertà continuamente minacciate dalle vecchie classi dirigenti, attori di grandi processi di emancipazione e promozione sociale che hanno caratterizzato questo mezzo secolo dell'Italia repubblicana. Ciò deve essere detto con chiarezza, e non per ragioni di patriottismo di partito ma perché non farlo significherebbe imbiancare le pagine più importanti scritte in questi decenni dalla cultura riformatrice italiana. Non si farebbe torto solo al nostro passato. Si toglierebbero basi al futuro, si renderebbe più difficile il cammino di ogni forza riformatrice che voglia andare avanti. I comunisti italiani hanno visto, sin da quando erano ancora parte del movimento comunista internazionale, il carattere strutturale delle crisi dei regimi dell'Est. E tuttavia una errata percezione ci ha per lungo tempo portato a pensare che fosse possibile una qualche riforma di quei modelli sociali e politici, e ciò ha impedito che giungessimo già da tempo ad affermare che in quelle società si rendeva necessaria una profonda rivoluzione politica. Abbiamo troppo a lungo sostenuto la piena valorizzazione della democrazia senza trarne la conse­guenza che quelle società che la negavano non potevano essere considerate socialiste. Il permanere di un simile equivoco era destinato a offuscare davanti alle grandi masse popolari e soprattutto tra i giovani, gli ideali stessi del socialismo e, in qualche modo, il nostro stesso profilo.

   Per ridare ad essi slancio e vigore non servirebbe una difesa statica, di tipo ideologico, della nostra identità, che rischierebbe di tagliarci fuori dal movimento reale. La sua difesa sta in una capacità effettiva di innovazione politica e culturale. Il problema è quello di ricollocare il Pci in una situazione storica completamente diversa assumendo una ini­ziativa politica adeguata ai tempi, capace di cogliere le nuove occasioni che si offrono alla sinistra per superare antiche divisioni, per tornare a svolgere un ruolo di governo in Europa. Una iniziativa politica capace, al tempo stesso, di fronteggiare i rischi anch'essi nuovi e gravi che si presentano.

3. Per riformare la democrazia italiana,
per costruire l'alternativa

  In presenza di mutamenti così radicali degli assetti mondiali e delle concezioni finora dominanti, il blocco del sistema politico italiano appare sempre più insostenibile e anacronistico. Anche sul piano nazionale, occorre andare oltre l'attuale sistema politico, che, con la «conventio ad excludendum», ha a lungo rispecchiato la grande lacerazione e la dura contrapposi­zione esistente a livello internazionale. Non è pensabile uno sblocco della democrazia italiana, la costruzione di una alter­nativa di progresso, senza rimettere in campo energie, forze e culture progressiste che in Italia sono molto grandi ma non sono in grado di pesare adeguatamente a causa non soltanto delle loro vecchie divisioni ideologiche, ma del blocco costi­tuito da un sistema politico e di potere che le ingabbia. Occorre quindi una profonda riforma del sistema politico e di potere imperniato sulla centralità della Dc, che non riguardi soltanto le regole e le istituzioni, ma che investa i soggetti, i partiti, le forme della rappresentanza. La nostra proposta di dar vita a una fase costituente per la creazione di una nuova forza riformatrice nasce anche da qui. Essa è frutto della nostra storia. Nel corso del tempo ci siamo infatti aperti a molteplici sollecitazioni provenienti dal riformismo socialista, da quello di origine liberaldemocratica e radicale, abbiamo riflettuto su quanto poteva arricchirci dell'elaborazione del riformismo cattolico, sui principi dell'autonomia e del decen­tramento, sul valore civile e umano di esperienze come quelle del volontariato. Oggi pensiamo si possano e si debbano trarre le conseguenze di questa lunga opera di riconoscimento ed elaborazione. L'obiettivo è quello di una rifondazione della politica, sulla base di una discriminante programmatica e ideale, tra progresso e conservazione.

   È un processo che tende a mettere in discussione tutte le «anomalie» del sistema politico italiano: quella costituita dalla alleanza tra socialisti e conservatori nel governo e nel sistema di potere; quella rappresentata dall'«unità politica dei catto­lici», che fa convergere ispirazioni diverse e contrapposte all'interno del partito democristiano. Noi siamo attenti a quelle forze del cattolicesimo democratico che vivono il trava­glio legato al superamento della centralità democristiana e della sostanziale unità politica dei cattolici; un travaglio reso più acuto dallo slittamento conservatore della Dc e dalla crisi di prospettiva della sinistra democristiana. Questo movimento si esprime oggi in una pluralità di presenze sociali, civili, culturali, e manifesta insieme sia l'esigenza di conservare e valorizzare l'autonomia della propria cultura che quella di partecipare alla costruzione di un nuovo polo riformatore. La fase costituente che vogliamo aprire è dunque un processo unitario, su basi nuove, che intende aggregare un'ampia area riformatrice. Un processo che deve svilupparsi prima, durante e dopo la costituzione di una nuova formazione politica. E che mira a promuovere una profonda trasforma­zione dell'intero sistema politico. Già oggi la nostra iniziativa suscita attenzione nelle forze politiche democratiche, ed è destinata a sollecitare, nei fatti, una loro ricollocazione, a spingere, cioè, verso una fase costituente dell'intero sistema politico italiano, che non potrà non avere, come sbocco, una riforma profonda delle regole politiche e istituzionali.

   È evidente che indichiamo una prospettiva diversa rispetto alla cosiddetta «unità socialista». E questo innanzitutto perché, nella impostazione del Psi, vengono messe in ombra le scelte programmatiche e ideali intorno alle quali le forze riformatrici possono unirsi e le ragioni reali e politiche delle loro attuali divisioni. Sottolineare questa diversità non significa eludere l'esigenza di un confronto vero col partito socialista. Al contrario l'avvio di un processo di trasformazione del Pci è teso a sollecitare un rinnovamento politico e culturale del Psi. Chiede ai socialisti un bilancio serio della loro lunga esperienza di governo con la Dc, una ricollocazione programmatica e poli­tica sul terreno della alternativa e di una autentica ispirazione riformista. Da questo punto di vista resta valido quanto affermato nella relazione al XVIII Congresso. «Per quel che riguar­da i rapporti col Psi - si diceva - tutta la nostra recente politi­ca si è mossa nell'ottica di promuovere una sempre più ampia e coerente unità riformatrice. L'unico modo per farlo è quello di procedere alla verifica della serietà degli impegni programma­tici». Sempre al XVIII Congresso avevamo indicato la centra­lità della riforma istituzionale in vista di una riforma della politica. Si affermava nella relazione: «Noi diciamo che og­gi realizzare le condizioni per il confronto tra alternative pro­grammatiche può essere un obiettivo comune di iniziativa, indipendentemente dalla futura collocazione di ciascuno in un diverso sistema politico. Il successivo e conseguente traguardo di tale processo potrebbe essere quello della costruzione di una politica di alternativa e magari di una nuova alleanza politica democratica, popolare e riformatrice, in grado di unificare, anche in modo articolato, tutte le correnti di progresso laiche e cattoliche. Questa stessa ipotesi ci dice che in Italia la ricomposizione di tutte le forze di progresso non avverrà ripercorrendo a ritroso verso la sorgente il corso dei fiumi e rigagnoli dell'intricato delta della sinistra italiana, ma seguirà strade nuove e inesplorate, risponderà a problemi inediti, si incontrerà anche con forze, esperienze, lotte che non sono espressione diretta di nessuna delle tradizioni in campo. Il compito di ciascuno di noi sarà quello di non imporre orgo­gliose e prevaricanti egemonie, ma di operare con l'umiltà, la serenità, la pazienza della levatrice per favorire il generarsi di nuove esperienze, il venire alla luce di una nuova forza politica, perché possa per davvero fiorire qualcosa di nuovo».

