Palmiro Togliatti

Tre minacce alla democrazia italiana

Relazione di Togliatti al VI congresso nazionale del PCI, Milano, 5-10 gennaio 1948. Testo ripreso da "Da Gramsci a Berlinguer, la via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano", Edizioni del Calendario, 1985, vol. II pp. 293-341.



  Compagne e compagni delegati al congresso.

   Credo nel paese vi sia una certa attesa per i dibattiti e per le decisioni di questo VI Congresso nazionale del nostro partito, ed è giusto che sia così, prima di tut­to per la serietà del momento politico che noi attraversiamo, ma poi, anzi soprat­tutto, per l'importanza sociale e politica delle forze politiche e sociali che nelle file e attorno alle bandiere del nostro partito sono raccolte.

   Grave è la situazione che sta oggi davanti a noi comunisti, davanti alla classe operaia e davanti a tutto il popolo. Essa è profondamente diversa dalla situazione che stava davanti al nostro partito quando si riunì il nostro V Congresso nazio­nale, all'inizio dell'anno 1946: due anni sono passati da allora e noi abbiamo il compito di fare il bilancio non soltanto del lavoro fatto da noi comunisti nel corso di questo periodo, ma dell'attività che è stata svolta sul fronte della demo­crazia da tutte le forze democratiche del popolo italiano. Dobbiamo sforzarci di fare un bilancio dell'attività, direi, di tutta la nazione italiana, alla quale si pre­sentavano allora compiti gravi e di cui la parte migliore fu impegnata nel lavoro e nella lotta per risolverli.

   Ripeto, profondamente diversa era la situazione di allora da quella che sta og­gi davanti a noi. Alcune brevi considerazioni immediatamente faranno presente a tutti questa profonda diversità.

I. Due anni di lotta per la democrazia

Allora, nel gennaio 1946, sussisteva ancora il cosiddetto regime luogotenen­ziale, il che vuol dire che non eravamo ancora riusciti a sbarazzarci di quel resi­duo della tirannide fascista che era la monarchia, complice del fascismo. I fatti svoltisi in seguito, e soprattutto gli avvenimenti dei mesi di aprile e di maggio dello stesso anno, hanno mostrato quanto fosse difficile liberarsi da quei residui, e la lotta per liberarsi definitivamente dalla monarchia, fosse legata a grandi dif­ficoltà e a gravissimi rischi. In questa lotta, però, siamo riusciti a essere vittoriosi. Abbiamo riportato, in alleanza con tutte le forze democratiche e repubblicane, una grande vittoria, nell'interesse di tutta la nazione, nell'interesse della causa della democrazia. L'ala conservatrice della Democrazia cristiana si adoprò coi metodi della doppiezza e dell'inganno per privarci di questa vittoria, ma senza riuscirvi. Oggi il nostro paese è una repubblica democratica, la quale si è già data la sua Costituzione. Questa Costituzione, come avrò modo di dire in seguito, ha parti positive e parti negative, ha lacune e debolezze. Nonostante questo, essa è la pri­ma Costituzione che tutto il popolo italiano si è data da sè, attraverso i propri rappresentanti liberamente eletti, è un legame che unisce tutti i democratici e, per lo meno nelle grandi linee, traccia il cammino che tutti siamo impegnati a seguire per condurre a fondo l'opera di rinnovamento che abbiamo iniziata con l'istaurazione del regime repubblicano.

   Allora, nel gennaio 1946, eravamo ancora un paese occupato da truppe stra­niere e controllato da una amministrazione straniera. I nostri governi, allora, non erano governi liberi. Oggi il ritiro delle truppe straniere di occupazione è com­piuto. La Costituente ha autorizzato il governo italiano a firmare un trattato di pace il quale contiene clausole dure, quali era del resto in gran parte inevitabile fossero contenute in un atto che doveva liquidare il terribile passato fascista. Con la firma del trattato e col ritiro delle truppe alleate di occupazione, abbiamo riac­quistato statuto di popolo libero e questo è un grande passo in avanti compiuto da tutta la nazione.

   È vero, nuove forme di intervento straniero nella vita del nostro paese hanno incominciato a manifestarsi, e negli ultimi tempi in forma sempre più preoccu­pante. Questo non è però oggi da imputarsi al popolo italiano, il quale ha com­battuto valorosamente per la propria libertà e indipendenza, dimostrando in mille occasioni, quanto cari gli siano questi beni. La colpa delle nuove forme di inter­vento straniero nelle cose nostre spetta agli attuali gruppi dirigenti dello stato italiano, ai partiti che sono alla testa del governo. Questi gruppi e questi partiti, forse illudendosi che l'appoggio straniero possa assicurar loro un predominio permanente, piegano la nuca davanti all'intervento straniero immemori, a così bre­ve distanza, della tragica esperienza del fascismo. La prima e più evidente conse­guenza di questo fatto è che l'Italia non è ancora riuscita, dopo la firma del trat­tato di pace, a compiere quegli altri passi in avanti che il popolo italiano si atten­deva fossero compiuti con grande rapidità e che il trattato stesso prevedeva. In particolare, non siamo ancora riusciti a ottenere l'ammissione dell'Italia nell'or­ganizzazione delle Nazioni Unite, il che è diretta conseguenza della politica di coloro che apertamente asserviscono il nostro paese a un imperialismo straniero e in questo modo suscitano contro di noi le più legittime diffidenze di tutti quei popoli che si sono battuti per metter fine una volta per sempre alle minacce del­l'imperialismo contro la libertà delle nazioni d'Europa e del mondo intiero.

   Eravamo, allora, all'inizio del 1946, nel momento forse di più grave disorga­nizzazione economica. Oggi sono stati fatti seri passi in avanti nella ricostruzione dell'industria, nella riorganizzazione dell'agricoltura, nella riorganizzazione del commercio interno e degli scambi internazionali. Questi passi in avanti sono pe­rò stati compiuti essenzialmente grazie al sacrificio sopportato e ai dolori sofferti dal popolo, e al contributo decisivo e disinteressato che è stato dato dalle classi lavoratrici, dagli operai, dai tecnici, dagli intellettuali, dai contadini. Questo sforzo dei lavoratori ha avuto come conseguenza che nel settembre 1947 il livello gene­rale medio della produzione ha già toccato il 73% di quella che era la media mensile del 1939. Questa cifra però non dice tutto. Essa avrebbe bisogno di esse­re lungamente commentata e interpretata, prima di tutto perché è essa stessa risultato e indice di uno sviluppo della produzione che si è compiuto a salti, per­ché si è compiuto prevalentemente in regime di disordine, di anarchia capitali­sta. Per questo, benché non abbiamo ancora raggiunto il livello generale medio mensile del 1939, già abbiamo varie branche della nostra industria che presenta­no sintomi di crisi e minacciano una nuova riduzione nel loro livello di produzio­ne. Ma non è ancora questa la cosa più grave. Il fatto che la produzione indu­striale sia arrivata ad un livello generale relativamente alto rispetto al 1939, male nasconde l'esistenza di profonde e ingiuste differenziazioni economiche e di acu­ti contrasti sociali. Di questo è responsabile prima di tutto chi ha voluto che il processo di ricostruzione della industria e di tutta la economia fosse abbandonato a se stesso. Questo ha voluto dire che i deboli, cioè i poveri, i disagiati, coloro che più avevano sofferto della guerra, sono stati per lo più affidati alla mercè dei forti, cioè dei ricchi, di quelli che dalla guerra essenzialmente avevano tratto pro­fitto. E' ancora comprensibile che questo fosse il programma dei vecchi gruppi dirigenti capitalistici, incapaci per loro natura di comprendere un'azione di soli­darietà sociale e nazionale, capaci di comprendere e applicare solo la legge del loro interesse immediato. Il popolo italiano ha però visto ad un certo momento che questa posizione di egoismo classista è stata difesa ed esaltata, contro di noi, proprio da quel partito della Democrazia cristiana che nella campagna elettorale si era presentato come un partito anticapitalista.

   In conseguenza del modo come la ricostruzione economica è stata diretta, i contrasti di classe e sociali sono diventati più profondi. Nonostante che in alcuni settori la produzione abbia già raggiunto punte superiori a quelle del 1936, la miseria delle masse lavoratrici non è in proporzione diminuita, anzi.

   Tocchiamo in questo momento un massimo nel livello della disoccupazione e nessun miglioramento si nota nelle condizioni di quelli che sono sempre stati gli strati più miseri della popolazione italiana sia nelle grandi città industriali che nelle campagne, e soprattutto nelle campagne più arretrate del Mezzogiorno e delle Isole. Le cifre, a questo proposito, parlano con una evidenza impressionan­te. Tanto nell'industria quanto nell'agricoltura l'aumento del livello nella pro­duzione, e quindi del profitto per gli industriali, non corrisponde per nulla né all'aumento dei salari, né alla retribuzione complessiva della mano d'opera. L'au­mento dei salari d'altra parte non corrisponde per nulla all'aumento dei prezzi che determinano il livello generale dell'assistenza dell'operaio e dell'impiegato. Nell'agricoltura, per esempio, il costo dei mezzi di produzione è aumentato di 6, 8 volte, nel 1944, di 24 volte nel 1945, di 36 volte nel 1946. Ma i salari della mano d'opera nel 1944 erano soltanto 9 volte quelli del 1938, nel 1945 erano 19 volte, nel 1946 26 volte. Nell'industria i salari degli operai erano nel gennaio 1915 circa 6 volte quelli d'anteguerra, ma i prezzi erano rispetto a quelli d'ante­guerra circa 30 volte più alti. Nel marzo del 1947 i salari nominali erano saliti 10-35 volte quelli d'anteguerra, contro l'aumento però di circa 40-50 volte dei prezzi dei prodotti industriali. Se prendiamo gli stipendi degli impiegati, nel marzo 1947 essi erano circa 15-16 volte più alti di quelli d'anteguerra come valore no­minale, ma il costo della vita della categoria era aumentato di circa 40 volte. Queste cifre dimostrano come una ricostruzione, la quale è stara abbandonata a quello che viene esaltato dai liberali e dai democristiani come il salutare libero giuoco delle forze produttive stimolate dalla concorrenza, ha portato non a una diminu­zione ma ad un approfondimento dei contrasti di classe; non ha portato a un sollievo della miseria e dei bisogni delle masse popolari, ma a un aumento spa­ventoso sia del disagio di lavoro che della disoccupazione operaia e bracciantile. L'avvenuta ripresa economica non può quindi esser considerata, se non in parte, come un elemento positivo. Quello che noi avremmo voluto vi fosse, quello che noi auspicavamo al nostro V Congresso, cioè una ripresa economica, la quale non permettesse che si aprissero nuovi abissi nella struttura economica e sociale del paese, questo non è stato raggiunto. In realtà, nel corso di questi due anni vi sono stati degli operai, degli impiegati, dei coltivatori, che si sono sacrificati e hanno compiuto un mirabile sforzo di lavoro e di organizzazione; ma dall'altra parte vi sono stati gruppi più o meno ristretti di persone che hanno speculato, che si sono arricchite sulla miseria della maggioranza, e che a un certo punto, per far prevalere il loro interesse su quello della generalità, hanno sabotato la ri­presa economica, hanno minacciato di spingere il paese verso la rovina. È al co­mando di questi gruppi, purtroppo, che si sono schierati il partito della Demo­crazia cristiana e i governi da esso diretti, e questo è il motivo principale per cui oggi le sofferenze del popolo non sono state alleviate così come sarebbe stato pos­sibile, e sul paese grava la minaccia di ricadere in preda alle più egoistiche caste di privilegiati.

   All'inizio del 1946 eravamo all'inizio della ripresa di una organizzazione de­mocratica degli operai, dei contadini, dei lavoratori della mente, dei ceti medi. Oggi in questo campo sono stati fatti passi grandiosi in avanti. Il movimento sin­dacale italiano è diventato un grande movimento unitario di masse, quale mai prima d'ora era esistito nel nostro paese, arrivando ad abbracciare nelle sue file circa 7 milioni di uomini e donne, di lavoratori dell'industria, dell'agricoltura e del ceto medio. Le cooperative, che allora appena cominciavano confusamente a formarsi, sono altresì diventate un grande movimento di masse che abbraccia milioni e milioni di lavoratori. I partiti politici della classe operaia e dei lavorato­ri si sono rafforzati.

   Il nostro stesso partito, che allora appena usciva dalla lotta di liberazione e in­cominciava a ricostruire le proprie file, si è consolidato, si è rafforzato, è diventa­to una grande organizzazione democratica di massa, che raccoglie nelle proprie file più di 2 milioni di donne e di uomini che vivono del loro lavoro. I quadri stessi delle organizzazioni sindacali, cooperative e di partito si sono arricchiti e nuove centinaia di migliaia di lavoratori sono venuti a rafforzare le grandi orga­nizzazioni democratiche sviluppatesi in un clima nuovo di libertà, schierandosi a fianco di quei gloriosi quadri che avevano saputo tenere alta la bandiera della democrazia durante il ventennio della tirannide fascista, che avevano saputo diri­gere la parte migliore del popolo nella lotta eroica per la liberazione del paese.

   Per questo ultimo aspetto, quindi, il bilancio è positivo. All'attivo dobbiamo poi qui aggiungere ancora una cosa: la unità delle forze decisive della classe ope­raia, quella unità che noi al nostro V Congresso ponevamo come uno degli obiet­tivi fondamentali per cui il nostro partito doveva battersi e che poi dovevamo salvare e consolidare se volevamo rafforzare il regime democratico e aprire la stra­da alla creazione di un regime di nuova democrazia. La unità della classe operaia, espressa prima di tutto dal Patto di unità d'azione, che strettamente lega il no­stro partito al partito fratello socialista, ha resistito a tutti gli attacchi e a tutte le insidie, continua a esistere, è un baluardo che sta a difesa delle conquiste de­mocratiche. Noi salutiamo questo fatto come una grande vittoria. Salutiamo in pari tempo il fatto che il partito fratello socialista, minacciato nella propria com­pagine unitaria da un tentativo secessionista, abbia saputo liquidare questo ten­tativo secessionista, abbia saputo liquidare questo tentativo riducendo il piccolo gruppo secessionista a una organizzazione di capi senza esercito, di dirigenti sen­za massa, di traditori e rinnegati della classe operaia che vengono sistematica­mente respinti da quei lavoratori i quali sanno che la causa dell'unità è la causa della loro salvezza, della loro emancipazione.

   Come vedete, compagni, molti elementi positivi appaiono nel bilancio della vita politica del nostro paese di questi ultimi due anni. Accanto a questi appaio­no però subito molti elementi negativi e noi non possiamo dimenticare, anzi dob­biamo dire sin dal primo momento, che uno degli obiettivi fondamentali che ci proponevamo e che ponevamo alla classe operaia e al popolo, il rinnovamento economico e sociale del nostro paese, è ancora molto lontano dall'essere raggiun­to. Per questa strada, anzi, nessun passo in avanti di carattere decisivo sinora è stato fatto. La forza delle organizzazioni sindacali è stata intelligentemente im­piegata dagli operai, dagli impiegati, dai contadini, per garantire a tutti i lavora­tori condizioni migliori di esistenza. Alcune delle rivendicazioni realizzate dal movimento sindacale italiano dopo la liberazione hanno il carattere di grandi con­quiste, che hanno posto un limite reale all'egoismo delle classi padronali. Parlo soprattutto del blocco dei licenziamenti nell'Italia settentrionale, della occupa­zione di terre incolte nel Mezzogiorno e nelle Isole, delle nuove condizioni del patto mezzadrile, della scala mobile per l'indennità di contingenza, del salano minimo per le principali categorie. Non dimentichiamo però che queste conqui­ste sono state tutte ottenute a prezzo di grandi lotte e che alcune di esse sono oggi seriamente minacciate dall'offensiva capitalista favorita dal governo demo­cristiano. Nessuna di esse, poi, modifica nella sostanza e in modo permanente il sistema dei privilegi delle classi possidenti capitalistiche. Quello che dobbiamo sottolineare è che le nostre organizzazioni operaie e di lavoratori non sono ancora riuscite a compiere nessun passo degno di nota in avanti sulla via della trasforma­zione democratica delle strutture economiche del Paese. E questa la lacuna più seria che riscontriamo nel sistema della democrazia italiana, il passivo più pesan­te che dobbiamo registrare nel fare un bilancio degli ultimi due anni.