   Il fallimento della stagione delle riforme istituzionali, l'accelerazione di tutti i processi politici sulla scena mondiale e, di fronte a ciò, la profonda svolta moderata in corso nel nostro paese, l'affermarsi di una maggioranza che ha come programma quello di congelare e rafforzare la situazione di democrazia bloccata, tutto questo ci spinge a invertire oggi l'ordine dei processi. Ci induce a partire da noi e da una società civile sempre più oppressa e soffocata dalla cappa del sistema politico e di potere. In sostanza, quanto al XVIII Congresso appariva collocato in un orizzonte temporale di medio periodo diviene oggi elemento di immediata iniziativa politica.

   L'obiettivo che noi ci poniamo è quello di superare una democrazia dimezzata, esposta al rischio di gravi involuzioni per aprire una nuova prospettiva allo sviluppo economico, sociale e civile dell'Italia, mettendo in grado il nostro paese di fronteggiare le sfide dell'internazio­nalizzazione e del futuro. Non si tratta quindi di affidarsi a manovre di corto respiro nell'illusione che ciò basti ad aprirci le porte del governo. Si tratta di creare le condizioni per una alternativa al modo in cui questo paese è governato da decenni, spezzando una logica, che diventa sempre più asfittica, di compromessi corporativi e di spartizione del potere, cui consegue non solo un crescente degrado dei servizi ma una sempre minore capacità dello Stato di garantire il rispetto della legge e i diritti dei cittadini. In effetti, ciò a cui stiamo assistendo, è una delega sempre più larga a «poteri occulti e privati» compresi - in certe zone - quelli criminali, con la conseguenza che le grandi decisioni politiche vengono bloccate oppure si spostano sempre più al di fuori delle istituzioni rappresentative.

   Il sistema di governo tende a diventare sempre più oligarchico, insofferente di ogni effettivo controllo sia del Parlamento che della informazione che del potere giudiziario. Tutto ciò confligge con gli interessi generali del paese, dato che la sfida dell'internazionalizzazione imporrebbe profonde riforme, ma questo sistema le impedisce, col rischio di portare l'Italia in condizioni di grave debolezza all'unificazione euro­pea. Il paese ha vissuto in questi anni trasformazioni profon­dissime che l'hanno modernizzato e collocato tra le maggiori potenze economiche del mondo. Ma il modo in cui è avvenuta la grande ristrutturazione comincia a sollevare seri interroga­tivi che non riguardano solo l'economia ma il rapporto tra cittadini e Stato, la coesione sociale, i valori e le mete collettive. Il problema italiano non può più essere posto nei termini di una rincorsa dei paesi più industrializzati. Più ricchi e più moderni lo siamo diventati ma al prezzo di squilibri e ingiustizie anche nuovi che non si esprimono solo in termini di reddito, ma di opportunità, diritti, saperi, possibilità di con­trollo del proprio futuro. In Italia, inoltre, più che altrove, si è creata una vasta zona di parassitismo alimentata sia da un certo tipo di trasferimenti, sia da attività sostitutive di servizi pubblici allo sfascio, sia ancora dalle rendite finanziarie create dall'enorme indebitamento dello Stato. E questo mentre il mercato resta nelle mani di pochi grandi gruppi che control­lano la finanza, la Borsa, i giornali, le tv. Il tema, quindi, che fonda nel modo più serio e oggettivo la necessità di dar vita a una alternativa di governo è quello di modificare un tipo di sviluppo e di accumulazione basato in non piccola parte sul drenaggio di risorse pubbliche, sull'evasione fiscale, e, quindi, sul consumo di un patrimonio di infrastrutture, di risorse naturali, di cultura, di capacità umane. La nostra sfida ha, perciò, un alto significato nazionale. Si tratta di sostituire una vecchia classe dirigente che impedisce il formarsi di una nuova e più alta coscienza dell'interesse nazionale, e che ha ridotto lo Stato al ruolo di protettore di interessi particolari; uno Stato spartito, quindi poco legittimo, e perciò incapace di portare in Europa tutti gli italiani. Non spetta a questa mozione né al congresso straordinario definire il programma della nuova formazione politica. Ciò sarà il compito della fase costituente. Ma guardando alle novità e ai caratteri fondamentali del problema italiano, si può fin d'ora affermare che un pro­gramma riformatore, per incidere nella realtà e per sorreggere una alternativa di governo, deve investire il nesso sempre più stretto tra politica ed economia, tra meccanismo di accumula­zione e sistema di potere. Le forme e gli strumenti dell'inter­vento pubblico vanno profondamente ripensati. I nuovi poteri di comando (non soltanto sull'economia) delle grandi imprese a base sovranazionale, il superamento del tradizionale modello produttivo che rende più incerto il confine tra le attività di trasformazione e di servizio, l'importanza crescente del­l'ambiente come vincolo ma anche come possibile fattore di sviluppo: è tutto ciò che richiede nuove regole e nuovi stru­menti di intervento democratico che consentano di esaltare la crescente importanza dei fattori culturali, naturali, storici nel determinare la qualità e il livello dello sviluppo. Occorre intervenire dall'alto e dal basso. Non bastano nuovi indirizzi di governo. Decisive diventano nuove forme di partecipazione dei lavoratori alle scelte produttive. Centrale diventa la lotta per affermare nuovi diritti dei cittadini e degli utenti.

   Deve essere inoltre chiaro che non è possibile riformulare l'obiettivo della piena occupazione senza valorizzare la nuova qualità del lavoro, senza una redistribuzione del lavoro e del tempo della vita fra varie attività, senza riclassificare le politiche sociali in modo da migliorarne l'efficienza, e quindi la capacità di rispondere ai bisogni effettivi.

   Tutto questo non attenua ma acutizza la questione sociale, che tuttavia assume una nuova dimensione. Il fatto che funzioni pubbliche essenziali vengano inglobate in nuovi sistemi di comando, non sottoposti ad alcun controllo democratico, e che il mercato sia sempre più caratterizzato da un miscuglio di politica e affari e da distorsioni profonde create dal fatto che alcune imprese globali si sottraggono a ogni regola e dettano stili di vita, bisogni, valori, ha creato un campo di conflitti, potenzialmente molto radicali, che si affian­cano a quello classico tra salario e profitto. Tutte le differenze sociali e le disuguaglianze diventano qualitativamente diverse e più grandi perché non si misurano più solo in termini di reddito ma di servizi, scuola, opportunità di vita. Il ruolo della classe operaia è decisivo. Nelle sue lotte si esprime sempre più il conflitto tra queste tendenze, non solo allo sfruttamento ma al dominio, e la crescita intellettuale e culturale del mondo del lavoro, la quale contrasta non soltanto con una intollerabile sottoretribuzione ma con il senso di una ingiustizia nuova, acutissima che è data dall'incertezza, la precarietà, il non riconoscimento della professionalità, il diniego del diritto a sapere, a controllare, a partecipare alle decisioni.

   L'obiettivo di umanizzare e liberare il lavoro è, perciò, parte integrante di una politica economica volta alla piena utilizzazione delle risorse materiali e umane, alla qualità dell'occupazione, a nuove e più avanzate forme di democrazia economica. È proprio in conseguenza delle innovazioni tecno­logiche e delle profonde trasformazioni del sistema produttivo che il lavoro acquista sempre più un ruolo oggettivo, nel nostro e in altri paesi. Un ruolo non solo sociale, ma politico, dal quale dipende, in larga misura, l'avvenire dell'Italia democra­tica e moderna. Ma è questo stesso processo oggettivo a mostrare in modo evidente la gravità e i limiti di una operazione che ha teso, negli ultimi anni, a rendere subalterno e marginale il lavoro. In luogo della sua valorizzazione si è dato spazio non solo ai profitti ma alle rendite, a nuove ingiustizie, a logiche puramente finanziarie e speculative. Si sono così logorati e lacerati quei valori di solidarietà senza cui non si regge una società moderna.

   Tutto ciò spiega anche l'aggravarsi del problema del Mezzogiorno che rappresenta più che mai il principale pro­blema italiano. È ormai chiaro che una politica meridionali­stica non può avere successo se non aggredisce e trasforma la struttura sociale e il contesto politico e istituzionale delle regioni meridionali. Il problema di fondo dello sviluppo ita­liano riguarda, quindi, la qualità dell'intero sistema. Si tratta dell'ambiente fisico, per il quale è giunta l'ora di gettare un vero e proprio allarme per il degrado delle città come della natura, si tratta della qualità sociale minacciata sempre più dal degrado delle funzioni pubbliche, si tratta di quelle infrastrutture «immateriali» che costituiscono il vero «sistema nervoso» di un sistema economico e sociale moderno. Ma l'efficienza delle infrastrutture immateriali dipende essenzial­mente dalla qualità del capitale umano che le gestisce. E quest'ultimo, come d'altronde le stesse capacità imprendito­riali, dipendono, a loro volta, dalla qualità del «sistema educativo» (scuola, università e istituti di ricerca, formazione professionale permanente). Qui - forse più che altrove - si misura tutta la pochezza delle attuali classi dirigenti.

   Se la guida del paese nel processo di unificazione europea resterà nelle mani delle attuali forze dirigenti, la tendenza continuerà ad essere quella di attrezzare solo i gruppi econo­mici e finanziari più forti a scavalcare le Alpi ponendo al loro servizio lo Stato e le risorse collettive. La conseguenza sarebbe l'emarginazione delle zone più deboli dove, per reggere in qualche modo alle sfide di una competitività più stringente, aumenterà il ricorso al lavoro nero, all'illegalità diffusa, al parassitismo.

   È dall'insieme di queste considerazioni che deriva la necessità di una forza fortemente radicata nella realtà sociale, in grado di rappresentare innanzitutto i diritti e gli interessi dei lavoratori e di combattere contro vecchie e nuove ingiusti­zie ed emarginazioni. Al tempo stesso, muovendo in questa direzione e affrontando questi conflitti, sarà possibile costruire nuove alleanze.

4. Verso un programma fondamentale

  Una scelta come quella che viene proposta, la quale nasce dalla consapevolezza dei mutamenti storici in atto, e tende a delineare i caratteri non contingenti di una nuova formazione politica, pone l'esigenza di un vero e proprio «programma fondamentale». Definirlo non è compito di questo documento. Spetterà al processo costituente e al suo primo atto, la Convenzione programmatica, aprire una fase di confronto pluralista e di elaborazione collettiva, che ci veda protagonisti, insieme ad altre componenti, nello sforzo di rispondere alle grandi sfide che si prospettano alle forze di sinistra in Europa e nel mondo alla fine di questo secolo. Compito tanto più necessario nel momento in cui solo un programma di questo tipo e, quindi, una cultura che superi vecchie concezioni strumentali e propagandistiche, tali da non vincolare a chiare scelte programmatiche la politica reale della sinistra e il suo rapporto col problema del governo, può diventare la vera identità politica di una nuova formazione. In questa sede ci limitiamo ad indicare alcuni nodi e alcuni indirizzi:

   A) E' ormai sul terreno europeo che le forze del progresso e della conservazione dovranno definirsi misurando entro questo nuovo orizzonte tutti i loro atti e le loro politiche. Chi esiterà a rendersi conto di ciò e rimarrà chiuso nei confini nazionali, senza collegarsi organicamente con la realtà delle forze progressiste europee, è destinato a perdere forza e significato. È interesse della sinistra accelerare i processi di integrazione e costruzione dell'Europa comunitaria. Questo è il solo modo per guidarli, mettendo in campo il progetto di un'Europa politica, sociale, dei cittadini che consenta la definizione dei poteri delle istituzioni sovranazionali, del ruolo delle imprese multinazionali, delle legislazioni antitrust, dei diritti e dei poteri sia delle persone che delle associazioni e della collettività. L'Europa non è un campo neutro. Decisivo diventa il problema di un nuovo «spazio sociale» capace di contrastare le spinte a una concorrenza transnazionale fondata sulla compressione dei diritti dei lavoratori, uno «spazio sociale» basato su regole minime comuni e su diritti universal­mente riconosciuti, su una nuova democrazia economica. Accelerare la costruzione della unità dell'Europa dei 12, su queste basi, è essenziale anche per sostenere e aiutare i processi di riforma e di democratizzazione in corso nell'Est europeo, e per avviare una concreta politica di cooperazione con il Sud del mondo, di revisione delle ragioni di scambio, di soluzione del problema del debito dei paesi in via di sviluppo. Si tratta di un dovere e di un compito fondamentale per tutte le forze di sinistra e progressiste. In coerenza con ciò bisogna far avanzare un'idea più complessa e più ampia della costru­zione europea con il concorso di una molteplicità di istituzioni: in primo luogo un Parlamento europeo che abbia potere elettivo e a cui risponda un vero governo della Comunità; il Consiglio d'Europa che può essere aperto alle istituzioni democratiche dei paesi dell'Est; l'Efta che può associare nuovi soggetti economici dell'Est. Tutto ciò nell'ambito di una conferma e di uno sviluppo dei principi fissati a Helsinki. Fondamentale è dare impulso a nuovi accordi di disarmo relativi alle armi convenzionali e a quelle chimiche e strategi­che, a misure di fiducia e di disarmo sul mare, in particolare nel Mediterraneo, all'avvio della riconversione delle industrie belliche. La rapida conclusione di questi accordi deve aprire la via alla trasformazione e poi al superamento graduale della Nato e del Patto di Varsavia. La funzione di tali alleanze è sempre più politica e sempre meno militare, ma la loro improvvisa disgregazione potrebbe oggi provocare rischi gran­dissimi. L'obiettivo su cui puntare è quello di un sistema europeo di sicurezza comune perché solo questo renderà possibile la prospettiva di una «casa comune europea», e consentirà una cooperazione progressiva e graduale fra le economie e le istituzioni dell'Ovest e dell'Est.