   Due anni or sono, alla vigilia del 2 giugno, tanto noi quanto i democratici di tutti i partiti, quasi senza eccezione, che facevano parte del movimento dei Co­mitati di liberazione nazionale riconoscevano che la riforma delle strutture eco­nomiche del paese era necessaria prima di tutto come garanzia reale contro un ritorno offensivo della reazione e del fascismo, e in secondo luogo per aprire una via di sviluppo pacifico o relativamente pacifico verso una maggiore giustizia so­ciale, verso la liquidazione delle più profonde ingiustizie che tuttora angustiano il popolo italiano, verso il progresso delle regioni più arretrate, verso la soluzione di quegli annosi problemi che da decenni vengono agitati da tutte le menti pro­gressive e di quei nuovi problemi che sono posti dalla avanzata delle classi lavora­trici verso la loro emancipazione. Sulla necessità di queste riforme eravamo ad un certo momento, - ripeto - tutti d'accordo, da noi sino ad alcuni dei mili­tanti più in vista del Partito liberale. La rivendicazione di queste riforme di strut­tura faceva parte di quel programma del movimento dei Comitati di liberazione nazionale che purtroppo non venne mai scritto, ma era scolpito nelle menti e nel cuore di tutti quei cittadini, a qualunque tendenza o fede appartenessero, che parteciparono al grande movimento liberatore del nostro paese, era scolpito nella mente e nel cuore dei nostri combattenti, dei nostri partigiani. In nome di questo programma di rinnovamento economico e sociale d'Italia caddero i no­stri morti, rivendicando queste riforme radicali, sognando, attraverso di esse, la creazione di una società italiana non più simile a quella da cui era uscito il fasci­smo, ma rinnovata, fondata su basi nuove di libertà e di giustizia.

   All'attuazione di queste riforme, però, sino ad ora non si è messo mano e biso­gna riconoscere che qui troviamo il punto di maggiore debolezza della nostra de­mocrazia, del movimento dei Comitati di liberazione nazionali, e di tutti partiti democratici, non escluso il nostro. La lotta per la realizzazione di quelle che so­gliono chiamare le riforme di struttura non è stata né condotta avanti e nemme­no impegnata. Soltanto il nostro partito e quello socialista hanno fatto largo po­sto a queste riforme nei loro programmi elettorali, dove se ne parlava apertamen­te, e si sono adoprati in tutti i modi perché si facesse loro posto nei programmi dei governi ai quali partecipavano i nostri rappresentanti. Negli uomini politici della Democrazia cristiana subentrò immediatamente, appena chiuso il periodo elettorale, il linguaggio equivoco, la frase vuota di senso al posto della rivendica­zione precisa, l'azione tortuosa in seno al governo per eludere la realizzazione dei punti programmatici approvati. Era evidente che per la Democrazia cristiana la volontà e l'interesse dei ceti privilegiati prevalevano e sui programmi elettorali e sugli impegni governativi. D'altra parte, per quanto il movimento sindacale abbia avuto sin dall'inizio nel suo programma le riforme di struttura, la sua azio­ne per attuarle finora non si è ancora dispiegata in nessuna direzione.

   E' vero, noi non possiamo dimenticare - e diciamo questo particolarmente ri­volgendoci ai compagni delegati di partiti stranieri che vengono da quei paesi di nuova democrazia che hanno già fatto passi giganteschi sulla via di profonde trasformazioni sociali - che le condizioni in cui avvenne la liberazione dell'Ita­lia dal fascismo e dall'invasione tedesca furono molto diverse da quelle di quasi tutti gli altri paesi d'Europa. Noi eravamo un paese «nemico», già fascista, e che perciò ci si ritenne in diritto di privare di ogni autonomia. Noi inoltre fum­mo occupati e amministrati per intiero dalle autorità di quegli Stati anglosassoni che nel blocco antihitleriano rappresentavano non l'ala popolare, ma l'ala impe­rialistica. Questo fatto non poteva non determinare due differenti linee di svi­luppo del movimento. Non voglio con questo giustificare le debolezze che ci so­no state nell'attività dei Comitati di liberazione, le debolezze dei partiti demo­cratici italiani e anche del nostro partito; voglio però richiamare tutti gli elemen­ti della realtà affinché il giudizio sia aderente alla realtà stessa. Forse vi è stato in una parte del popolo italiano un eccesso di ingenuità. Una parte del popolo italiano ha senza dubbio pensato che la lentezza con la quale esso consentiva a che si sviluppasse il movimento democratico poteva essere tollerata quasi come un contributo alla causa dell'unità delle grandi nazioni democratiche, e quindi anche alla ricostruzione pacifica del mondo. Si pensava, insomma, che un con­flitto aperto tra il popolo italiano e le forze di occupazione si dovesse evitare, perché se fosse scoppiato, le ripercussioni di esso per tutta l'Europa potevano es­sere troppo gravi. Certamente vi è stata questa ingenuità in una parte del popolo italiano. Oggi ci siamo avveduti che di fronte a noi stavano non autorità che si preoccupassero di non turbare la causa della pace, ma rappresentanti di potenze imperialistiche, le quali, approfittando delle debolezze del movimento democratico italiano, lo hanno continuamente minacciato e ricattato, per tentare di elevare una barriera allo sviluppo della democrazia del nostro paese. Essi sapeva­no infatti che uno sviluppo conseguente della democrazia italiana avrebbe posto e porrà una barriera ai loro intrighi contro la pace. Essi sapevano che la creazione in Italia di un regime di democrazia nuova, nel quale le classi lavoratrici possano far sentire in modo più diretto la loro voce nella direzione degli affari di tutta la nazione, avrebbe impedito loro e certamente lo impedirà, di fare del nostro paese il punto di appoggio della loro criminale attività rivolta contro quei paesi dove un regime di nuova democrazia è stato creato, e contro il grande paese del socialismo, contro l'Unione Sovietica.

   Tutto ciò non toglie che questa debolezza e timidezza del movimento demo­cratico italiano vi sia stata. Essa si riflette del resto nella nostra Costituzione, la quale per una parte, per la prima parte soprattutto, è una Costituzione di un tipo nuovo, che non si limita a registrare trasformazioni politiche già avvenute, ma indica una strada che dovrebbe essere seguita per operare profonde trasformazio­ni di carattere economico e sociale; indica la necessità di una riforma industriale e la necessità di una riforma agraria; parla non più soltanto degli astratti diritti di libertà dell'uomo e del cittadino, ma del nuovo diritto di tutti gli uomini e di tutte le donne al lavoro, a una retribuzione sufficiente ai bisogni dell'esisten­za, all'educazione, al riposo, all'assicurazione sociale. Tutto questo è contenuto nella prima parte della nostra Costituzione. Nella stessa Costituzione però non esistono articoli i quali indichino concretamente quali sono i mezzi e gli istituti attraverso i quali verranno realizzate le indicate riforme e attuati i nuovi diritti del lavoro; anzi quando si passa alla seconda parte della Costituzione stessa, la quale organizza in modo concreto il nuovo regime democratico, non vi è dubbio che in questa seconda parte la confluenza delle forze conservatrici della destra con quelle della Democrazia cristiana è riuscita a far passare una serie di misure con l'esclusivo intento di porre ostacoli e barriere all'azione di quella assemblea di rappresentanti del popolo la quale volesse veramente e speditamente marciare sulla via di un profondo rinnovamento economico e sociale del paese, applican­do nei fatti le promesse della Costituzione. Per questo il nostro avvenire politico e persino costituzionale è incerto poiché si possono prevedere scontri seri tra una parte progressiva che si appoggerà su una parte della nostra Carta costituzionale, e una parte conservatrice e reazionaria che cercherà nell'altra parte gli strumenti della sua resistenza. Commetterebbe perciò un serio errore politico e inganne­rebbe il popolo chi si limitasse a dire: Tutto ormai è scritto nella Costituzione: applichiamo quello che ivi è sancito e saranno realizzate tutte le aspirazioni po­polari. Questo è sbagliato. Nessuna Costituzione è mai servita a salvare la libertà, se a difesa di questa non vi sono state la coscienza dei cittadini, la loro forza, la loro capacità di schiacciare ogni tentativo reazionario. Nessuna norma costitu­zionale ci assicura di per sè del progresso democratico e sociale, se la forza orga­nizzativa e consapevole delle masse lavoratrici non saprà dirigere tutto il paese sulla via di questo progresso, e spezzare la resistenza della reazione.

   Ma più che nella Costituzione la debolezza della democrazia italiana si è rifles­sa nella politica di alcuni dei partiti che avevano partecipato alla liberazione. Ad un certo momento quello di questi partiti che il due giugno era risultato numeri­camente il più forte, il partito della Democrazia cristiana, ha rinnegato quella politica di unità delle forze democratiche che fino allora tutti avevano seguito. La partecipazione alla direzione politica del Paese non soltanto dei rappresentan­ti delle vecchie classi dirigenti conservatrici e reazionarie, ma in prima linea della classe operaia e delle masse lavoratrici raccolte attorno ai partiti della democrazia più avanzata è apparsa alla Democrazia cristiana come cosa non più ammissibile e da respingersi. Da allora il governo sotto la pressione delle forze reazionarie interne e per intervento diretto di forze imperialistiche straniere è stato riorga­nizzato nella vecchia forma di comitato di affari dei ceti possidenti e conservato­ri. Di qui ha avuto origine, favorita dalla formazione di quello che il popolo giu­stamente chiama governo nero, un'aspra offensiva di questi ceti conservatori per cercare di far ricadere sulle spalle dei lavoratori il peso più grave della ricostruzio­ne, il peso quindi delle conseguenze della nefasta politica fascista, e della disfat­ta. Questa offensiva è stata accompagnata, sul terreno politico, da un vasto ten­tativo di far risorgere i primi nuclei di una organizzazione terroristica di tipo fa­scista, nella forma di nuclei armati, i quali con mezzi nuovi hanno cominciato a compiere atti di terrore contro le sedi delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori.

   E' certo che questa duplice offensiva è stata favorita dalla formazione del gover­no di soli democristiani; la causa profonda di essa, però, credo debba essere ricer­cata proprio in quella debolezza della democrazia italiana che indicavo prima.

   Il ceto possidente conservatore, la vecchia casta egoistica e reazionaria, dei pri­vilegiati di sempre, ha potuto rialzare la testa perché noi non l'avevamo colpita con sufficiente energia nelle radici stesse della sua forza politica. Questa casta rea­zionaria ha trovato un terreno favorevole a un nuovo sviluppo della sua influenza politica perché non è stata svolta un'azione la quale desse risultati decisivi nel senso di stroncare tutte le radici di una possibile ripresa reazionaria fascista. La classe operaia, i lavoratori, il ceto medio, si sono quindi trovati negli ultimi mesi nella necessità di difendersi e bisogna riconoscere che si sono ben difesi, avendo riconosciuto che il loro dovere era di respingere l'offensiva del ceto conservatore e reazionario. Questo è il vero e solo motivo per cui gli ultimi mesi sono stati mesi di grandi battaglie economiche e politiche. E' vero: queste battaglie hanno avuto in prevalenza carattere difensivo. Anche quando i braccianti della pianura del Po hanno scatenato il loro grande sciopero per ottenere miglioramenti sostan­ziali delle loro condizioni di vita e delle clausole del loro contratto di lavoro, questo non è stato in sostanza che un mezzo per uscire dalle condizioni di esterno disa­gio cui era stata ridotta la grande massa del bracciantato padano. Se la natura delle lotte è stata difensiva, devesi però riconoscere che si sono concluse tutte con successo. Noi che abbiamo avuto una grande parte nella impostazione e direzio­ne delle battaglie combattute negli ultimi mesi, credo possiamo affermare con fierezza che il complesso di queste battaglie si chiude con una grande vittoria dei lavoratori. Nessuna delle posizioni attaccate dal padronato reazionario è stata abbandonata. Posizioni nuove sono state conquistate. Hanno vinto i braccianti; hanno vinto tutte quelle categorie le quali si sono messe in movimento per mi­gliorare le immediate condizioni di esistenza; sono riusciti a riportare successi no­tevoli gruppi notevoli del ceto impiegatizio; le forze più avanzate della classe operaia sono riuscite inoltre a riportare vittoria anche su un terreno strettamente politico, riuscendo cioè a far ritornare indietro e rientrare almeno temporaneamente nelle loro tane quei gruppi di fascisti i quali pensavano fosse venuto il momento di ri­prendere l'offensiva contro le ricostituite organizzazioni dei lavoratori e contro la democrazia. È ridicolo che costoro oggi facciano le vittime, esaltino i briganti che sono rimasti sul terreno avendo ricevuto la prima lezione che si meritavano, e gridino alla violenza. Credo che tutti si saranno convinti che gli operai e i lavo­ratori italiani hanno oggi una direzione la quale è capace di guidare con successo larghe azioni difensive e offensive senza cadere in provocazioni ridicole e senza lasciare rompere il fronte della democrazia. Anche se, nelle scorse settimane, è parso in alcuni momenti che tutta la compagine del paese fosse scossa dalle lotte grandiose dei lavoratori, nessuno si è perduto d'animo, e il movimento è stato portato alla vittoria.

   Anche il grande sciopero di Roma, unico nella storia della nostra capitale, e che ha avuto un carattere di universalità, quale mai si era visto, credo, in nessuna città italiana, anche questo sciopero si è chiuso con una grande vittoria, non sol­tanto per i vantaggi immediati che i lavoratori di Roma sono riusciti a ottenere per i loro fratelli disoccupati, ma perché quello sciopero, insieme con gli analo­ghi movimenti di altre provincie e città che hanno seguito, è riuscito a imporre alla attenzione di tutto il paese l'angoscioso problema dei disoccupati e della lo­ro tragica sorte nei mesi invernali.

   L'attuale governo ha adottato nei giorni scorsi alcune misure che sembra ten­dano alla creazione di un grande fondo nazionale di soccorso per i disoccupati. Attorno a questa decisione già si svolge una intensa campagna propagandistica per presentare il signor De Gasperi, - il quale sarebbe persino il proprietario dei conti correnti su cui vengono depositate le somme versate per solidarietà coi disoccupati, - come un grande benefattore di questa parte della classe operaia. Sarà bene dire chiaramente che le cose non stanno così. La proposta di questa grande campagna a favore dei disoccupati, anzi, la proposta concreta della crea­zione di un fondo di soccorso per i disoccupati, fondo al quale dovevano contri­buire, e si sono offerti per contribuire, in prima linea, le maestranze occupate, questa proposta è venuta dalla organizzazione dei lavoratori, dalla CGIL. Il go­verno non ha poi nessun diritto di menar vanto per il fatto di essersi accorto all'i­nizio del mese di gennaio, e cioè in pieno inverno, che vi sono in Italia 2 milioni di uomini e di donne che non hanno lavoro, e che non hanno quindi di che man­giare, vestirsi, scaldarsi. Un governo il quale avesse avuto a cuore l'interesse dei lavoratori e della nazione non avrebbe aspettato le staffilate del movimento delle masse, la sferza dello sciopero generale di Roma, degli scioperi del Mezzogiorno e della Sicilia per prendere quelle misure che era necessario per la salvezza dei disoccupati. Anzi, nella misura in cui sono in grado di farlo, vorrei invitare i diri­genti del movimento sindacale, gli organizzati nei sindacati, gli operai delle fab­briche, le Commissioni interne e i Consigli di gestione a tener gli occhi ben aper­ti riguardo all'operazione che il governo ha preso nelle mani. Se infatti è vero che gli operai avevano proposto di dare una giornata di lavoro essi avevano chie­sto che vi fosse un analogo sacrificio da parte dei padroni. Bisogna insistere per­ché il sacrificio venga fatto effettivamente dalle due parti, e controllare in particolar modo che lo compiano i padroni, perché la forma che De Gasperi ha dato alla iniziativa del governo, e cioè di essere una particolare campagna di benefi­cenza, può servire benissimo agli industriali per cavarsela senza dare che una mi­nima parte di quello che spetterebbe loro di dare. Ritengo inoltre che i lavoratori hanno il diritto di chiedere una loro partecipazione diretta al controllo sul modo come verranno amministrati e distribuiti i fondi raccolti. Non vogliamo che vengano versate giornate di lavoro dalle maestranze italiane per andare ad arricchire il fondo elettorale della Democrazia cristiana.