   La questione delle due Germanie e del diritto all'autode­terminazione del popolo tedesco deve essere collocata nell'am­bito della costruzione dell'unità europea, del rispetto delle frontiere successive alla seconda guerra mondiale e in partico­lare di quelle sull'Oder-Neisse, del rispetto delle libere scelte democratiche e di sistema economico della Ddr e degli altri paesi dell'Est. La riunificazione non è il punto da cui partire e non è nemmeno all'ordine del giorno; la sua riproposizione oggi rischia anzi di bloccare i processi di riforma ad Est e la costruzione dell'unità europea.

   B) Tra i cardini di un programma fondamentale dovranno esserci i temi posti all'attenzione collettiva dalla nuova coscienza femminile. Il Pci, già nel XVIII Congresso, ha posto il progetto della differenza sessuale tra i fondamenti del suo programma teorico e politico. Siamo oggi di fronte alla necessità di raccogliere le sfide che tale assunzione comporta sia nella definizione dell'idea di socialismo che nella determi­nazione delle politiche concrete. Il progetto della differenza sessuale critica i rapporti sociali esistenti, fondati sulla divi­sione sessuale del lavoro e propone una qualità nuova dello sviluppo. Propone pertanto di valorizzare tutti i lavori svolti dalle donne e dagli uomini; garantire il diritto al lavoro per tutte e per tutti; attribuire finalità diverse al lavoro; consentire a donne e uomini di vivere contemporaneamente, su un piano di pari dignità, i molti tempi di vita; ampliare gli spazi della solidarietà sociale, riconoscendo i diritti di tutti i soggetti, anche di quelli non produttivi. Il progetto della differenza sessuale impone di riconoscere l'inviolabilità del corpo femmi­nile e il principio di autodeterminazione per sostenere le scelte che le donne compiono nel campo della sessualità e della procreazione. Esso constata che le donne sono state ignorate dai principi che sono alla base della democrazia moderna. In particolare esso critica il carattere neutro del concetto di eguaglianza, che ha aperto storicamente alle donne l'accesso alla politica, a condizione, però, di occultare la divisione in due sessi del genere umano. Se a fondamento dell'universo politico viene posto l'individuo neutro o una idea altrettanto neutra di umanità, nessuna conquista sociale, nessuna azione volta a colmare lo scarto tra condizione materiale e orizzonte ideale potrà consentire alle donne di accedere al pieno godi­mento della libertà. Il limite della democrazia fin qui cono­sciuta non sta solo quindi nelle promesse non mantenute ma anche nelle promesse mai fatte. Ciò significa considerare la democrazia come il luogo di una effettiva redistribuzione dei poteri e di una esplicitazione dei conflitti compreso quello tra i sessi. In gioco non è solo l'allargamento della democrazia, ma anche un mutamento delle sue forme, tale da metterla in grado di misurarsi con le concrete differenze. Un primo significativo passo in questa direzione è iscrivere la differenza sessuale nelle istituzioni, attraverso forme autonome di rappresentanza, basate sulla pratica della relazione fra donne, che richiedono proprie regole, sedi e poteri. L'esperienza e la riflessione teorica delle donne propone un nuovo orizzonte entro cui pensare e prospettare la libertà: un nuovo campo all'interno del quale acquistano senso e valore la consapevolezza del­l'appartenenza al genere umano sessuato, la responsabilità verso gli altri, la coscienza del limite, l'autonomia individuale.

   C) L'idea dello sviluppo deve radicalmente riorientarsi su fattori di equilibrio, di sostenibilità, di compatibilità. Il movi­mento operaio ha sostanzialmente condiviso l'idea di una illimitata espansione produttiva, affermatasi sin dalle prime fasi storiche del moderno industrialismo. L'impatto di questo tipo di sviluppo sulla biosfera ci fa però vedere oggi chiara­mente i rischi sempre più gravi di catastrofi planetarie. Perciò non solo è attuale la proposta di una riconversione ecologica dell'economia, ma essa deve rappresentare un punto fondante del programma della nuova formazione politica. Una simile riconversione è particolarmente urgente in Italia, dove il degrado ambientale è molto acuto, ma la riconversione ecolo­gica dell'economia comporta politiche sovranazionali e l'affer­marsi di crescenti elementi di «governo mondiale». Bisogni e costi ambientali devono potersi incorporare nel funzionamento del mercato, che dovrà essere sottoposto ad una generale nuova regolazione ispirata a tali esigenze di equilibrio. Ma ciò che è necessario non è solo una economia ecologicamente regolata: è una nuova fase della civiltà moderna. Una civiltà sostenuta da tecnologie più sviluppate delle attuali, conserva­tive dell'energia; non egoistica e consumistica ma solidarista e sobria, fondata su una società umana che si organizza secondo tempi e forme di vita e di lavoro più libere, più flessibili, meno dissipative; vivificata da un principio universale di responsabi­lità verso tutti i viventi e verso le generazioni future. Una società in pace con la natura.

   D) Bisognerà dare corpo a un progetto di umanizzazione e di liberazione del lavoro, come parte integrante di una politica economica volta alla piena utilizzazione delle risorse umane, alla massima occupazione qualificata, alla incentiva­zione della mobilità professionale e territoriale dei lavoratori; un progetto che si ponga come referente inderogabile, come «volto umano», delle forme di democrazia economica e di partecipazione alla gestione dell'impresa che una nuova legi­slazione dovrà regolamentare e promuovere. Ciò comporta un programma di formazione permanente che, di fronte alle nuove tecnologie e alla rivoluzione informatica, muova da coraggiose riforme dell'istruzione pubblica nella scuola secon­daria e nell'università e garantisca uguali opportunità a tutti i cittadini nell'accesso all'informazione e alla riconversione delle professioni e dei saperi, in tutte le fasi della vita umana; assicurando così, con iniziative finalizzate, la «possibilità-diritto» di ogni persona di superare i diversi handicap, fisici, sociali, culturali, etnici, che ostacolano oggi la loro piena e consapevole partecipazione all'attività lavorativa qualificata, alla vita sociale e al governo democratico della società.