   Nel corso delle grandi battaglie difensive degli ultimi mesi un fatto nuovo di notevole importanza si è verificato, tale che lega il passato e il presente al futuro della nostra lotta democratica. Si è rafforzata negli operai delle fabbriche, nei contadini, nei lavoratori dell'Italia meridionale e delle Isole, e nel ceto medio la convinzione che è necessario oramai affrontare senza più dilazioni la questione delle modificazioni della struttura economica del paese. Sono perciò sorti per l'i­niziativa delle masse e per l'azione meditata e organizzata delle loro avanguardie quei grandi movimenti che hanno preso la prima forma organizzata nel congres­so dei Consigli di gestione, nel congresso democratico del Mezzogiorno, nel con­gresso dei Comuni democratici, nella Costituente della terra. Questo movimento ha toccato di recente il culmine nella riunione al Planetario di Roma per creare un nuovo fronte di forze democratiche e popolari in lotta per il pane, per il lavo­ro, per la libertà, per l'indipendenza dell'Italia. Il periodo che abbiamo preso a esaminare si chiude quindi con una serie di vittorie difensive di notevole porta­ta e con l'inizio di un movimento nuovo, che apre alla democrazia italiana nuove prospettive. Per questo, anche se riscontriamo nel corso dei due anni passati serie debolezze del movimento democratico italiano, e persino del nostro partito, ci sentiamo di affermare che la democrazia in Italia si è nel complesso affermata, organizzata, rafforzata. Certo è che oggi ci troviamo in un momento critico, per­ché sentiamo che sulla democrazia e sul popolo italiano gravano minacce serie, che traggono la loro origine tanto dalla situazione del paese, quando dalla situa­zione internazionale. Su queste minacce è in particolar modo da concentrare l'at­tenzione nostra, dei democratici i quali marciano insieme con noi, e di tutto il popolo italiano. Lo slancio nuovo che si è creato nelle masse come risultato delle lotte e delle vittorie dei mesi passati, deve servire come punto di partenza e di appoggio per una vasta azione organizzata, la quale ci permetta di divergere queste minacce dal popolo italiano.

II. Minaccia alla pace

  Le minacce che oggi incombono su di noi sono di triplice natura: sono minacce alla pace, all'indipendenza e alla riconquistata libertà. Alla pace, prima di tutto, che è per il popolo italiano uno dei beni supremi.

   Può sembrare strano che a poco più di due anni dalla fine di una guerra terri­bile, che ha sconvolto tutta l'Europa e tutta l'umanità, di cui restano ancora trac­ce visibili in tutte le nostre città e credo nelle città di tutti i popoli d'Europa, di cui restano tracce così profonde nella disorganizzazione della vita economica e civile di nazioni intiere, può sembrare strano che proprio in un momento simi­le si possa parlare di nuove minacce alla pace, e cioè di pericoli di guerra che gravano ancora una volta sul destino dei popoli. Se la cosa può sembrar strana agli uomini semplici, essa non stupisce noi, marxisti, che sappiamo donde viene il pericolo delle guerre, a chi esse nuociono e a chi profittano, quali ne sono le vittime e quali i fomentatori. Le guerre nascono oggi dal modo stesso come è organizzata la società capitalistica, la quale, - secondo l'immagine di Jaurès, - porta nel suo seno la guerra, come la nube porta nel suo seno l'uragano. Co­nosciamo pure come la minaccia di guerra che è immanente nella società capitali­stica, si aggravi in modo concreto e diventi pericolo e minaccia reale, immediata. Questo avviene essenzialmente per lo sviluppo ineguale del capitalismo, anzi, at­traverso quella particolare forma di sviluppo ineguale che è lo sviluppo a salti, per cui in un determinato momento dell'evoluzione dei differenti paesi capitali­stici, in uno di essi, grazie alle condizioni generali internazionali e alle condizio­ni interne, il capitalismo stesso si sviluppa in modo tale che rompe il quadro nor­male, spezza l'insieme dei rapporti fra i diversi paesi, crea le condizioni oggettive di una nuova guerra, stimola la volontà dei gruppi imperialistici di provocarla attraverso la loro tendenza all'espansione, i loro piani di dominio di tutto il mondo da parte di una sola grande potenza.

   Oggi un simile sviluppo a salti ha avuto luogo nel corso della guerra e nel do­poguerra e sono gli Stati Uniti d'America la potenza che ne ha tratto vantaggio e che perciò spinge attivamente a un nuovo conflitto mondiale. Quello che dico­no gli uomini di stato americani relativamente alla formidabile potenza econo­mica del loro paese corrisponde alla realtà, e non è che la traduzione in termini di propaganda e di ricatto dell'aspetto oggettivo della legge che sopra ho ricorda­to. E' verissimo che mentre tutto il resto del mondo capitalistico, e anche il paese del socialismo, l'Unione Sovietica, sono usciti dalla guerra economicamente in­deboliti e devastati, carichi di guai e di ferite, che avevano come conseguenza la riduzione dell'apparato produttivo, la contrazione della produzione, la caduta del livello d'esistenza delle masse, gli Stati Uniti d'America sono invece usciti dalla guerra con una posizione economicamente rafforzata. E' verissimo quello che diceva il presidente degli Stati Uniti in un suo recente discorso, quando van­tava il fatto che gli Stati Uniti producono oggi il 60 % delle merci industriali del mondo. E' verissimo che gli Stati Uniti posseggono, inoltre, il 67% delle navi di battaglia del mondo, il 60% degli aeroplani da battaglia, il 70% delle navi mercantili, il 75% degli aerei da trasporto, più della metà della forza motrice che viene prodotta dal mondo intiero e così via. Questo enorme sviluppo produt­tivo, che ha rotto i quadri del vecchio sistema di rapporti tra i paesi capitalistici, è alla base tanto della politica attuale delle classi dirigenti americane, quanto di quell'aspetto esasperato di essa che è l'attività di provocazione alla guerra degli elementi più arrabbiati di queste classi dirigenti. In questo modo si spiega come il presidente degli Stati Uniti d'America abbia potuto formulare quella sua fami­gerata dottrina, la quale è una dottrina conseguentemente imperialistica, poiché non è altro che una nuova formulazione, in termini diversi, di quella stessa aspi­razione al dominio mondiale che ispirò l'azione dell'imperialismo tedesco e i va­neggiamenti hitleriani prima e durante l'ultima guerra.

   Ricordiamo i punti fondamentali di questa dottrina e imprimiamoceli bene nella memoria, perché è necessario averli sempre presenti se si vuole rettamente giudicare la politica americana e comprendere il significato riposto di ogni cosa che i rappresentanti di questo paese dicono e fanno. La dottrina di Truman parte dalla costatazione dell'incertezza dell'avvenire per le nazioni europee, della si­tuazione «fluida» creata dal fatto che, diciamo noi, sono stati distrutti i pilastri del capitalismo sul Continente ed è stata distrutta la fiducia degli uomini nella capacità che il capitalismo stesso possa ancora una volta creare e mantenere un mondo in cui la vita sia degna di essere vissuta e la civiltà salvata dal pericolo di venire distrutta. In questa situazione «fluida», - dice la dottrina imperiali­stica americana, - il solo elemento di stabilità non sta già nella volontà delle masse lavoratrici europee di fondare un nuovo sistema economico, non capitali­stico, bensì deve risiedere nell'influenza degli Stati Uniti, nel modo come essi assumeranno una posizione e funzione direttiva del mondo intiero, e in ciò che essi concretamente faranno, contro le volontà dei popoli d'Europa, per ridar vita al putrefatto capitalismo europeo. Noi - dice il presidente Truman - siamo i giganti del mondo economico, e vi piaccia o non vi piaccia il sistema futuro delle relazioni economiche dipende da noi; è giunta l'ora in cui gli Stati Uniti devo­no annunciare che accettano il loro destino di essere una potenza dirigente mon­diale, assumendo tutte le responsabilità di tale posizione, costi quello che costi. Come avveniva per i propagandisti dell'imperialismo tedesco, dall'affermazione della traboccante potenza economica degli Stati Uniti si passa ad affermare la ne­cessità che fondandosi sopra questa potenza gli Stati Uniti acquistino una posi­zione di dominio del mondo intiero; questo è lo scopo, - prosegue la dottrina di Truman, - di far trionfare nel mondo intiero quelli che sono i principi che stanno alla base del sistema economico capitalistico e imperialistico americano, e che vengono riassunti nell'espressione «libertà di impresa». Trionfo della li­bertà di impresa è per tutti noi espressione molto chiara. Vuol dire scatenamento delle forze capitalistiche, dominio incontrastato della vita economica e politica da parte di quelle grandi organizzazioni del capitalismo monopolistico che dopo aver preso nelle loro mani le sorti dell'America, vogliono ora prendere nelle loro mani le sorti dell'Europa e di tutto il resto del mondo. Il trionfo della «libertà di impresa» significa oggi, negli Stati Uniti, legislazione reazionaria contro i sin­dacati, divieto e repressione degli scioperi, persecuzione razziale dei negri e di altri popoli, tra cui gli italiani, considerati di specie inferiore, pratica repressione della libertà di stampa, degenerazione del regime democratico in un sistema in cui il governo è affidato a cricche di affaristi e politicanti, rappresentanti non del popolo, ma della plutocrazia. Che cosa vorrebbe dire il tentativo di estendere a tutto il mondo questo sistema? Non solo vorrebbe dire la guerra, ma la rinasci­ta delle forme peggiori di reazione e del fascismo stesso. Vi sono in Europa paesi, tra cui è il nostro, dove le radici obiettive del fascismo e del tradimento nazionale del ceto dirigente capitalistico non sono state né distrutte, né seriamente intacca­te. Il fascismo spera che gli venga dall'America la protezione e la spinta cui aspira per poter rialzare la testa. Vi sono paesi come la Spagna, il Portogallo, dove sussi­stono, sotto la protezione degli imperialisti anglosassoni, regimi apertamente fa­scisti, la cui distruzione era uno degli obiettivi dell'ultima guerra. Esistono, in Francia e altrove, gruppi dirigenti che si chiamano democratici e anche socialisti, ma già stanno dando la prova di essere capaci di annullare tutte le libertà demo­cratiche e lo stesso costume della democrazia, quando si tratta di negare i loro diritti alle classi lavoratrici e ai loro partiti di avanguardia. Questi gruppi sono stati naturalmente raccolti nel «partito americano». Vi è un paese come la Gre­cia, nel quale il popolo si è riconquistata la libertà e l'indipendenza col proprio sangue, ed è stato ricacciato sotto il giogo del fascismo per l'intervento aperto delle potenze anglosassoni in sostegno della reazione. Questo quadro è preoccu­pante. In esso vediamo sorgere un blocco di forze che lavorano in modo coordi­nato e minaccioso contro la pace e la libertà dei popoli, e alla testa di questo blocco vediamo gli imperialisti americani, armati della loro supremazia econo­mica e della loro bomba atomica con cui vaneggiano di realizzare il loro dominio sul mondo intiero.

   Dall'altro lato vi sono però anche grandi forze che vogliono la pace, la difen­dono, lavorano e lottano per mantenerla. In esse è riposta la speranza dei popoli.

   Collochiamo al primo posto la grande Unione Sovietica, il paese del sociali­smo. Essa è uscita dalla guerra avendo sopportato duri sacrifici e subito perdite gravissime, tanto di vite umane quanto di beni materiali. Nella guerra però i po­poli dell'Unione Sovietica hanno rafforzato la coscienza della loro forza, della solidità e indistruttibilità del regime socialista, ma l'autorità di questo regime è enormemente aumentata di fronte a tutti. Alla sua esistenza e compattezza, all'eroismo dei suoi popoli e alla saggezza dei suoi capi l'Europa e il mondo sono debitori della vittoria sull'imperialismo tedesco, sul nazismo, sul fascismo. L'U­nione Sovietica è la sola delle grandi potenze la quale mantiene fede ai patti con­clusi durante la guerra e subito dopo la vittoria, secondo i quali tutte le questioni del nuovo ordinamento mondiale dovevano essere decise d'accordo fra le grandi potenze democratiche, senza che l'una di esse aspirasse al dominio mondiale e senza che venisse tolta ai popoli la facoltà di decidere di sé, senza alcun interven­to straniero, delle loro sorti. L'Unione Sovietica ha proposto all'ONU misure con­crete per il disarmo, per il divieto delle terrificanti armi atomiche. Essa ha dichiarato a parecchie riprese che non vuole imporre a nessuno il proprio regime econo­mico e politico, che ritiene possibile e vuole la collaborazione con regimi diversi e con tutti i popoli d'Europa e del mondo. Essa lotta per la difesa della pace e della sovranità di tutte le nazioni in modo conseguente.

   Accanto al paese del socialismo si schierano in difesa della pace altri popoli d'Europa, che pur non essendo ancora giunti a una società socialista, sono però riusciti a realizzare democrazie di tipo nuovo, dove le basi reali del fascismo sono state distrutte, i vecchi gruppi reazionari e conservatori sono stati cacciati dal po­tere e privati di ogni influenza, il potere appartiene al popolo, le cui forze sono unite e organizzate in modo nuovo, per la ricostituzione di una società che si svi­luppa nella direzione del socialismo. L'esistenza stessa di questi paesi di nuova democrazia è considerata un'offesa e una provocazione dai dirigenti delle grandi potenze imperialistiche e particolarmente dagli americani. Qui infatti fascismo e reazione sono finiti per sempre e il capitalismo va verso la sua fine. Per questo si è ricorso a tutti i mezzi per impedire che questi regimi si organizzassero, e a tutti i mezzi oggi si ricorre per screditarli e distruggerli. Chi non vede infatti qua­le enorme significato la loro esistenza e il loro prosperare abbiano per i popoli europei, se non altro perché dimostrano con l'esempio che esiste una strada di­versa da quella rinascita forzata del capitalismo che propongono gli americani, esiste una via di redenzione per i popoli, di emancipazione politica ed economi­ca, di democrazia e di giustizia sociale.

   Anche i paesi di nuova democrazia, in conformità con l'animo dei popoli che li governano e con la natura stessa del loro regime fanno una politica di pace e lottano in difesa della pace. Ma oltre e accanto all'Unione Sovietica e a questi paesi vi sono i popoli d'Europa, di tutta l'Europa, dalla Germania alla Spagna, dall'Italia all'Inghilterra e alla Francia, i quali, appena liberatisi dagli orrori del­la guerra passata, vedono con terrore la minaccia di un nuovo flagello, sono presi in misura crescente dall'angoscia e si chiedono con insistenza sempre maggiore se veramente la guerra sia inevitabile e imminente.