   E) Dobbiamo batterci per una riforma dello Stato sociale, che superi le sue attuali degenerazioni assistenzialistiche e affermi le regole di una solidarietà trasparente fra gli individui attraverso una riforma del sistema fiscale che ci avvicini all'Europa, e l'istituzionalizzazione di spazi di autogoverno dei grandi servizi di interesse collettivo, con la partecipazione diretta delle rappresentanze dell'utenza.

   F) Ugualmente decisivo è un programma di riforme istituzionali nel quale si saldino innovazioni consistenti nel­l'amministrazione dello Stato, nel decentramento dei poteri, nella rigorosa separazione delle responsabilità tra i centri di decisione che determinano l'indirizzo politico dei servizi collet­tivi, quelli che ne assicurano la gestione e quelli che esercitano un controllo democratico sui risultati di questa gestione, con una legislazione dei diritti individuali e collettivi che assicuri una loro riunificazione sulla base del principio universale dell'uguaglianza delle opportunità. Condizione di ciò è uscire dalla vecchia cultura statalistica dello scambio corporativo, della pressione sulla spesa pubblica in senso sostanzialmente quantitativo. Occorre proporsi un diverso governo dell'accu­mulazione assumendo il risanamento della finanza pubblica come un vincolo per governare il bilancio ed impedire che l'uso e la distribuzione delle risorse siano imposti dalle rendite finanziarie e dagli interessi clientelari. Solo così sarà possibile influenzare anche la conformazione del mercato, rendendolo più aperto e creando e stimolando nuovi protagonisti. Il che comporta regole valide per tutti, capaci di contrastare le logiche monopolistiche.

5. Per una nuova aggregazione
sulla base del programma

  La preminenza programmatica nella definizione delle alleanze è già stata posta alla base dell'impostazione approvata a grandissima maggioranza dal XVII Congresso. Nelle tesi del XVII Congresso si affermava «la necessità di una nuova fase dell'iniziativa politica e della lotta per l'alternativa democra­tica, partendo da un programma riformatore e mirando ad aggregare un ampio schieramento di forze laiche e cattoliche». Ci si proponeva così di impegnarci non solo con altre forze politiche ma più in generale con quella vasta area di persona­lità, di competenze, di movimenti diversi che compongono la sinistra italiana, al fine «di lavorare anche per nuove aggrega­zioni politiche sulla base del programma». Al XVIII Con­gresso la definizione del rapporto tra programmi e schiera­menti veniva ulteriormente approfondita. Nelle tesi program­matiche si affermava infatti che «le domande che vengono dalla società propongono scelte sulla quantità e sulla qualità dello sviluppo, e investono i caratteri dell'organizzazione sociale e dello Stato. Nel corso di questo processo si svolge una lotta tra forze di progresso e forze conservatrici per definire intese sociali e aggregazioni di segno diverso ed opposto. Sempre più essenziale è partire dalla visione programmatica e non da una visione schematica e statica degli schieramenti sociali».

   Sulla base di questa impostazione nella relazione intro­duttiva al XVIII Congresso si affermava che «l'alternativa deve poggiare su una proposta programmatica in grado di rispondere a problemi che non riguardano solo le forze che si sentono rappresentate dai partiti e dai movimenti della sini­stra, ma di parlare a un insieme composito di aspirazioni e di interessi, ai settori deboli della società, a tutti coloro che si sentono penalizzati ed esclusi, a tutte quelle forze dinamiche del paese che mirano a un nuovo governo dei processi di trasformazione; il campo dell'alternativa deve essere articolato, rappresentativo di un ampio arco di forze laiche e cattoliche». Su questa base si parlava della necessità di far sorgere «nuove aggregazioni». La nostra è quindi una risposta precisa alla domanda con chi e contro chi si vuole dar vita a una nuova formazione politica, ed è una risposta in continuità con l'innovazione fondamentale introdotta dal nuovo corso. La risposta a chi ci chiede «con chi» è infatti che è il nostro stesso atto che, rompendo una gabbia, quella del sistema politico bloccato, il quale comprime e disperde forze culturali, sociali e politiche, può portare alla aggregazione di un nuovo polo riformatore attorno a un programma fondamentale.

6. Nuovo pensiero politico
e rinnovata concezione del partito e dei movimenti

  La nostra visione del primato dei programmi, nella individua­zione e definizione delle alleanze sociali e politiche, ha un grande valore teorico e pratico. Essa non può non incidere sulla concezione stessa dei soggetti politici, e cioè dei partiti, dei movimenti e del loro reciproco rapporto. A una vecchia concezione del partito corrisponde una esperienza dell'autono­mia dei movimenti che rischia di configurarsi come isolamento reciproco. Le linee di scorrimento tra movimenti e partiti tendono così a chiudersi, l'azione del partito viene sospinta prevalentemente sul livello istituzionale e i movimenti tendono a trasformarsi, essi stessi, in piccoli partiti.

   Tutto ciò conduce a isterilire e ossificare la funzione degli uni e degli altri. Ripensare una nuova forma-partito non significa in alcun modo negare la funzione autonoma dei movimenti. Al contrario si tratta di rivoluzionare, complessiva­mente, l'insieme del sistema politico, e non solo dal lato degli schieramenti elettorali e delle leggi elettorali.

   Per garantire la vitalità e la presenza dei movimenti nella società italiana occorre creare le condizioni politiche dell'alter­nativa. Perché tali condizioni si verifichino non è sufficiente l'alternanza tra schieramenti, forze e sigle, ma si rende neces­saria una alternativa di contenuti e di forze sociali e politiche. In questo quadro essenziale è il confronto con il sindacato, da realizzare sui contenuti e sui programmi, secondo un rapporto che si fondi sul pieno riconoscimento del ruolo politico e della autonomia del sindacato medesimo. Tutto quanto detto può essere facilitato e accelerato dall'emergere di una nuova formazione politica, che non si configura come adesione di altre forze al Pci, ma che prevede un atto costituente capace di aggregare esperienze, percorsi, pratiche politico-sociali diverse, che intendano diventare attivi soggetti contrattuali della nuova formazione politica.

7. Le donne soggetto fondante
la fase costituente di una nuova formazione politica

  Nel quadro di questa impostazione si colloca come esperienza fondante e paradigmatica della nuova forma-partito quella delle donne. Da componente sempre più importante dentro un partito sorto al di fuori dell'esperienza della rivoluzione femminile, le donne si propongono soggetto costitutivo della nuova formazione politica. L'emergere della nuova soggetti­vità femminile, con le diverse teorie e pratiche da essa prodotte, è la prova più eloquente della necessità di superare i limiti della vecchia forma partito. Al di fuori di questa consapevolezza l'assunzione della differenza sessuale si riduce a mera retorica, a fraseologia astratta. Il ruolo peculiare delle donne nella fase costituente ha un fondamento storico, ideale, pratico dovuto ai seguenti motivi:

   a) I movimenti femministi, in Italia e nel mondo, hanno introdotto nella realtà e nella coscienza di milioni di donne, e nei loro rapporti con gli uomini e con la società nel suo insieme, novità dirompenti.

   b) L'elaborazione e la pratica della differenza sessuale tendono a costituire le donne come soggetto autonomo, capace di un suo proprio progetto teorico e, quindi, di indicare un proprio orizzonte ideale e politico fondato su una visione duale della società. Un tale orizzonte è senza dubbio differente da quello del socialismo classico; differisce dalle prospettive e idealità storicamente elaborate dal movimento operaio; esso è altro non solo rispetto alle teorie e alla pratica dei partiti comunisti dell'Est europeo, ma anche rispetto alla tradizione delle social­demo­crazie, comprese le più avanzate, così come rispetto alla elaborazione del Pci, che pure da tempo ha riconosciuto l'esistenza della contraddizione di sesso accanto a quella di classe.

   c) L'esperienza delle donne comuniste è in tal senso significativa ed illuminante. Le donne comuniste sono state protagoniste delle battaglie per l'eguaglianza e l'emancipa­zione femminile, obiettivi propri della storia del movimento operaio. Esse si sono riconosciute anche nell'appartenenza al sesso femminile e nell'aspirazione alla sua piena libertà.

   L'esperienza della Carta delle donne ha rappresentato lo sforzo più maturo e consapevole di delineare una nuova identità, ad un tempo comunista e femminile. Ciò ha signifi­cato per le donne comuniste un percorso di autonomia e una pratica di relazione tra donne, dentro e fuori il partito. Questo percorso ha cominciato a produrre un'autonoma ela­borazione programmatica, di cui l'aspetto più significativo è la proposta di legge di iniziativa popolare per cambiare i tempi di vita, iniziativa che non ha precedenti in Europa. Ha promosso concrete battaglie che hanno coinvolto migliaia di donne, soprattutto nel Mezzogiorno, contro la violenza ses­suale, per la difesa del principio di autodeterminazione nella sessualità e nella procreazione; per lavorare tutte; per rendere più umani i tempi di vita; contro la mafia e la camorra, per la democrazia.

   Il Pci ha saputo raccogliere nuove istanze di trasforma­zione avanzate dalle donne. Ne è prova la presenza di tante donne negli organismi dirigenti del partito e nelle istituzioni e la sperimentazione di sedi originali dell'autonomia femminile, che pongono il Pci all'avanguardia tra i partiti della sinistra europea.

   Nel corso della loro esperienza, tuttavia, le donne comu­niste hanno vissuto uno scarto tra la loro soggettività e la forma partito, modellata tuttora su regole, comportamenti, un uso dei tempi essenzialmente maschile.

   Più in generale finché la crescita della soggettività poli­tica delle donne è rimasta inscritta entro i confini di un movimento sociale che non metteva in discussione i principi della rappresentanza politica, la sua mediazione entro la forma partito è apparsa praticabile. Ma quando questa soglia è stata superata e ci si è trovati dinanzi a un soggetto che aspira a una sua peculiare rappresentazione politica, la forma partito si è rivelata non solo insufficiente ma contraddittoria.

   Le donne comuniste hanno sperimentato il rischio che la loro pratica agisse in parallelo a quella del partito, senza incidere adeguatamente sulle sue idee-forza, sul suo orizzonte programmatico, sui tempi e sulle sue scelte politiche concrete. La stessa esperienza delle donne comuniste ha quindi posto all'ordine del giorno la questione della riforma della politica e della forma-partito.

   d) Più in generale, nella società italiana, un numero sempre crescente di donne, presenti e attive nel mondo del lavoro, delle professioni, della produzione culturale e della ricerca, hanno manifestato un bisogno nuovo di politica, hanno espresso una critica complessiva delle forme e dei contenuti della politica attuale, nelle istituzioni e nei partiti: ne hanno denunciato i riti astratti e la separazione rispetto ai problemi della vita quotidiana, della sfera della riproduzione, delle esigenze dei più deboli. Il sistema politico italiano, rigido, ad un tempo, e stagnante, non è certo in grado di dar risposta a quei bisogni e a quelle critiche. Senza un'azione di trasformazione e messa in movimento dell'attuale assetto politico, la soggettività femminile non riuscirà a sprigionare tutta la sua carica antagonista e innovatrice. Questa critica, in una certa misura, tocca anche il Pci. Lo stesso Pci non è in grado, seppure imboccando la strada di una proficua rifonda­zione, di rappresentare e far esprimere tutte le forze, i sog­getti, le culture interessate, a partire da idealità anche diverse, alla lotta per cambiare la politica.

   Per queste ragioni le donne costituiscono un soggetto realmente interessato ad una riforma della politica. Interessate all'affermarsi di una nuova formazione riformatrice che dia espressione al loro bisogno nuovo di politica che parli alle donne che oggi sono ricacciate nell'estraneità, nella separa­zione tra sfera pubblica e sfera privata, che costituisca un polo di attrazione per forze femminili oggi diversamente collocate. È dunque possibile segnare, fin da principio, la nuova forma­zione politica della presenza sessuata delle donne. Tale pre­senza, sulla base della pratica della relazione tra donne e dei conflitti che ne scaturiscono, partecipa alla definizione del programma fondamentale e alla costruzione delle regole e delle forme che assumerà la nuova formazione politica.

8. I caratteri della nuova formazione politica

  Noi ci proponiamo l'obiettivo di porre i comunisti italiani al centro, come forza promotrice, di una grande politica, che non si rivolge solo a una parte della società ma a tutto il paese. E ci proponiamo di farlo entrando in contatto con nuovi linguaggi, con nuove esperienze, mettendo in campo l'originalità di una tradizione riformatrice e riformista così come essa è stata filtrata dalla inedita elaborazione dei comu­nisti italiani, per porla al servizio di un atto di rinascita complessiva delle speranze e dei progetti delle forze progressi­ste. Esiste oggi una sinistra sommersa, un potenziale riforma­tore che taglia trasversalmente la società civile, le sue orga­nizzazioni e i partiti ma che non riesce ancora a trovare adeguata espressione politica. La stessa esperienza della Sini­stra indipendente ha rappresentato un modo per dare voce a personalità e gruppi di diversa ispirazione democratica e progressista, altrimenti non rappresentati nel sistema politico italiano. Noi stessi avvertiamo l'esigenza di andare oltre questa esperienza verso un rapporto organico nella forma­zione delle decisioni e delle scelte politiche e programmatiche. C'è, come si è detto, un movimento cattolico progressista che sta attraversando una fase di profondo e fecondo rinnova­mento. C'è il movimento dei Verdi, che ha il merito di aver posto al centro la grande questione ecologica, che come noi dà priorità ai programmi sugli schieramenti, e intuisce la collocazione trasversale delle forze riformatrici, ma che incon­tra difficoltà, anche per i limiti attuali della sinistra, a ricono­scersi in un quadro di rapporti politici coerentemente rifor­matore, e corre il rischio di una acritica equidistanza tra l'alternativa e il vecchio blocco di potere. C'è un movimento radicale che con le sue battaglie ha sollecitato l'esigenza di una riforma della politica, di nuove libertà civili, di nuove regole democratiche.