   Se la guerra sia imminente, e se possa venire evitata è cosa che dipende dallo svolgimento della situazione, e in prima linea dai rapporti di forza tra coloro che lavorano per la guerra e la provocano, e coloro che lottano per salvare la pace. Già in passato, prima della seconda guerra mondiale, tra i dirigenti del movi­mento comunista internazionale la questione venne a lungo dibattuta. La con­clusione a cui allora arrivammo fu che se era vero che in quel momento maturava nel mondo capitalistico un gravissimo pericolo di guerra, era vero altresì che la pace avrebbe potuto essere salvata se le forze di tutti coloro che non erano inte­ressati alla guerra e volevano mantenere la pace si fossero unite e avessero oppo­sto un solido e ampio fronte della pace ai provocatori di guerra imperialisti. Cor­renti politiche e sindacali, popoli e stati avrebbero dovuto aver posto in questo fronte. Allora non riuscimmo a raggiungere il risultato che ci proponevamo; riu­scimmo a differire lo scoppio della guerra, con l'eroica resistenza in Spagna, non riuscimmo a impedirla. Oggi però le condizioni sono diverse da allora, e sia per motivi reali che per motivi di psicologia e sentimento. Motivi reali sono prima di tutto l'autorità molto più grande di cui oggi gode il paese del socialismo; in secondo luogo la esistenza di paesi di democrazia avanzata; in terzo luogo l'enor­me rafforzamento del movimento democratico e del movimento operaio in tutti i paesi d'Europa. Più di metà dell'Europa oggi, per quello che si riferisce alla superficie, è coperta dall'Unione Sovietica e dai paesi di democrazia avanzata. Ma anche negli altri paesi dove il movimento democratico non ha potuto avanza­re tanto, l'orrore della guerra e la volontà di pace predominano nelle masse po­polari. I popoli si ricordano ancora troppo degli orrori dell'ultima guerra per po­ter con indifferenza assistere a una attività che tenda a preparare una guerra nuo­va, la più micidiale di tutte.

   Tutto questo ci porta ad affermare che le forze della pace sono oggi nel mondo più ingenti delle forze che lavorano per la guerra, e ci induce alla conclusione che è possibile allontanare il pericolo di guerra ed evitare la guerra, purché i po­poli i quali vogliano che la pace venga conservata non si lascino intimorire dai provocatori di guerra, purché essi acquistino coscienza della loro forza e sappiano combattere in un modo conseguente per la conservazione della loro indipenden­za e della pace in Europa e nel mondo intiero. La prima cosa da farsi è di smascherare e denunciare i provocatori di guerra. Non ci si può illudere di riuscire ad ingannare il nemico su questo terreno. Non si può venire a patti con esso. Riconosciuta l'esistenza del pericolo di guerra, dob­biamo individuare quali sono i portatori di questo pericolo, cioè le forze che la­vorano per la guerra, e individuate queste forze prima di tutto nei circoli dirigen­ti della più grande potenza capitalistica e imperialistica di oggi, che sono gli Stati Uniti d'America, e nelle altre potenze imperialistiche ad essi collegate, dobbia­mo con costanza e pazienza spiegare al popolo come la politica di questi circoli dirigenti ci porti alla guerra. Non è per spaventare la gente che la nostra stampa cita ripetutamente le espressioni che vorrei qualificare pazzesche, con le quali espo­nenti della politica americana parlano della necessità di scatenare una guerra «pre­ventiva» contro il paese del socialismo, di radere al suolo la capitale di questo paese facendo uso della bomba atomica, e così via. Non è per desiderio di pole­mica che indichiamo con nome e cognome gli autori di queste affermazioni. Lo facciamo unicamente perché è nostro dovere far conoscere anche a coloro che non si occupano di politica, agli uomini e alle donne della strada, da che parte viene il pericolo di guerra. Soprattutto dobbiamo condurre con decisione questa azio­ne di smascheramento dei provocatori di guerra noi che lavoriamo in Italia, paese che per la sua stessa posizione geografica si trova al centro dei piani di guerra dell'imperialismo americano, paese verso il quale si rivolgono in modo particola­re gli sguardi di coloro che pensano di poter fare dell'Italia il punto di appoggio di scellerate campagne di guerra contro l'Unione Sovietica e contro i paesi di nuova democrazia.

   Dobbiamo condurre con particolare cura e intensità questa campagna di sma­scheramento dei provocatori di guerra anche per un altro motivo. Nel nostro pae­se non soltanto vi è oggi un governo il quale è venduto all'imperialismo america­no e se lo lasceremo fare venderà a questo l'indipendenza d'Italia, ma è disgra­ziatamente attiva un'altra grande potenza internazionale, il Vaticano. Il Vatica­no, da un lato, attraverso l'organizzazione ecclesiastica, conduce campagne a fa­vore della pace in termini generali e con espressioni che possono illudere la gente di buona fede; dall'altro lato ogni volta che la situazione internazionale si acutiz­za non manca di schierarsi dalla parte degli Stati Uniti, cioè di quella potenza che svolge una politica conseguente di espansione imperialistica e di provocazio­ne alla guerra. Così nei mesi passati, nel momento in cui la situazione interna­zionale era giunta al punto di estrema tensione, abbiamo assistito a una curiosa oscillazione nella politica internazionale del Vaticano. Prima si son potuti legge­re sul giornale che si stampa nella città del Vaticano e che è strettamente control­lato da quel governo (ivi non esiste, infatti, libertà di stampa), articoli in cui si deprecava la guerra invocando l'unità delle forze che vogliono difendere la pace; ma a distanza di poche settimane, e, ripeto, proprio nel momento in cui i rap­porti internazionali erano giunti ad un punto di massima acutezza, l'attuale Pon­tefice si è affrettato non soltanto ad accogliere un messaggio del presidente degli Stati Uniti che era tutt'altro che un messaggio di pace, ma a rispondere a questo messaggio con un documento in cui venivano in sostanza approvate e sanzionate le direttive di guerra dell'imperialismo americano [1]. Perché questo abbia potu­to avvenire è cosa che ci risulterà chiara più tardi, quando avremo visto come la difesa suprema del capitalismo morente sia la molla segreta di tutta la politica della Chiesa cattolica nel momento presente.

   Non vi è dubbio ad ogni modo che nella lotta per la pace dobbiamo essere nel nostro paese particolarmente vigilanti e attivi. Il compito di creare un ampio fronte popolare di difesa della pace è per noi importante e difficile. Esso non si pone soltanto ai nostri propagandisti o alle donne comuniste: si pone a tutto il Partito e a tutte le forze della democrazia e non riusciremo ad assolverlo se non realizzando la più larga unità e collaborazione possibile di tutti gli strati della popolazione che sono e si sentono minacciati nell'esistenza stessa da una politica che in qualsiasi modo porti alla guerra.

   Credo che nessuno potrà meravigliarsi se, data questa gravità della situazione internazionale, le forze avanzate della democrazia e della classe operaia, e parti­colarmente i partiti che organizzano queste forze nei più grandi Stati europei, nei paesi di una nuova democrazia in paesi come la Francia e l'Italia che sono obiettivi immediati dell'offensiva dell'imperialismo americano, hanno sentito che il loro dovere era ristabilire un collegamento fra di loro a scopo di reciproca informazione e allo scopo di liberamente coordinare le loro forze, in caso di bisogno, per la difesa della indipendenza dei loro paesi, della pace d'Europa e del mondo intiero. Questo è ciò che è avvenuto nella conferenza dei nove partiti comunisti che ha avuto luogo in Polonia, e i cui risultati sono noti a tutti voi. Sia ben chiaro però che le decisioni di quella Conferenza non significano niente di più e niente di meno di quanto in esse è detto: tutto il resto, tutte le campagne sul rinato Komintern e sui suoi piani tenebrosi, è soltanto scemenza e provocazione.

   Tra di noi siedono, compagni, i rappresentanti dei partiti che erano presenti alla Conferenza di Polonia e, tra di essi, il segretario generale del Partito comuni­sta francese, il grande partito nazionale e popolare che ha dato uno dei più gran­di contributi alla causa della liberazione di tutta l'Europa dal flagello del fasci­smo e del tradimento nazionale, che esce da una durissima battaglia ed è impe­gnato in nuovi durissimi combattimenti contro le forze della conservazione e della reazione. Permettete, a nome di tutti voi e di tutto il nostro partito, ch'io rivolga ancora una volta un saluto a questi compagni. Compagni rappresentanti del mo­vimento comunista europeo, noi ci conosciamo da parecchio tempo, insieme pos­siamo dire di essere veterani di molte battaglie. Se rievochiamo il passato nostro comune di lavoro e di lotta, i tempi in cui eravamo uniti assieme nelle file di quella grande organizzazione proletaria e democratica che è stata l'Internaziona­le comunista, non solo non abbiamo nessun motivo di vergognarci di quel nostro passato, anzi abbiamo tutti i motivi per esserne fieri e orgogliosi. Sappiamo però che quando assieme abbiamo deciso di sciogliere l'Internazionale comunista, l'ab­biamo fatto perché sapevamo che quella forma di organizzazione non corrispon­deva più alle condizioni in cui si svolge la lotta della classe operaia e dei popoli per la loro libertà, per la loro indipendenza, per la emancipazione del lavoro. Questo non vuol dire che non sentiamo che l'obiettivo per il quale noi combat­tiamo e quello per il quale voi combattete sono obiettivi comuni. Le vie di svi­luppo del movimento democratico dei singoli paesi d'Europa non possono essere eguali; diverse sono infatti nei singoli paesi le condizioni di sviluppo del capitali­smo, diverso il peso dei residui del passato feudale, diverse le tradizioni nazionali e rivoluzionarie, diverse le forme di organizzazione della classe operaia e delle forze democratiche. Tutto questo lo sappiamo. Viva è però soprattutto nei co­munisti e nei lavoratori italiani la coscienza che una solidarietà di tutti i lavorato­ri d'Europa è oggi indispensabile, se vogliamo riuscire a fronteggiare e abbattere il nemico comune. La fraterna e volontaria collaborazione, di carattere per ora consultivo, di cui abbiamo posto le basi nella Conferenza che ha avuto luogo in Polonia, è uno degli elementi necessari ai popoli d'Europa se essi vogliono allon­tanare da sé il flagello d'una nuova guerra.

   Su di noi, sul nostro partito e sul nostro paese, grava una responsabilità parti­colare. Se la causa dell'indipendenza e della pace trionferà in Italia, tutti i popoli d'Europa trarranno un respiro di sollievo e avranno il compito loro reso molto più facile. Se noi dovessimo essere sconfitti, i provocatori di guerra avrebbero con­quistato un prezioso punto d'appoggio per i loro attacchi. Siamo consci di que­sta responsabilità; siamo però prima di tutto consci del fatto che è in giuoco la sorte, il futuro, la vita stessa della nostra patria. La nostra lotta per la pace è dun­que prima di tutto una lotta nazionale, nell'interesse di tutto il popolo. Per que­sto ci sentiamo autorizzati a rivolgere ancora una volta un appello accorato a tut­te le forze democratiche italiane.

   L'unità è stata necessaria, nel passato, e tutti ne compresero la necessità quan­do la guerra infieriva, quando avevamo bisogno di porre fine alla guerra per evi­tare la rovina totale d'Italia. L'Unità di tutte le forze democratiche ci permise di dare un contributo alle azioni che portarono alla disfatta del fascismo e del nazismo e prepararono la nostra ripresa. Oggi deve essere chiaro per tutti che cosa significa per l'Italia una minaccia alla pace. Se vi è un paese in Europa che ha bisogno di pace, se vi è un popolo che da una minaccia alla pace è leso nei motivi più elementari della propria esistenza, quel paese, quel popolo, siamo noi. Guai a noi se l'imperialismo americano dovesse riuscire a realizzare i propri piani stra­tegici facendo entrare nel quadro di essi la collaborazione anche solo passiva del nostro governo e del nostro paese. Sarebbero minacciati tutti i beni che ci siamo conquistati col lavoro e con la lotta di due o tre generazioni. Sarebbero minaccia­te la libertà, l'unità, l'esistenza stessa d'Italia come stato indipendente.

   Per questo l'appello alla lotta per la pace che lanciamo dal nostro congresso è rivolto non soltanto agli operai, non soltanto ai democratici avanzati, ma a tut­ti gli italiani i quali hanno a cuore la sorte della loro patria. Tutti uniti dobbiamo impedire ad ogni costo che un governo conservatore e clericale faccia anche solo i primi passi che possono portare l'Italia ad essere la pedina di un torbido e crimi­nale gioco imperialista. Non tutti sono in grado di valutare quali potranno essere le conseguenze di questi primi passi. Tutti però sono in grado di comprendere che, fatti i primi passi, sarà impossibile tirarsi indietro e il popolo verrà trascinato per un piano inclinato sino ad essere stritolato da una macchina infernale messa in movimento indipendentemente dalla sua volontà. Bisogna dire «basta» sin dai primi momenti; e dire «basta» oggi vuol dire rivendicare una politica nazio­nale di pace dal governo che dirige le sorti della Repubblica italiana, rivendicare una politica la quale non soltanto non metta l'Italia al servizio di una potenza imperialistica straniera ma faccia aderire il nostro paese a tutte quelle iniziative e azioni coordinate dai popoli d'Europa per difendere e mantenere la loro indi­pendenza e la pace.

   Questa è la politica che noi rivendichiamo per l'Italia; questa è la sola politica che possa salvare l'avvenire del nostro paese.

III. Minaccia all'indipendenza nazionale

  Alla minaccia alla pace è legata nel modo più stretto la minaccia alla indipen­denza che è particolarmente grave perché siamo un paese nel momento attuale economicamente e politicamente debole, che non ha ancora riacquistato in pie­no lo statuto di nazione libera, né ancora ha potuto essere accolto nell'organizza­zione delle Nazioni Unite, che non è riuscito ancora a scartare dalla direzione della vita politica nazionale le vecchie caste conservatrici e reazionarie, quelle ca­ste che parecchie volte già nel corso della nostra storia, come nella storia di altri popoli d'Europa, hanno dimostrato di essere capaci di sacrificare l'indipendenza nazionale alla difesa dei loro privilegi e del loro egoismo.

   La questione della nostra indipendenza, dei pericoli ch'essa corre e della sua difesa, deve essere discussa in questo congresso con grande attenzione e serietà. Essa è essenzialmente legata al problema dei cosiddetti «aiuti» americani, di cui viene affermata per la nostra ripresa economica la necessità, da cui deriverebbe l'obbligo di una politica determinata, quella di asservimento agli Stati Uniti dell'attuale governo De Gasperi. Noi non neghiamo che sia utile al nostro paese avere un aiuto da parte di quel paese che è oggi economicamente così forte, re­spingiamo però come esiziale l'indirizzo politico proposto e seguito da coloro che sembrano non vedere più altro che questa utilità.

   Prima di tutto vorremmo ricordare a coloro che tanto parlano di aiuti america­ni come di un grande sacrificio di cui noi dovremmo essere riconoscenti agli Stati Uniti al punto di cedere loro in cambio la nostra indipendenza, e vorremmo ri­cordare ai rappresentanti stessi del popolo americano, che gli Stati Uniti hanno obblighi particolari verso i paesi europei, e il fatto che adempiano a questi obbli­ghi non è segno di speciale generosità. La guerra è stata condotta dai popoli delle principali nazioni europee e dalle grandi potenze democratiche, tra cui sono gli Stati Uniti, insieme, con obbiettivi comuni. Non si può negare che gli Stati Uni­ti abbiano ricavato qualche vantaggio dal fatto che sono stati distrutti l'imperia­lismo tedesco e quello fascista. Ora, questa distruzione prima di tutto ha potuto avvenire soltanto grazie al decisivo contributo dato dal paese del socialismo, l'U­nione Sovietica; in secondo luogo grazie anche al contributo non trascurabile da­to dai popoli d'Europa insorti in difesa della loro indipendenza e libertà. Ma le perdite degli Stati Uniti per la guerra non sono nemmeno lontanamente con­frontabili con le perdite subite dall'Unione Sovietica, con quelle subite dai paesi di nuova democrazia dell'Europa centrale e orientale, come la Polonia e la Jugo­slavia, per esempio, e nemmeno con le perdite che abbiamo subito noi, o che ha subito la Francia.

   A me pare dunque che basti collocarsi nella posizione dell'uomo comune, che giudica secondo le regole elementari del buon senso, per concludere che, data questa situazione, l'aiuto ai popoli di tutta l'Europa è per gli americani un ob­bligo di quel paese che non ha avuto durante la guerra il suo patrimonio indu­striale in gran parte distrutto, come è accaduto per esempio per l'Unione Sovieti­ca, per la Polonia, per la Jugoslavia, per l'Italia; di quel paese che non ha nem­meno subito le perdite atroci di vite umane che sono state subite dall'Unione Sovietica e da altri paesi europei. E' un obbligo, vorrei dire, di morale e di solida­rietà internazionale. Quando affermiamo di riconoscere la utilità e anche la ne­cessità degli aiuti americani, non solo non ci sentiamo per nulla umiliati perché sappiamo che nella misura delle nostre forze abbiamo dato anche noi un contri­buto alla vittoria della causa della democrazia in Europa; ma non comprendiamo assolutamente perché in cambio di questi aiuti doverosi dovremmo cedere agli americani la nostra libertà di governarci a modo nostro, accettare la dottrina di Truman e governarci come piace a loro. Mantenere la nostra indipendenza vuole però dire innanzi tutto discutere le condizioni degli aiuti stessi e respingere quel­le condizioni che sono lesive della nostra autonomia, della nostra libertà, della nostra dignità nazionale, quelle condizioni che compromettono il nostro avveni­re economico e politico.

   Bisogna riconoscere che da quando noi abbiamo incominciato a porre la que­stione in questo modo, che è riconosciuto giusto e accettato da ogni cittadino onesto e patriota, le risposte che ci sono state date sono sempre state molto con­fuse, imbrogliate e da ultimo anche truffaldine. Esse sembrano fatte apposta per convincere l'opinione pubblica che la predica sulla necessità degli aiuti nasconde qualche traffico molto losco.

   Prima di tutto vi è stata la famosa questione della liquidazione dei conti attivi e passivi della guerra, regolata dalla famosa missione dell'on. Ivan Matteo Lombardo. Non credo che il popolo italiano sia stato posto in condizioni di capire come questa partita è stata liquidata, perché due posizioni contraddittorie sono state presentate e difese volta per volta, a seconda che faceva comodo ai difensori d'ufficio dell'imperialismo americano. Da un lato si è detto che il governo degli Stati Uniti non avrebbe chiesto l'applicazione delle clausole economiche del trat­tato di pace che giocavano a suo favore e facevano gravare sopra il nostro paese un debito abbastanza duro. E sta bene. Vorrà dire che tra i due paesi si sarà venuto a un compenso tra debiti e crediti. Anche noi infatti avevamo verso gli Stati Uni­ti crediti da far valere, per il contributo stesso che abbiamo dato alla guerra, e per quello che gli eserciti americani, passando per il nostro paese, hanno preso sotto forma di requisizioni, rifornimenti, macchinari esportati o distrutti, ecc. Abbiamo quindi chiesto al governo di farci sapere a quanto ammontavano i no­stri crediti, affinché potessimo confrontarli con i crediti americani (derivanti dal trattato), e giudicare se il nostro interesse era stato ben difeso. Allora si è risposto che non valeva la pena di tirar fuori questo conto, perché ciò non è permesso dal trattato di pace. Allora non ne abbiamo capito nulla. O gli americani hanno rinunciato ad applicare il trattato, e allora permetteteci di esaminare il dare e l'a­vere; oppure smettetela di fare i lustrascarpe esaltando la loro straordinaria gene­rosità! Fatto sta che oggi di quella operazione non se ne parla più, perché biso­gnerebbe dare una spiegazione di questa contraddizione e il governo del nostro paese non ha ritenuto necessario darla. Forse non lo ha fatto perché avrebbero dovuto dire quanto erano ingenti i nostri crediti verso gli Stati Uniti e allora que­sti non sarebbero apparsi molto più generosi di Shylock [2].

   Si è entrati così nella fase dei cosiddetti doni. Tra essi ve ne sono di carattere privato, come quelli della colonna che attraversa il paese, organizzata da un gior­nalista. Ringraziamo coloro che hanno dato qualcosa per aiutate i più bisognosi tra gli italiani, però nè questo può essere un sistema permanente né creda il gior­nalista organizzatore dell'attuale invio, che questo gli dia il diritto di calunniare l'Italia com'egli spesse volte fa. Vi sono poi quei «doni» di un tipo speciale, e che consistono nel fatto che una parte delle materie prime necessarie per la re­staurazione della nostra vita economica le riceviamo dagli Stati Uniti senza un pagamento immediato da parte nostra. Sembra a prima vista che tutto vada be­ne, perché se qualcuno ti regala qualcosa è sempre bene. Per un grande paese, però, le cose non stanno così. L'economia di un grande paese non si organizza sulla base di «doni», ma di scambio. Se voi mi regalate un quintale di carbone e io non vi dò in cambio nessun prodotto delle mie industrie, avrò in più un quintale di carbone. Ma se io vi dò in cambio un prodotto della mia industria corrispondente al prezzo di quel carbone, allora non solo avrò il carbone, ma avrò fatto lavorare un certo numero di operai alla produzione della merce che vi dò in cambio, e per di più sarò stato io a scegliere questa merce, e quindi a fissare il modo come si deve sviluppare l'economia del paese.

   Ma i famosi «doni» americani sono poi veramente tali? Se così fosse avrei una prima domanda da porre al governo. Se è vero che il grano ci viene regalato dagli americani, perché allora avete aumentato il prezzo del pane? Se è vero, come scrivete sulle bollette del gas che quel gas viene fabbricato col carbone il quale viene dato gratis dagli Stati Uniti, perché aumentate il prezzo del gas, perché non lo dimi­nuite invece, dal momento che non vi costa niente la materia prima con cui lo fabbricate? E' evidente che vi è qui qualche cosa di non chiaro.

   La realtà è che i «doni» di questo tipo non sono affatto dei «doni» ma merci che il governo italiano paga al loro valore, accantonando il corrispondente prezzo in un fondo speciale, che dovrà essere amministrato sotto una sorveglianza parti­colare degli americani stessi. Qui entriamo nel vivo della questione, perché an­che una parte del piano Marshall si fonda su questo sistema. Le obiezioni che immediatamente vengono alla mente sono parecchie. Prima di tutto l'erogazio­ne e la distribuzione delle materie prime ottenute con questo sistema hanno luo­go secondo un piano discusso e fissato insieme con gli agenti del governo ameri­cano. In secondo luogo il fondo di cui sopra ho parlato, non può non diventare rapidamente molto grande relativamente al nostro bilancio pubblico e alle nostre finanze private. Attraverso il controllo di questo fondo l'intervento straniero nel­la nostra vita economica diventa sempre più grande. Una parte del bilancio dello stato viene in certo modo sottratto al controllo normale del popolo, e nessuno ci può garantire che, per un benevolo accordo tra gli agenti del governo america­no e il governo al loro servizio, attraverso il fondo particolare proveniente dai famosi «aiuti» o «doni», vengano direttamente o indirettamente impinguati i fondi elettorali della Democrazia cristiana. Si pensi che si tratta nel complesso di centinaia di miliardi di lire italiane.

   Quando si è discusso di questo tema nella Commissione degli affari esteri della Costituente, ci si è detto che queste sono condizioni del genere di quelle che di solito ogni privato fa all'imprenditore a cui fa un prestito e a cui chiede in pari tempo come il denaro viene speso per essere sicuro che infine gli possa essere re­stituito. Ma qui non abbiamo di fronte a noi un privato, bensì i rappresentanti e gli agenti di uno stato, e nemmeno di uno stato qualunque, bensì proprio di quegli Stati Uniti di cui già conosciamo la politica di espansionismo senza freni e di provocazione di una nuova guerra. Prima di formulare le proposte del piano Marshall gli Stati Uniti hanno formulato la dottrina di Truman. Questo è dun­que condizionato da quella. Siamo quindi nel nostro pieno diritto quando dicia­mo che il piano Marshall è strumento diretto di una politica che tende a stabilire una egemonia mondiale dell'imperialismo americano, che tende a difendere in tutti i modi quel predominio dei monopoli capitalistici che è la base della vita economica degli Stati Uniti, che tende a combattere politicamente, isolare e ag­gredire con le armi l'Unione Sovietica e i paesi di nuova democrazia, che tende a estendere a tutto il mondo la lotta contro il comunismo, che tende cioè a spez­zare le forze della democrazia e della classe operaia, a mettere al bando i combat­tenti più ostinati, più eroici, più conseguenti contro il fascismo e per l'indipen­denza dei popoli europei. Siamo quindi nel nostro pieno diritto quando conside­riamo in modo del tutto particolare quell'intervento nella vita economica che è rappresentato dall'apparizione dei «controllori» americani, incaricati di sorve­gliare come vengono distribuite le materie prime e le altre merci inviate dal loro paese e come vengono amministrati i fondi risultanti dall'accantonamento di lire corrispondenti al valore di queste merci. E' certo che questi controllori lavoreran­no in modo coerente con la dottrina di Truman, e il loro intervento nella nostra vita economica sarà tale da far trionfare i principi di questa dottrina. Sarà inutile allora che noi parliamo di rinnovamento della nostra economia, di riforma di struttura, di riforma industriale e di riforma agraria, di nuove condizioni di esistenza delle masse. Tutto questo non fa parte del sistema delle «libertà delle masse», e quindi non va d'accordo né con la dottrina Truman, né con il piano Marshall. L'intervento economico diventa quindi intervento politico, veto alla partecipa­zione al governo dei partiti democratici e dei partiti operai, pena la fine degli «aiuti», rottura del paese in due, provocazione continua di guerra civile e infine minaccia di intervento armato.

   Siamo noi d'accordo e quale italiano può essere d'accordo con un «aiuto» eco­nomico che per la forma in cui è dato riproduce la situazione in cui nel secolo passato le grandi potenze mantenevano sotto il loro controllo, ad esempio, l'Im­pero ottomano, e per la sostanza ci chiude la strada del progresso economico e politico e fa dell'Italia un paese vassallo di un imperialismo straniero?

   Le cose si aggravano perché la proclamazione della dottrina Truman, la propo­sta del piano Marshall e le discussioni per la realizzazione di esso hanno creato in Europa una situazione nuova. L'Europa è stata spezzata in due, il che corri­sponde ai piani dell'imperialismo americano e di quello inglese per l'isolamento dell'Unione Sovietica e dei paesi di nuova democrazia, ma non corrisponde per nulla all'interesse nazionale italiano; così come non corrisponde per nulla al­l'interesse nazionale italiano la divisione in due della Germania, che è pure uno degli obiettivi e in parte già il risultato della politica anglo-americana.

   Come italiani, sarebbe assurdo ci disinteressassimo del modo come viene risol­to il problema della organizzazione politica ed economica del territorio tedesco. Gli accordi di Yalta e di Potsdam tendevano al ristabilimento di una Germania unitaria ma democratica, la quale avrebbe dovuto sorgere dopo che fossero state distrutte le radici dell'imperialismo tedesco e del nazismo e operata su tutto il territorio una profonda trasformazione economica e sociale in senso democratico. Oggi la dottrina e la pratica americana e inglese tendono invece a dividere la Ger­mania in due, creando da una parte uno Stato occidentale tedesco sotto il con­trollo delle cosiddette potenze occidentali. In questa zona gli Stati Uniti concen­trano il maggior numero dei cosiddetti loro aiuti, ma questi non sono dati per rafforzare un regime democratico, bensì per ricostruire una grande industria mo­nopolistica come quella che esisteva prima di questa guerra e per incoraggiare dei partiti conservatori e reazionari.

   A oriente dell'Elba rimarrebbe l'altra parte della Germania, controllata ancora oggi dall'Unione Sovietica e nella quale le misure per la democratizzazione del paese, come la riforma agraria e la nazionalizzazione della grande industria sono seriamente applicate. Io non voglio ora occuparmi delle questioni sociali, econo­miche, politiche puramente tedesche, che sorgono da questa situazione. Domando soltanto se questa situazione conviene all'Italia come nazione e stato indipen­dente e rispondo senza esitazioni che non conviene. L'Italia è interessata che la Germania venga ricostruita come unità, e unità indipendente, poiché soltanto in questo caso avremo la possibilità di riprendere largamente quegli scambi con l'Europa centrale che sono indispensabili per la ripresa della nostra vita economi­ca. In pari tempo siamo interessati che vi sia una Germania in cui l'imperialismo e il fascismo non possano più attecchire perché le loro radici economiche siano state tagliate per sempre. La divisione della Germania in due e ciò che viene fatto dagli americani nella Germania occidentale tende al contrario a mantenere in vi­ta non soltanto le radici dell'imperialismo e del fascismo, ma organizzazioni stesse le quali sono state nel passato basi del fascismo e che saranno inevitabilmente base di un nuovo imperialismo e di una nuova organizzazione reazionaria nel­l'avvenire. Tutto questo è contrario agli interessi del popolo italiano, il quale sa che ogni volta che l'imperialismo tedesco si è scatenato per conquistare il domi­nio del mondo intiero, l'Italia è stata tra le prime sue vittime. Folli e criminali sono gli imperialisti americani se seriamente pensano di servirsi di un rinato im­perialismo tedesco per realizzare i loro piani di attacco contro l'Unione Sovietica. Noi respingeremo con orrore, per motivi nazionali e internazionali, ogni anche più lontano accenno a una politica di questa natura.

   Contraria agli interessi del popolo italiano è anche la lotta che inglesi e ameri­cani conducono per annullare l'indipendenza del popolo greco, facendo della Grecia un punto di appoggio del loro imperialismo. Noi mandiamo un saluto fraterno e solidale e un augurio di vittoria ai valorosi partigiani greci che combattono per l'indipendenza della loro patria.

   Questo saluto e questo augurio non li mandiamo però soltanto come comuni­sti, perché sappiamo che tra quei combattenti vi sono i nostri fratelli di fede; lo mandiamo come italiani, consci che la causa della libertà e dell'indipendenza della Grecia nel corso di tutto il secolo passato è sempre stata unita alla causa della libertà e della indipendenza italiana. All'inizio del secolo XIX, prima è in­sorta la Grecia tra i popoli di Europa contro il sistema della Santa Alleanza e a quella insurrezione immediatamente ha fatto seguito quella del popolo italiano. I combattenti delle rivoluzioni liberali italiane del 1821 così fortemente sentiva­no che la causa d'Italia era strettamente unita alla causa del popolo greco che, sconfitti in patria, andarono a continuare la loro battaglia in Grecia e ivi cadde Santorre di Santarosa. Ma anche in seguito, tutte le lotte del popolo greco per la sua indipendenza contro l'Impero ottomano e contro l'intervento di potenze straniere, sempre sono state sentite dalla parte migliore del popolo italiano come lotta in cui era impegnata la sorte stessa del nostro paese a cui avevamo il dovere di partecipate non soltanto col sentimento ma anche col braccio. Questa e solo questa è la tradizione nazionale e democratica italiana, nel nome della quale au­guriamo la vittoria al popolo greco e al governo libero costituito dal Generale Markos.

   Il nostro Paese è sorto a unità nel corso del secolo XIX in modo che non può essere compreso e persino può apparire un miracolo se lo si pone in relazione con tutta la situazione europea. E' assai dubbio se nel corso dell'800 si sarebbe forma­to uno stato nazionale italiano unitario se, sotto la spinta vittoriosa dei movi­menti nazionali e democratici europei, non fossero franati tanto il sistema di pre­dominio dell'una o dell'altra grande potenza, quanto quello del cosiddetto «equi­librio» artificialmente mantenuto, contro la volontà dei popoli, da un blocco di potenze reazionarie. Di qui derivano ancora oggi necessità e tradizioni di una politica nazionale italiana.