   Queste diverse componenti ideali e politiche della sini­stra vogliamo che siano interlocutrici e protagoniste della fase costituente di una nuova formazione politica. Anche attra­verso passaggi e tappe intermedie, ad esempio in vista delle prossime elezioni amministrative, le cui forme, la cui utilità potranno emergere ed essere chiarite nel confronto reale con i nostri interlocutori. L'idea stessa della costituente nasce dalla convinzione che esistano oggi le condizioni per una nuova ricerca unitaria nel campo della sinistra, che non sarà il prodotto di un pensiero solitario, ma l'atto fecondo di una rinnovata volontà collettiva. Ma la nostra proposta sorge anche dalla coscienza di un limite, quello di operare dentro una vecchia forma partito non più adeguata alla complessità sociale e politica della nostra società e allo stesso riorganiz­zarsi delle forze di progresso su scala planetaria. Ma nasce anche dalla possibilità, che sentiamo in noi, del superamento di quel limite nel contatto vivificante con altre culture pro­gressiste.

   È del tutto evidente che l'opera volta a confederare diverse ispirazioni culturali e progressiste non è in contrappo­sizione con la verità del comunismo ideale, con la sua intui­zione di una umanità ricca, con la prospettiva del riconosci­mento comune dei bisogni di ciascuno. E il tragico fallimento di regimi che a quegli ideali pretendevano di ispirarsi non consente di demonizzare un pensiero e una corrente comuni­sta che - al di là di ciò - è stata presente nei vari continenti e moti di liberazione di questo secolo. Rimane tuttavia il fatto - sconvolgente sul terreno della coscienza di grandi masse, e soprattutto dei più giovani, su scala mondiale - che la verità interna di quell'orizzonte ideale non è stata raccolta e inverata dal movimento comunista al potere, da quella prova dell'opera che, sola, dà effettiva forza alle idee.

   Il movimento comunista e il socialismo reale si sono caratterizzati per una determinata visione totalitaria del potere e per un rapporto perverso tra mezzi e fini che ha condotto a una crisi storica di proporzioni incalcolabili. L'in­contro tra diverse tradizioni progressiste e culture dell'epoca nuova, fondando la nuova prospettiva storica sul valore uni­versale della democrazia, contribuirà, anche, a ridefinire i mezzi, gli strumenti, e un nuovo rapporto tra mezzi e fini che, a partire dalla nonviolenza, ci colloca al di fuori della tradizione storica del movimento comunista, e la supera in avanti. Noi proponiamo così al Congresso di assumere la responsabilità storica di promuovere un processo e nello stesso tempo chiediamo alle forze di diversa cultura e ispira­zione oggi disponibili a battersi per la riforma della politica e per l'alternativa, di prendere coscienza anch'esse e fino in fondo di un loro limite con un atto che sia, come il nostro, insieme di modestia e di grande coraggio ideale e politico. La proposta di aprire una fase costituente volta a dar vita a una nuova formazione politica rinvia alla elaborazione del pro­gramma fondamentale e alla definizione della nuova forma-partito. Noi siamo sempre stati, e sempre più vogliamo essere, una forza profondamente radicata nella classe operaia e, in generale, in un mondo del lavoro sempre più articolato.

   È questo, innanzitutto, che ci ha reso una grande forza popolare del paese quale siamo e vogliamo continuare ad essere. Ma a tal fine, come molti segnali ci hanno indicato negli ultimi tempi, è necessaria una profonda trasformazione di noi stessi, quale quella che proponiamo. Siamo infatti convinti che solo mescolandoci con nuove energie riforma­trici diffuse nel tessuto sociale del paese e oggi non protagoniste della politica, solo traendo linfa da un loro autonomo contri­buto culturale e politico potremo continuare ad essere la forza popolare che siamo. Questa sensibilità per il nuovo, il nostro partito l'ha sempre avuta e a più riprese si è mosso nella direzione del proprio rinnovamento. Tutto questo, però, oggi non basta più.

   È necessario che il nostro partito, anticipando gli altri, assuma sino in fondo, e partendo da se stesso, l'esigenza di una radicale riforma della politica. Sarebbe errato e inganne­vole pensare di corrispondere a questa esigenza attraverso un'opera di riorganizzazione del Pci. Se così fosse avremmo dovuto convocare una conferenza organizzativa e non un congresso straordinario. Naturalmente noi ci basiamo sul grande patrimonio culturale, morale, politico del nostro par­tito. E facciamo leva sul nostro ricco patrimonio organizza­tivo articolato nella società e nei luoghi di lavoro. Ma è giunta l'ora di farlo aprendoci a una nuova pluralità di ispirazioni, di interessi, di volontà trasformatrici. Il carattere profondamente innovativo della nostra proposta sta proprio in questo atto fecondo di apertura ad altre componenti ideali progressiste, che non portano solo esigenze, ma intuizioni, indicazioni, proposte e alle quali, perciò, non si tratta di presentare un modello già predeterminato. Al contrario esse saranno chiamate a un confronto autentico, a una attiva partecipazione nella definizione della nuova forma-partito. Sarebbe una grave manifestazione di boria di partito non coinvolgere in tale discussione i nuovi soggetti, le diverse sensibilità progressiste, quella parte della società italiana inte­ressata alla nuova forza riformatrice e a cui chiediamo un forte contributo di proposte nel corso della fase costituente.

   La nuova formazione, comunque, per ciò che riguarda il suo regime interno, non potrà non superare radicalmente il centralismo democratico, e considerare invece fisiologico e prezioso il confronto libero e aperto tra posizioni e piatta­forme diverse. Occorreranno perciò regole che garantiscano una libera dialettica, il formarsi delle decisioni attraverso un limpido confronto ed il coinvolgimento democratico degli iscritti. Ciò è possibile senza incorrere nel rischio di cristalliz­zazioni che impediscono la comunicazione e il dialogo tra diverse posizioni.

9. Il mandato

  L'oggetto di questo congresso straordinario è la decisione politica di impegnare il Pci in una fase costituente di una nuova formazione. Spetterà a tutto il partito lottare per la realizzazione di questo progetto, contribuire alla sua elabora­zione ideale e programmatica, misurandone il percorso, i contenuti e i tempi per giungere ad un nuovo congresso cui spetterà il compito di trarre le conclusioni del lavoro svolto e, su questa base, decidere di dar vita a una nuova formazione politica. Un congresso che naturalmente sarà sovrano. Per­tanto in questo congresso straordinario non sono in discus­sione nome e simbolo del Pci. Spostare il dibattito congres­suale sul nome del partito, vorrebbe dire respingere la propo­sta di avviare una fase costituente che ridiscuta anche la stessa «forma partito», il modo di organizzarsi, di decidere e di funzionare di una forza politica che si fonda su un pro­gramma e non su una ideologia totalizzante. La fase costituente dovrà essere volta a definire, anzitutto attraverso una convenzione programmatica aperta, i caratteri di un progetto riformatore e della nuova forma organizzativa con l'apporto di tutti i militanti e delle diverse sensibilità che si esprime­ranno già nel congresso, e con l'insieme di tutte quelle forze, quei gruppi e personalità della sinistra e dell'area riformatrice che sentono, con noi, il dovere di misurarsi con questa grande prova.