   Ho visto che come risposta allo slancio del popolo e degli intellettuali per la celebrazione dell'anniversario del 1848, vi è stato chi ha cercato o sta cercando di contrapporre a quello un altro anniversario, quello del 1648, che sarebbe stato l'anno «della pace», precisamente perché in esso venne conclusa la pace di Ve­stfalia, che segnò la fine della terribile guerra dei trent'anni. Ora è verissimo che la pace di Vestfalia dette un riconoscimento alla libertà di coscienza ad alcuni popoli d'Europa, ma questo non fu il caso dell'Italia. Al contrario, nella pace di Vestfalia uscì per l'Europa centro-meridionale un sistema di stati cattolici fie­ramente retrivi e reazionari e in quel sistema l'Italia scomparve come forza auto­noma per più di un secolo. Si deve arrivare fino al 1748, fino alla pace di Aquisgrana e al periodo successivo, perché si possa assistere a una certa ripresa di vita nazionale italiana, in contatto dei più avanzati popoli d'Europa. Oggi la politica americana tende a qualche cosa di simile a quelli che furono gli aspetti negativi della pace di Vestfalia. Mi pare che l'imperialismo americano cerchi di raggiun­gere una specie di blocco di stati cattolici che dovrebbero comprendere una Fran­cia reazionaria, la Spagna di Franco, l'Italia democristiana e vaticana, l'Austria clericale, la Germania fascista, ecc. Questo blocco dei paesi vassalli dell'America verrebbe creato come minaccia permanente per i paesi di nuova democrazia e per il paese del socialismo. Ritengo che se un obiettivo simile potesse venire realizza­to, le conseguenze sarebbero ancora una volta tragiche per l'Italia. Noi siamo sorti, ci siamo affermati come nazione libera e unita lottando contro analoghi blocchi reazionari che avevano stabilito il loro dominio sull'Europa, contro la Santa Al­leanza, prima di tutto, a cui abbiamo dato un colpo mortale, nel 1848 prima e poi con la successiva nostra lotta di liberazione nazionale. Raggiunta l'unità, ci siamo affermati come potenza mediterranea ed europea minando e disgregan­do prima e poi rompendo i vincoli della Triplice, e distruggendo la Triplice stes­sa. Oggi è obiettivo evidente di una politica nazionale italiana, se vogliamo man­tenere aperte al popolo italiano le grandi vie di contatto con tutti i popoli d'Eu­ropa e col mondo intiero, impedire che si affermi in Europa un nuovo sistema egemonico di Stati reazionari, e particolarmente che si costituisca sotto l'ala del­l'imperialismo americano con un nuovo blocco di stati cattolici e retrogradi che questo potrebbe significare per noi la fine non solo di ogni autonomia e indipen­denza, ma persino la fine dell'unità. Come paese prevalentemente marittimo, e mediterraneo, noi dobbiamo volere che il Mediterraneo rimanga aperto a tutti e prima di tutto ai popoli che si affacciano alle sue coste. Un Mediterraneo ameri­cano dominato da un'Africa settentrionale anglosassone, e sbarrato dai popoli dell'Oriente europeo, è un assurdo che la nazione italiana non può in nessun modo auspicare. Come paese collocato nel settore centrale dell'Europa, noi ab­biamo bisogno di scambio con tutta l'Europa, ma particolarmente, dato il carat­tere della nostra economia industriale e agraria, di scambi con quei paesi d'Euro­pa orientale, vicini e lontani, la cui economia è complementare della nostra. Pur­troppo a questo oggi non si tende. Di fatto la nostra diplomazia ha fatto propria la tesi del Mediterraneo americano e dell'Africa settentrionale base anglosassone, e l'incondizionata e servile adesione al piano Marshall e ai progetti di blocchi economici e politici occidentali limita e taglia la strada dei traffici con l'Oriente. E' vero che è stato concluso un trattato di commercio con la Repubblica Popolare Federale Jugoslava, alcune settimane or sono, ma dopo che questo trattato di com­mercio era stato tenuto sospeso per parecchi mesi dal giorno in cui era stato para­frasato dalla Commissione inviata a Belgrado per definire le condizioni, abbia­mo ora appreso che esso è stato di nuovo inviato a tutti i Ministeri, ognuno dei quali dovrà fare le sue osservazioni, le quali poi verranno ancora sottoposte al Consiglio dei ministri per decidere in che modo e quando potrà essere applicato. Non è questo il sistema che viene seguito dal governo De Gasperi quando si trat­ta di fare qualche cosa agli ordini dell'imperialismo americano. Allora si ubbidi­sce, si corre, si mandano i ministri due o tre volte di seguito a Washington, si firmano tutti i documenti, comunicandoli o non comunicandoli alle Commissio­ni dell'Assemblea. Quando si tratta invece di compiere gli atti normali di una politica nell'interesse economico del nostro paese, non si trova mai la strada. Co­sì fino ad oggi, dalla fine della guerra, il governo italiano non è stato capace di prendere un qualsiasi contatto diretto con l'Unione Sovietica e coi suoi gover­nanti. La realtà è che qui già si fa sentire quel controllo politico ed economico americano di cui parlavo prima. I nostri scambi con i paesi d'Europa orientale danno noia a coloro che vogliono mobilitare tutta l'Europa occidentale per la lot­ta contro questi paesi. Essi danno noia a una parte delle sfere economiche degli Stati Uniti e precisamente a quegli industriali americani che vedono di maloc­chio la ripresa della nostra industria metallurgica e meccanica, perché la conside­rano come un'attuale o potenziale concorrente. In questo modo si spiega anche la riluttanza che negli ultimi tempi si è manifestata a fornire alla nostra industria metallurgica e meccanica i mezzi per superare una crisi passeggera e riprendere a funzionare in pieno, per riconquistarsi quei mercati di blocco che essa è in gra­do di riconquistarsi data la sua efficienza tecnica ed economica.

   Noi abbiamo bisogno di commerciare con tutto il mondo, non possiamo con­cepire uno sviluppo della nostra economia come appendice dell'economia degli Stati Uniti, e nemmeno come appendice dell'economia di un paese industrial­mente molto sviluppato come la Francia e come l'Inghilterra. Non abbiamo spe­ranza di risanamento e di sviluppo se non ci liberiamo dalla soggezione e dal con­trollo di paesi che per la loro stessa potenza industriale ci schiacciano e tendono a distruggere ogni nostra possibilità di vasti e proficui contatti col mondo. Tutta la politica degli «aiuti» di emergenza e dei famosi «doni» che fanno parte del piano Marshall è una politica che tende a tagliare all'economia italiana la strada maestra del proprio sviluppo. Di ciò cominciano ad avere coscienza non soltanto gli elementi di opinione democratica più avanzata ma anche quei dirigenti del mondo industriale che hanno conservato indipendenza di giudizio nei confronti degli agenti dell'imperialismo americano.

   Ma oltre a questo, vi è l'aspetto strettamente politico del problema, cioè l'in­tervento diretto nella vita interna del nostro paese. E qui chiediamo ai membri dell'attuale governo di mettersi d'accordo fra di loro. De Gasperi strilla da un lato che non vi è nessun fatto politico annesso agli «aiuti» americani; ma dal­l'altro lato Pacciardi pubblica in tutte lettere nel suo giornale che l'aiuto ameri­cano è condizionato dal fatto che i comunisti non partecipino al governo. Poiché è chiaro che il sincero, in questo caso, è Pacciardi, questo spiega il motivo per cui il governo italiano è entrato in crisi nel mese di gennaio, dopo il viaggio di De Gasperi in America; questo spiega la crisi del mese di giugno, e anche la crisi attuale, causata dal viaggio in America, questa volta, di Saragat, che vi ricevette quel pacchetto di dollari dal signor Antonini, alla presenza di un rappresentante del Dipartimento di Stato!

   Dalla situazione che in questo modo viene a crearsi in Italia ogni buon italiano si deve oramai seriamente preoccupare. Non sono infatti passate due settimane della partenza dell'ultimo scaglione delle truppe americane di occupazione, che è stata lanciata la nuova scandalosa dichiarazione di Marshall, nella quale in so­stanza il governo degli Stati Uniti si arroga unilateralmente il compito di proteg­gere l'indipendenza del nostro paese, e abbiamo avuto la vergogna di dover ascoltare nella nostra Assemblea costituente la difesa di ufficio di questa dichiarazione fatta dal nostro ministero degli Esteri. Non vi è nessuna clausola né nel nostro trat­tato di pace né nel patto delle Nazioni Unite che autorizzi nessun paese - né gli Stati Uniti né alcun'altra potenza imperialistica - ad assumere la protezione dell'indipendenza italiana. L'indipendenza d'Italia prima di tutto cerchiamo di proteggerla noi italiani stando uniti e vigilanti contro l'intervento straniero e contro gli agenti dell'imperialismo straniero che cercano di penetrare nelle nostre file. Se vi sarà bisogno di qualche ulteriore garanzia a difesa di essa, ad ogni modo questa non potrà mai essere altro che una garanzia di carattere collettivo e inter­nazionale se non vogliamo che l'Italia, dopo essere stata portata alla disfatta dal­la follia fascista, venga spinta a diventare non più un paese indipendente, ma una semicolonia o colonia di una grande potenza imperialistica.

   Con lo stesso spirito dobbiamo giudicare le recentissima dichiarazione di un'a­genzia americana, secondo cui l'invio e la presenza di distaccamenti di fucilieri e della marina americana nei porti del Mediterraneo e nelle acque territoriali ita­liane è una specie di misura preventiva per la difesa del nostro paese dalla minac­cia del comunismo. Non so chi abbia redatto una dichiarazione simile, penso che non può essere altro che un mentecatto. I lavoratori italiani, i nostri partigiani, i nostri soldati, e i nostri marinai hanno combattuto fianco a fianco con i soldati americani per la libertà e l'indipendenza d'Italia; abbiamo mischiato il nostro sangue nella recente guerra, la quale non era guerra per stabilire sul nostro paese il giuoco di un nuovo imperialismo. Nell'intento nostro e nell'intento di figli di madri americane che sono caduti accanto al nostro partigiano, al nostro solda­to, al nostro aviatore, al nostro marinaio, questa guerra veniva combattuta per­ché tutti i popoli fossero liberi e indipendenti, padroni di darsi quell'ordinamento politico e sociale che vogliono. Noi teniamo fede a questo programma e a questa speranza. Non abbiamo nessun risentimento contro il popolo americano; sappia­mo che è un popolo generoso, e nutriamo ammirazione per una parte notevole delle sue tradizioni. Soprattutto noi, italiani del 1947-48, non sappiamo non sentire una ammirazione per quel popolo il quale ha iniziato la propria lotta per fare degli Stati Uniti una repubblica indipendente prendendo come punto di parten­za la resistenza a una tariffa doganale che l'Inghilterra voleva imporre con gli in­trighi e con la forza ai coloni che avevano fondato le prime comunità civili sulle coste dell'Atlantico. Il richiamo a questo precedente storico ha per noi oggi un significato particolare: anche noi, democratici italiani, siamo capaci di scorgere, non dico in una tariffa doganale, ma per esempio in un intervento e controllo economico che ci impedisce perfino di avere delle tariffe doganali nell'interesse della nostra industria, siamo capaci di scorgere in questo intervento la minaccia a tutta la nostra vita nazionale. Ci richiamiamo quindi alle vostre tradizioni, o americani, ed è nel nome di Washington, di Jefferson, di Lincoln che anche noi oggi combattiamo per la libertà e per la indipendenza del nostro paese. Non vo­gliamo che vengano in Italia controllori americani, con il pretesto della difesa del sistema della «libera impresa», a imporci le leggi americane contro i sindacati. Non vogliamo che agenti dell'imperialismo americano vengano a portare la divi­sione nelle file del movimento democratico, del movimento operaio, del movi­mento socialista, del movimento nazionale del nostro paese. Vogliamo essere uniti e saremo uniti per la difesa della nostra libertà e della nostra indipendenza e in questo modo siamo coerenti col nostro interesse nazionale e con le migliori tradi­zioni della democrazia italiana.

   Le nostre proposte per una politica estera sono chiare. Vogliamo che l'Italia faccia una politica di amicizia con tutti i popoli; respingiamo ogni adesione ad una politica la quale spezzi in due l'Europa, sia essa adesione diretta o indiretta; respingiamo ogni atto il quale possa significare che partecipiamo in un modo qua­lunque a un blocco costituito per isolare il paese del socialismo e i popoli dell'U­nione Sovietica o i paesi di nuova democrazia. Non respingiamo nessun aiuto di popoli più ricchi di noi, salutiamo la loro generosità e per essa li ringraziamo, ma non accettiamo nessuna condizione la quale sia lesiva in un modo o nell'al­tro, direttamente o indirettamente, della nostra indipendenza e della nostra au­tonomia. Sappiamo che l'economia italiana potrà prosperare soltanto in un siste­ma di scambi e di collaborazione con gli altri stati d'Europa e del mondo, ma vogliamo essere noi italiani quelli che tracciano la linea di sviluppo della nostra economia. Vogliamo essere amici con tutti i popoli che confinano con noi; re­spingiamo in particolare tutti i tentativi che ogni giorno vengono rinnovati per cercare di mantenere un focolaio di inimicizia tra di noi e i popoli della Repub­blica federale popolare jugoslava. Vogliamo essere amici della nuova Jugoslavia: anche se avremmo desiderato soluzioni diverse di determinate questioni e anche se noi stessi abbiamo dimostrato che soluzioni diverse erano possibili, oggi biso­gna eseguire il trattato di pace. Sono convinto che domani una Italia popolare e democratica, una Italia libera da influenze imperialistiche straniere troverà basi nuove di accordo, le quali soddisfino di più entrambi i paesi. Soprattutto però le troverà se saprà eliminare i seminatori di discordie e provocatori di guerra che si sono sforzati dal momento della liberazione fino ad oggi di mantenere vivo un dissidio alle frontiere orientali, che sperano, soffiando in quel fuoco, che esso possa diventare la prima fiamma di un nuovo conflitto. Mandiamo dal nostro congresso, un saluto ai popoli della Jugoslavia, ai comunisti jugoslavi, al loro grande capo ed eroe nazionale, il maresciallo Tito. Egualmente vogliamo rapporti di ami­cizia e di fraterna collaborazione col popolo francese e con la Repubblica france­se. Per quel che si riferisce ai cosiddetti progetti di più stretta relazione economi­ca tra i due paesi, desideriamo che la eventualità di queste soluzioni venga esa­minata liberamente dai due popoli, senza che gli interessi di potenze capitalisti­che straniere intervengano per imporre quello che è soltanto nel loro interesse e sopraffare l'indipendenza dei due popoli. Auspichiamo che il nostro paese en­tri al più presto nell'organizzazione delle Nazioni Unite, ma sappiamo benissi­mo che affinché questo avvenga è necessario che l'Italia cessi di essere agli occhi di tutto il mondo lo strumento servile della politica espansionistica e di guerra dell'imperialismo americano. In questo campo quindi è necessario che profonde modificazioni vengano fatte alle direttive attuali della politica estera italiana, se vogliamo che la minaccia all'indipendenza d'Italia venga allontanata.