Le firme

La mozione, fino al 5 gennaio 1990, è stata sottoscritta dai seguenti componenti del Comitato centrale, della Com­missione nazionale di garanzia e del Collegio centrale dei sindaci: Achille Occhetto, Aureliana Alberici, Daniele Almi, Guido Alborghetti, Aldo Amati, Silvano Andriani, Luana Angeloni, Anna Annunziata, Giorgio Ardito, Iginio Ariemma, Tiziana Arista, Grazia Barbiere, Tito Barbini, Roberto Baricci, Benedetto Barranu, G. Franco Bartolini, Fiorenza Bassoli, Antonio Bassolino, Massimo Bellotti, Daniela Benelli, Giovanni Berlinguer, Luigi Berlinguer, Antonio Bernardi, Franco Bertolani, Vincenzo Bertolini, Goffredo Bettini, Bruno Biagi, Tirreno Bianchi, Romana Bianchi, Carla Bisoni, Giu­seppe Boffa, Lina Bolzoni, Gianfranco Borghini, Giampiero Borghini, Roberto Borroni, Paola Bosi, Angela Bottari, Feli-cia Bottino, Paola Bottoni, Sergio Bozzi, Paolo Bufalini, Augusto Burattini, Claudio Burlando, Nadia Buttini, Gianste-fano Buzzi, Giuseppe Caldarola, Roberto Camagni, Luigi Cancrini, Eva Cantarella, Antonio Capaldi, Roberto Cappel­lini, Valerio Caramassi, Gaetano Carrozzo, Floriana Casellato, Anna Castellano, Adriana Cavarero, Gilberto Cavina, Walter Ceccarini, Cristina Cecchini, Adriana Ceci, Gianni Cervetti, Gerardo Chiaromonte, Maurizio Chiocchetti, Van­nino Chiti, Werter Cigarini, Luigi Colajanni, Luigi Corbani, Niko Costa, Umberto Curi, Maria R. Cutrufelli, Massimo D'Alema, Silvana Dameri, Marta Dassù, Massimo De Ange-lis, Biagio De Giovanni, Vincenzo De Luca, Cesare De Piccoli, Anna Del Mugnaio, Angelo De Mattia, Antonio Di Bisceglie, Carmine Di Pietrangelo, Domenico Di Resta, Michele Di Tolla, Vasco Errani, Guido Fabiani, Antonello Falomi, Guido Fanti, Alberto Fasciolo, Piero Fassino, Elio Ferraris, G. Ferrero, Michele Figurelli, Raffaella Fioretta, Renzo Foa, Pietro Folena, Paolo Fontanelli, Angela Francese, Angelo Fredda, Sandro Frisullo, Luciano Gallinaro, Sergio Gambini, Andrea Geremicca, Francesco Ghirelli, Vasco Giannotti, Fausto Giovanelli, Maria Angela Grainer, Anna Maria Guadagni, Luciano Guerzoni, Renzo Imbeni, Berardo Impegno, Leonilde lotti, Francesca Izzo, Grazia Labate, Antonio La Forgia, Luciano Lama, Adriana Laudani, Gio­vanni Lolli, Norberto Lombardi, Giuliano Lucarini, Perla Lusa, Emanuele Macaluso, Giorgio Macciotta, Gianni Magnan, Michele Magno, Claudia Mancina, Giuliana Manica, Silvio Mantovani, Paola Manzini, Andrea Margheri, Claudio Martini, Donatella Massarelli, Graziano Mazzarello, Massimo Micucci, Maurizio Migliavacca, Marco Minniti, Umberto Minopoli, Carmen Minuto, Stefania Misticoni, Walter Molinaro, Giovanni Mora, Enrico Morando, Delia Murer, Fabio Mussi, Antonio Napoli, Giorgio Napolitano, Teresa Nespeca, Dino Orrù, Cristina Papa, Gianni Parisi, Ugo Pecchioli, Giovanni Pellicani, Silvana Pelusi, Laura Pen­nacchi, Adele Pesce, Claudio Petruccioli, Gianni Piatti, Roberto Piermatti, Ornella Piloni, Franco Politano, Barbara Pollastrini, Armando Pratesi, M. Paola Profumo, Mario Quattrucci, Giulio Quercini, Umberto Ranieri, Giampiero Rasimelli, Alfredo Reichlin, Alfonsina Rinaldi, Clara Ripoli, Antonella Rizza, Giulia Rodano, Marisa Rodano, Antonio Rubbi, Irene Rubini, Elvio Ruffino, Carlo Salis, Cesare Salvi, Alfredo Sandri, Elio Sanfilippo, Anna Sanna, Sergio Segre, Paola Simonelli, Pino Soriero, Antonella Spaggiari, Roberto Speciale, Vittorio Spinazzola, Marcello Stefanini, Giacomo Svicher, Giglia Tedesco, Walter Tega, Enrico Testa, Angela Testone, Franco Torri, Renzo Trivelli, Lalla Trupia, Lan­franco Turci, Livia Turco, Giovanna Uberto, Giuseppe Vacca, Doriana Valente, Walter Vanni, Tullio Vecchietti, Claudio Velardi, Walter Veltroni, Marco Verticelli, Pietro Verzeletti, Fabrizio Vigni, Anna Viola, Luciano Violante, Davide Visani, Roberto Vitali, Alfredo Zagatti, Renato Zan-gheri, Mauro Zani, Flavio Zanonato, Pasquale Zicca, G. Battista Zorzoli, Stelvio Antonini, Carla Barbarella, Giovanni Bersani, Flavio Bertone, Mario Birardi, M. Cristina Brancadoro, Sergio Brandani, Milos Budin, Franco Busetto, Salva­tore Cacciapuoti, Carlo Cardia, Domenico Carpanini, Daniela Celli, Umberto Cerroni, Piero Di Siena, Mauro Dragoni, Maurizio Ferrara, Giulietta Fibbi, Giuseppe Franco, Pietro Gambolato, Gustavo Imbellone, Pietro Ippolito, Luciano Lusvardi, Roberto MafFioletti, Vincenzo Marini, Claudio Midali, Armelino Milani, Angelo Oliva, Anita Pasquali, Alessio Pasquini, Rino Petralia, Vera Petreni, Mila Pieralli, Roberto Racinaro, Lido Riba, Enzo Roggi, Miche­langelo Russo, Armando Sarti, Gianna Serra, Rita Sicchi, Antonio Tato, Alder Tonino, Ugo Vetere, Cesare Fredduzzi, Gastone Gensini, Franca Prisco.