IV. Minaccia alla libertà

  La terza minaccia che grava su di noi è alla libertà, riconquistata con tanta fati­ca. Ma qui ci si dice: abbiamo scritto una Costituzione, abbiamo sancito in essa tutti i possibili diritti. Che cosa volete di più? Nemmeno la Costituzione è dun­que per voi sufficiente garanzia? Sì, la Costituzione è una cosa positiva, però an­che nello Statuto albertino erano scritte e sancite tutte le libertà del cittadino, e ciò nonostante il fascismo è andato al potere, ha trionfato, ha governato tirannicamente per più di vent'anni senza che la Costituzione gli desse la minima noia. I principi democratici sanciti nell'attuale Costituzione non hanno impedito che venisse rotta l'unità delle forze democratiche che partecipavano alla direzione del paese dopo il 2 giugno. La Costituzione non ha impedito che si costituisse un governo e un regime particolare, quelli che esistono oggi e che abbiamo chiama­to il «cancellierato», spiegando che si tratta di una definizione politica, di un regime cioè nel quale il governo è tenuto di fatto da un solo partito, il quale trova il modo di sottrarsi sia attraverso espedienti della procedura parlamentare sia attraverso altre forme, al controllo del Parlamento, cioè al controllo dei rap­presentanti del popolo. La Costituzione è una garanzia, sì, ma essa non ci garan­tisce contro i pericoli che oggi minacciano la democrazia italiana. La vera garan­zia sta nella forza e nello sviluppo del movimento democratico di masse popola­ri, il quale partendo dal terreno costituzionale, spinga alla attuazione di quei prin­cipi di giustizia sociale, di rinnovamento economico profondo che la Costituzio­ne prevede, ma che rimarranno senza dubbio lettera morta se la realizzazione di essi rimarrà affidata alle vecchie classi dirigenti, conservatrici.

   Quando noi però ci esprimiamo in questo modo, ci sentiamo domandare se, nello sviluppo di questo movimento democratico di masse, noi rispetteremo la Costituzione repubblicana; se ci proponiamo di muoverci sul terreno legale, op­pure di uscire dalla legalità. A questa domanda abbiamo una sola risposta da da­re: fino ad oggi soltanto i gruppi conservatori e reazionari, soltanto le caste privi­legiate, soltanto le classi borghesi hanno dato prova di essere disposte in qualun­que momento a violare qualsiasi norma costituzionale e qualsiasi legalità costitu­zionale, pur di difendere i loro interessi, impedire l'avanzata delle classi lavora­trici e il rinnovamento della nostra vita economica. La domanda quindi non ci interessa. Siete voi, signori della borghesia e agenti della borghesia, che dovete spiegarvi chiaro. Non sono stati né i socialisti né i comunisti che nel 1921 e '22 hanno organizzato la guerra civile, la marcia su Roma e l'avvento della tirannide fascista. E' stato il ceto borghese privilegiato, appoggiato dai circoli dirigenti del­la Chiesa, dalla monarchia, dai gruppi dirigenti dell'esercito e così via. E' da quella parte che dobbiamo guardare; è là che sta il pericolo; è di là che viene la minac­cia. È vero che un primo tentativo di offensiva terroristica fascista siamo riusciti non dico a stroncarlo, ma per lo meno a contenerlo; la classe operaia e la sua avan­guardia hanno compreso a tempo il pericolo e hanno saputo far fronte ad esso con mezzi adeguati. Non riteniamo però che il pericolo sia sventato; prima di tutto perché già questa volta abbiamo visto che se non ci fosse stata la iniziativa del popolo i fascisti avrebbero avuto la strada libera, perché il governo democri­stiano già era con loro, e poi perché sappiamo benissimo quali siano i piani dei gruppi dirigenti conservatori e reazionari. Questi gruppi non pensano affatto a uno sviluppo delle forze democratiche entro l'ambito della Costituzione. Essi pen­sano prima di tutto a dividere le forze popolari, e a isolare le forze più avanzate della democrazia. Essi tendono poi al peggioramento continuo della nostra situa­zione economica, allo scopo di generare disordine e confusione, e in mezzo al disordine e alla confusione creare condizioni favorevoli a nuove avventure reazio­narie di tipo fascista. Tutti sanno, ormai, che questi sono i piani che vengono esposti dai dirigenti reazionari della grande industria e della grande proprietà fon­diaria, quando si intrattengono di prospettive politiche coi dirigenti dei partiti borghesi a cominciate da quello democratico cristiano. Né bisogna credere che costoro non siano capaci di tener conto delle esperienze. Essi sanno benissimo che organizzare un movimento fascista, nelle forme esatte in cui venne organiz­zato nel '21 e '22 è cosa quasi impossibile oggi in Italia. Si pensa perciò ad altre forme; si elaborano piani diversi; si prepara la utilizzazione combinata dell'ap­parato poliziesco e militare dello stato e di gruppi armati terroristici che per ora vengono tenuti in riserva; si ha l'intenzione di ricorrere largamente al metodo della provocazione politica e poliziesca, allo scopo di esasperare la situazione e spingerla verso una uscita catastrofica. Anche per la preparazione ideologica e po­litica di una nuova offensiva reazionaria di tipo fascista, i gruppi di neofascisti e di vecchi e autentici fascisti che continuano a sussistere numerosissimi nell'om­bra, estendendo i loro tentacoli particolarmente nella polizia e nell'esercito, non sono forse oggi il pericolo principale. Il pericolo principale sta essenzialmente nel fatto che l'attuale gruppo dirigente della Democrazia cristiana si sta sempre più staccando dai principi e dalla pratica democratica e assume la parte di ispiratore e realizzatore di una politica la quale è, nella sua impostazione e nei suoi svilup­pi, una politica di tendenze totalitarie, che porta alla distruzione delle basi stesse della Repubblica e della democrazia.

   Il pericolo è particolarmente grave perché questo orientamento democristiano trae la sua ispirazione, attraverso l'Azione cattolica e direttamente, dal Vaticano, il quale, con la sua parola d'ordine «con Cristo o contro Cristo» ha iniziato una politica nettamente antidemocratica e totalitaria. Il pericolo esiste ed è grave; è grave anche perché vi è in Italia una forza politica la quale, soprattutto negli ulti­mi tempi, ha preso una posizione che non può non essere definita una posizione totalitaria in germe. Parlo del Vaticano e della politica che viene seguita da un po' di tempo dai gruppi dirigenti della organizzazione cattolica. La parola d'or­dine che essi hanno lanciato è la seguente: «con Cristo o contro Cristo».

   Non avrei nessuna voglia di discutere questa parola d'ordine se essa fosse lan­ciata esclusivamente sul terreno religioso a scopo di propaganda religiosa: essa viene lanciata, invece, sul terreno politico. Con la parola d'ordine «con Cristo o contro Cristo», il Vaticano si schiera infatti nella lotta politica italiana, pren­dendo posizione nella controversia dei partiti e nelle contese economiche. Uno dei partiti in lotta, quello della Democrazia cristiana, viene dichiarato «con Cri­sto», tutti gli altri e specialmente quelli della sinistra, sono «contro Cristo». In questa distinzione, naturalmente, non vi è nulla che rassomigli alla dottrina cristiana e quando a questo si mescola il fanatismo di un clero in molti casi tutt'altro che politicamente educato, e in parecchi casi tutt'altro che liberatosi dalle consuetudini e tradizioni fasciste, si comprende facilmente dove si arriva. Tutti quelli che sono contro Cristo devono essere banditi dalla società e soltanto chi è con Cristo, e cioè in termini politici, chi è con la Democrazia cristiana, e vota per essa, ha diritto di esistenza legale. Anche all'infuori, del resto, di ogni inter­pretazione fanatica, il motto «con Cristo o contro Cristo» è il motto di un totali­tarismo clericale. Il lancio di questa parola d'ordine è poi stato accompagnato da appelli teatrali a una lotta suprema, in termini tali che fanno che, come nella Spagna del 1936, così oggi in Italia i posti dove veramente si stanno accumulan­do le armi ed esaltando gli spiriti per la guerra civile, siano i conventi dei frati e i collegi dei gesuiti.

   Sono disposto ad ammettere che questa posizione politica sia in prevalenza difensiva, e questo ci spiega molte cose. L'attenta lettura della recente Enciclica sulla liturgia [3] induce a credere che questo sia veramente il significato dell'attuale politica delle sfere dirigenti della Chiesa cattolica. Il fatto che un'autorità così alta come quella del Pontefice, discutendo di un tema così importante per il cre­dente, sia obbligata a denunciare il germe di così profondi dissensi e alla fine persino a denunciare con allarme che le chiese vengono chiuse al culto, dimostra una situazione di crisi molto grave, o per lo meno ci dice che nell'ambito della Chiesa cattolica una profonda crisi è in maturazione. Come questa crisi si mani­festerà in modo aperto non lo sappiamo. Forse avverrà in modo diverso da tutto quello che possiamo prevedere. La rivolta della classe borghese e del contadina­me tedesco all'inizio del '500 contro la oppressione feudale assunse, in modo del tutto impensato, la forma di una ribellione ideologica a determinate posizioni dogmatiche dalla Chiesa. I dibattiti teologici nascondevano, in realtà, una crisi sociale che investiva tutto un ordinamento economico e politico. La crisi sociale che oggi il mondo attraversa è altrettanto e forse più profonda di quella d'allora, e nella misura in cui le alte gerarchie ecclesiastiche hanno in questa crisi una posi­zione reazionaria e in cui questa crisi stessa interessa e travolge masse di donne e di uomini che hanno una coscienza e una vita religiosa, non possiamo escludere che in un certo momento la rivolta politica e sociale di queste masse si traduca, sul terreno religioso, in una serie di nuovi dibattiti e lotte attorno a problemi di natura teologica, lontanissimi dal piano in cui noi immediatamente ci muo­viamo. Ad ogni modo, questo non è tema delle nostre odierne discussioni. Che le alte gerarchie cattoliche siano in una posizione difensiva, e seriamente preoc­cupate di ciò che sta accadendo, lo dimostrano i commenti che sulla situazione religiosa d'Italia vengono fatti da uomini e organi autorizzati, dove si dice che alcune regioni italiane sarebbero diventate niente meno che zone «da missio­ne». Se però la chiesa cattolica si trova in questa situazione, la colpa è senza dub­bio del suo attuale gruppo dirigente, che ha legato in modo diretto la sua politi­ca e quindi sta legando anche le sue sorti a quelle dell'attuale regime capitalistico.

   A noi interessa che questi fatti inducano almeno una parte dei cattolici sinceri a riflettere profondamente ai problemi che stanno oggi davanti a tutta l'umani­tà. La crisi che oggi il mondo attraversa e che è la sostanza di tutti i rivolgimenti che si sono prodotti, si producono o maturano nei singoli paesi, trae la propria origine da un solo fatto fondamentale, dal fatto che il regime capitalistico ha ter­minato il suo ciclo storico, è condannato dalla realtà delle cose e dalla coscienza degli uomini e deve sparire per lasciare il posto a una organizzazione democratica e socialista della società. In tutto il mondo matura e in una grande parte di esso è già in atto una profonda rivoluzione, dalla quale deve uscire una nuova società, organizzata sulla base della solidarietà del lavoro. Da ogni parte affiora questo problema, questa necessità, improrogabile per il progresso umano. Il capitalismo è un cadavere che ammorba l'atmosfera del mondo intiero.

   Il capitalismo deve sparire perché l'umanità, padrona dei propri destini, possa organizzare la propria esistenza su fondamenta nuova, più elevate di quelle che sono esistite fino ad ora. Ebbene, qual è la posizione del lavoratore cattolico in questa storica crisi, da cui dipendono le sorti della nostra civiltà? E qual è d'altra parte la posizione delle alte gerarchie della Chiesa? Le due posizioni non coinci­dono. Il lavoratore cattolico, in buona fede, sinceramente preoccupato non solo del suo interesse, ma animato da profonde aspirazioni di rinnovamento e di giu­stizia, sente come noi che bisogna creare una organizzazione economica e una società nuova, altrimenti ricadremo nel baratro di nuove crisi spaventose e di una nuova guerra. Le alte gerarchie della Chiesa, invece, non sono più in grado di sentire allo stesso modo, perché si sono legate in modo sempre più stretto alla organizzazione della società capitalistica e ai gruppi dirigenti di essa. Esse hanno legato la loro attività immediata persino alle forme della proprietà e dello sfrut­tamento capitalistico; sono diventate in un certo modo parte integrante o appen­dice del grande capitalismo monopolistico. La cosa è particolarmente evidente nelle forme di organizzazione e di vita della Chiesa, per esempio, negli Stati Uniti, ma diventa sempre più vera anche per il nostro paese, dove ogni giorno si è infor­mati che i circoli dirigenti della Chiesa, che il Vaticano cioè, in altre parole, è grosso acquirente di azioni di questa o di quella società industriale. Attraverso questo processo, sempre più profonda diventa la contraddizione tra la coscienza delle masse e la posizione dell'alta gerarchia ecclesiastica. Comprendo benissimo che non è più possibile, data questa penetrazione del Vaticano nelle strutture e negli ingranaggi della società capitalistica, una posizione indipendente della Chiesa cattolica da quella dei gruppi dirigenti del grande capitale. Il Vaticano non può non parteggiate proprio per quella parte contro cui insorge la coscienza del popolo lavoratore e di tutti gli uomini liberi e onesti. E' vero che la Chiesa cattolica ha un grande passato dietro a sé, e ha attraversato molte crisi. Essa le ha però traversate trasformandosi, per cui dopo la vittoria delle rivoluzioni borghe­si, ad esempio, non è più quella di prima, e così via. All'inizio dei maggiori ri­volgimenti sociali però essa si è spesso trovata dalla parte che doveva perdere, cioè dalla parte delle forze conservatrici e reazionarie, e ciò per un processo analogo a quello che oggi la lega al capitalismo morente e la spinge alla lotta contro i portatori di una nuova civiltà e i creatori di una società nuova.

   Questa posizione attuale delle alte gerarchie cattoliche è resa evidente da epi­sodi molto sintomatici della loro attività. Citiamo fra tutti quello del cardinale Marmaggi, grande amministratore del Vaticano, il quale, in un documento uffi­ciale pubblicato due anni or sono, minacciava niente meno che di scomunica quei contadini i quali approfittavano della svalutazione della moneta per riscattare i canoni feudali gravanti sulla terra da loro coltivata, nel caso che questa terra ap­partenesse a conventi o altre organizzazioni ecclesiastiche. La scomunica è stata nel passato mezzo di coercizione spirituale impiegato per mantenere l'unità ideale della Chiesa; in questo caso essa viene minacciata per impedire col terrore spiri­tuale un fatto da tutti salutato come progressivo, salutare per lo sviluppo della nostra agricoltura: il fatto che la svalutazione della lira sia almeno servita a un inizio sia pur timido di riforma agraria. La scomunica contro la riforma agraria: la cosa è molto significativa del legame che esiste tra le sfere dirigenti ecclesiasti­che e quelle forze capitalistiche retrive le quali non comprendono e non vogliono il progresso economico e sociale, ma anzi in tutti i modi cercano di opporvisi.

   Questa posizione delle alte gerarchie cattoliche rende molto più difficile il pro­gresso della democrazia e il progresso sociale in un paese dove la Chiesa cattolica conserva un prestigio e larghe basi di massa. In ogni modo, di fronte al totalitari­smo non mascherato di queste gerarchie, alle loro parole d'ordine di lotta esaspe­rata contro le forze progressive, e di fronte al legame sempre più stretto tra il Vaticano e i gruppi dirigenti dell'imperialismo americano, noi non riteniamo opportuno modificare l'atteggiamento del nostro partito per quello che si riferisce ai problemi religiosi. Sin dall'inizio abbiamo detto che non vogliamo venga tur­bata la pace religiosa del paese. Per questo abbiamo votato per il famoso articolo 7 (oggi 9) della Costituzione, e ancora l'altro giorno ripetevo in Parlamento che avremmo ancora votato in quel modo anche se non fossimo stati, come allora eravamo, nel governo. Dall'altro lato però chiediamo ai cattolici di rendersi con­to che è oggi compito di tutti gli uomini di buona volontà render possibile, crea­re e mantenere una grande unità di forze democratiche e di masse lavoratrici, allo scopo di avviare il nostro paese verso la liberazione dalla servitù e dall'anar­chia capitalistica, verso un vero rinnovamento della nostra vita economica e so­ciale. Per questa strada noi guideremo le masse di lavoratori cattolici che sono nel nostro partito e nel partito socialista, quelle che votano per noi, e altre masse ancora, che oggi seguono altri partiti, che hanno interessi e aspirazioni analoghi ai nostri. Se denunciamo con grande chiarezza la politica delle alte gerarchie del­la Chiesa come una politica capitalistica e reazionaria è perché la consideriamo esiziale al nostro progresso economico e sociale, e perché siamo certi che le masse lavoratrici cattoliche finiranno per comprenderci. Non solo io ne sono convinto, ma ho altresì la convinzione che incominci ad aumentare tra gli uomini di fede la certezza che la liberazione della Chiesa cattolica dalla schiavitù agli interessi della grande proprietà fondiaria e del grande capitalismo sia nell'interesse stesso della religione.

   Ai problemi che testé ho trattato si collega direttamente la più grave questione della nostra politica interna, quella delle posizioni del partito della Democrazia cristiana. In due anni questo partito ha fatto un lungo cammino. Esso è partito, alla vigilia della lotta elettorale del 2 giugno, da dichiarazioni programmatiche le quali avevano molti punti di contatto con le dichiarazioni che venivano fatte dal nostro partito e dal partito socialista. Nel programma approvato allora dal Congresso del partito della Democrazia cristiana si rivendicavano trasformazioni sociali analoghe a quelle che rivendicavamo noi. Si parlava della necessità di dare lavoro a tutti, di sottrarre i grandi complessi industriali al controllo dei gruppi monopolistici, finanziari e capitalistici, ponendoli sotto il controllo delle orga­nizzazioni dei lavoratori e dei consumatori, di far difendere da una efficace azio­ne sindacale i diritti dei lavoratori, di far partecipare i rappresentanti delle cate­gorie dei lavoratori ai consigli di gestione per il controllo dei piani di produzio­ne, di dare istruzione gratuita ai figli dei lavoratori, e così via. La Democrazia cristiana si impegnava a proporre e a difendere una vasta riforma agraria che spez­zasse il latifondo e limitasse la grande proprietà, che bonificasse le terre incolte e le affidasse in proprietà ai coltivatori, che rivedesse e modificasse i contratti agrari. Questo fu il punto di partenza di questo partito. Tenuto presente questo punto di partenza, era inevitabile che considerassimo possibile e persino necessaria una collaborazione al governo con questo partito. Non appena però la collaborazione fu iniziata, ci accorgemmo che il programma non aveva nessun valore, perché non esisteva nei dirigenti democristiani e specialmente in De Gasperi la volontà di far seguire alle loro parole un'azione conseguente per la realizzazione del va­sto piano di rinnovamento economico e sociale da essi annunciato. Quando noi ci sforzavamo di rendere concreti nel senso di quel piano i programmi del gover­no, attraverso un sottile lavoro di lima, di sminuzzamento, di attenuazione, le primitive affermazioni programmatiche venivano fatte scomparire del tutto o quasi. Se qualcosa ne rimaneva, accadeva che quando nel governo cercavamo di ottene­re un minimo di realizzazione, o avviamento alla realizzazione delle riforme an­nunciate, De Gasperi ci rispondeva che non se ne poteva e non ne doveva fare nulla perché l'«altra parte» non voleva. L'altra parre era proprio il ceto privile­giato contro cui doveva essere condotta l'azione rinnovatrice che il partito demo­cristiano aveva promesso agli elettori per ottenere il voto. Si arrivò in questo mo­do a estremi di contraddizione e di scandalo, come quello del lodo De Gasperi, promesso prima delle elezioni, che avrebbe dovuto essere trasformato in legge immediatamente dopo il 2 giugno, che venne trasformato in legge con un enor­me ritardo e soltanto attraverso una pressione esercitata con tutti i mezzi possibili dalle masse contadine e che ancora oggi, pur essendo trasformato in legge, non viene applicato, perché l'agrario il quale non lo vuole applicare ha la protezione dei Prefetti e della polizia, mentre il mezzadro che ne chiede la applicazione è perseguitato come un sovversivo. Dopo queste spiegazioni comprenderete age­volmente che coloro i quali ci accusano di aver fatto un «doppio giuoco» criti­cando un governo di cui facevamo parte, dicono il contrario della verità. Erava­mo noi, era tutto il popolo italiano la vittima di uno scandaloso doppio giuoco. A un certo punto vi è stato il viaggio di De Gasperi in America, forse per prende­re ordini. Dal viaggio di De Gasperi in America uscirono le crisi di cui già mi sono occupato e, con la esclusione dal governo dei partiti di sinistra, si iniziava un'azione conseguente per la scissione delle forze della democrazia e del paese. Essa è andata accentuandosi ed è culminata nel Congresso di Napoli della Demo­crazia cristiana, dal quale non sono nemmeno più uscite le dichiarazioni program­matiche demagogiche di due anni fa, mentre due sono state le parole dominanti: la richiesta al partito socialista, ai repubblicani e saragattiani, se volevano entrare nel governo, di rompere ogni legame col partito comunista, e l'invocazione al governo di mettere il nostro partito fuori della legge.

   Come, fuori della legge, il partito comunista, quel partito il quale ha dato il più grande contributo non di parole, ma di sacrifici e di sangue, perché una leg­ge democratica venisse restaurata? Questo significa puramente e semplicemente voler sopprimere ogni legge democratica, e ritornare in forme forse leggermente diverse, a quel piano di governo tirannico dei ceti capitalistici reazionari di cui questi affidarono l'applicazione, nel 1922, al fascismo.

   La Democrazia cristiana, nel corso di poco più di due anni, e certamente sotto l'influenza non già delle masse lavoratrici cattoliche, ma delle alte gerarchie del­la Chiesa, ha dunque perfezionato la sua figura di partito dirigente del ceto con­servatore e reazionario italiano. La politica di scissione delle forze popolari, di discordia, di disgregazione sociale e di avventure reazionarie, e di servitù allo stra­niero, che è propria di questo ceto, è ormai la sua politica, e si esprime in tutte le forme di attività della Democrazia cristiana, dalle più notevoli sino a quelle secondarie e meno significative. Il fatto, per esempio, che nei settimanali demo­cristiani non si trovi immagine di comunista che non sia rappresentato come un bandito, un rapinatore, un assassino; il fatto che tre dei più schifosi giornali che escono nella capitale, nei quali il turpiloquio, la calunnia, la diffamazione, scen­dono a forme abominevoli, siano pagati dal sottosegretario democristiano alla pre­sidenza del Consiglio [4] è molto significativo. In uno degli ultimi numeri di uno di questi giornali, accanto al turpiloquio e alle insolenze più volgari contro i buoni democratici, si mettevano in risalto, inquadrate, le citazioni dei discorsi del Pa­pa. Quale vergogna per un cattolico onesto! L'alleanza con i fascisti del «Movi­mento sociale», alla quale i democristiani sono arrivati a Roma, dopo una lotta elettorale condotta con tutti i mezzi della calunnia e della provocazione, è stata il suggello della evoluzione reazionaria che questo partito ha compiuto per l'a­zione del suo gruppo dirigente attuale. Ho parlato con chiarezza e con asprezza di questa evoluzione sapendo che molti tra i lavoratori iscritti al partito della de­mocrazia cristiana sono contrari ad essa, la vedono con sgomento, la respingono. Abbiamo dovuto però costatare con meraviglia che negli ultimi tempi questa massa non è riuscita a trovare tra i dirigenti della Democrazia cristiana una qualsiasi espressione politica. Gli esponenti delle cosiddette correnti di sinistra della De­mocrazia cristiana, se si fa eccezione, forse, per l'on. La Pira, danno tutti più o meno l'impressione che il loro cosiddetto «sinistrismo» altro non sia che una forma più raffinata di gesuitismo e di ipocrisia. Essi non hanno ancora capito che la pietra di paragone per loro come per qualsiasi altra corrente che si pretenda democratica e voglia contribuire allo sviluppo della democrazia, è il problema dei rapporti col nostro partito, come partito più avanzato e combattivo della clas­se operaia, dei contadini e degli intellettuali democratici. Sino a che direte che siete di «sinistra» ma continuerete, sotto la guida di De Gasperi, a seminare di­scordia, lanciare anatemi e invocare scissioni per isolare il nostro partito, e tentare ancora una volta di schiacciarci con la polizia o con le squadre terroristiche del «Movimento sociale», sino a che non capirete che il dovere di ogni democratico è di denunciare una politica simile come esiziale per la democrazia, noi non pos­siamo prestarvi fede né debbono prestarvi fede i lavoratori cattolici. E' dai vostri fatti e non da generiche declamazioni e proclamazioni di buone intenzioni che noi vi giudichiamo.

   Un fatto molto grave è che, in conseguenza della posizione antidemocratica delle alte gerarchie ecclesiastiche e dell'evoluzione rivoluzionaria della Democra­zia cristiana, si disegna una minaccia seria contro l'unità e l'efficienza del movi­mento sindacale. L'unità dei sindacati, con tutte le debolezze che essa può aver avuto ed avere, ha dimostrato però di essere arma di importanza decisiva per la classe operaia e per i lavoratori. In sostanza, la esistenza di un sindacato unico al quale aderiscono i lavoratori di tutte le categorie, di tutte le tendenze politi­che, di tutte le fedi, accresce in misura incalcolabile le possibilità di vittoria della classe operaia, e dei lavoratori nella lotta per i loro interessi e i loro ideali. Questo è il vero motivo per cui in questo secondo dopoguerra abbiamo avuto sì degli scioperi ma meno che nel primo dopoguerra, scioperi brevi, in cui la classe pa­dronale è stata costretta dopo qualche giorno di lotta a cedere di fronte alla com­pattezza delle masse lavoratrici. Vi è stata senza dubbio negli odierni dirigenti sindacali una capacità di direzione superiore a quella dei vecchi riformisti, trop­po legati ai padroni per poter guidare con decisione la battaglia degli operai, ma vi è stata essenzialmente l'unità sindacale, che ha permesso ai lavoratori di ripor­tare molte e insperate vittorie. La unità sindacale è dunque qualche cosa di pre­zioso per i lavoratori italiani e per tutti i democratici. L'osservazione che faccia­mo noi la fanno però anche gli altri, ed è per questo che le forze antidemocrati­che rappresentanti del ceto privilegiato, i grandi industriali della Confindustria e gli agrari della Confida vorrebbero spezzare la unità dei sindacati. E' da quella parte che viene l'ordine a cui obbediscono, forse per il tramite delle gerarchie ecclesiastiche, alcuni tra i dirigenti della Democrazia cristiana. Nessuno crede sul serio ai pretesti che vengono tirati fuori per giustificare le insidie e le minacce all'unità. Alla storia della politica che non dovrebbe entrare nei sindacati, nessu­no ci crede. E perché non dovrebbe entrare la politica nei sindacati? Forse che non si occupano di politica le organizzazioni padronali degli industriali e degli agrari? Forse che tutti non sanno che il segretario della Confederazione degli in­dustriali, sottopone ogni industriale italiano a una taglia di decine e anche centi­naia di milioni, proprio come facevano i fascisti per un fondo col quale vengono finanziati i partiti e i giornali reazionari, e in prima linea, naturalmente, la stessa Democrazia cristiana? Gli organizzatori sindacali democristiani si trovano quindi nella curiosa situazione di dover essere fedeli, da un lato alla disciplina dell'or­ganizzazione dei lavoratoti e, dall'altro lato, a quella di un partito finanziato dai grandi capitalisti, nemici dell'organizzazione dei lavoratori. Questo si chia­ma, secondo il Vangelo, voler servire assieme Dio e Mammona Ad ogni modo, in questa situazione è assurdo pretendere che i sindacati non si occupino delle fondamentali questioni politiche del paese. Credo poi che a questo proposito non sarebbe male che i membri dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne si presentassero agli industriali, chiedessero loro quali sono le somme che hanno versato alla Confindustria per alimentare le campagne reazionarie, ed esigessero che uguali somme vengano versate ai partiti che conducono la loro lotta nell'in­teresse dei lavoratori.

   E' assurdo affermare che comunisti e socialisti imporrebbero determinate agita­zioni di carattere sindacale e politico alle masse operaie le quali non vorrebbero saperne. Citate i fatti. I fatti sono che i grandi scioperi, da quello dei braccianti a quello di Roma, hanno avuto l'adesione generale ed entusiastica di tutti i lavo­ratori di tutte le parti. Allo sciopero dei braccianti, condannato assieme, al suo inizio, dalla Democrazia cristiana e dal Dipartimento di Stato americano, hanno partecipato accanto ai braccianti socialisti e comunisti, i braccianti cattolici e gli organizzatori cattolici, e lo sciopero è finito con una grande vittoria. A Roma po­che decine sono stati i lavoratori che non hanno partecipato alla sciopero genera­le. Ma è proprio questa unità che il ceto reazionario vorrebbe venisse spezzata.

   L'unità del sindacato deve essere difesa da noi come la pupilla dei nostri occhi perché sappiamo che cosa vale, come strumento per la difesa delle rivendicazioni immediate dei lavoratori e per la causa più ampia della democrazia italiana. De­sidero però dire ai compagni militanti e dirigenti dei sindacati che non si può disgiungere la causa dell'unità dei sindacati dalla causa della disciplina sindaca­le. Non è concepibile che un sindacato unitario sia organizzato in modo tale per cui una parte dei suoi dirigenti possa non obbedire alle decisioni prese dagli or­ganismi regolarmente costituiti, e obbedire invece agli ordini che vengono dalla centrale avversa, dai padroni. L'adesione al sindacato implica l'accettazione vo­lontaria di una disciplina.

   Abbiamo quindi seguito con grande interesse i dibattiti che hanno avuto luo­go di recente nel Comitato direttivo della Confederazione centrale del lavoro. Siamo lieti che si sia arrivati ad un accordo, anche se quest'accordo ha ancora carattere transitorio e provvisorio. Studiando con attenzione il contenuto di que­sto accordo e soprattutto riflettendo al fatto che uno dei punti di esso consente a una parte degli organizzati nei sindacati non solo di non partecipare a determinate manifestazioni, ma anche di rimanere assenti da lotte collettivamente deci­se, come lo sciopero, ci siamo però chiesti se i nostri compagni in questo caso non abbiano pagato troppo caro per mantenere l'unità! Lascio questo tema alla riflessione del congresso e alle sue commissioni.

   La nostra linea politica è una linea conseguente di difesa dell'unità dei sinda­cati, e poiché una minaccia all'unità dei sindacati si disegna in modo sempre più chiaro dalla parte democristiana, è necessario che conduciamo nei sindacati e tra le masse una azione energica per opporci ad essa. Bisogna denunciare i secessio­nisti e isolarli nelle organizzazioni e tra le masse. Non vi è dubbio che questa posizione dovrà avere le sue logiche ripercussioni nel campo tattico perché, se vorremo difendere con efficacia l'unità sindacale, dovremo esaminare con animo diverso le nostre relazioni coi socialisti nei sindacati. E' assurdo che nel momento in cui il problema ardente, vitale, è quello della difesa dell'unità sindacale, ope­rai comunisti e socialisti dividano le loro forze allo scopo di «contarsi», mentre si tratta di unire le forze di tutti i lavoratori di tutte le tendenze e di tutte le fedi per difendere l'unità.

   La rapida e sorprendente conversione della Democrazia cristiana verso la con­servazione sociale e verso la reazione ha in parte semplificato i termini della lotta politica, in parte ha provocato una crisi molto significativa dei partiti che prima si collocavano alla sua destra. Questi partiti tendono a perdere tanto le loro basi oggettive quanto la loro ragion d'essere e ogni possibilità di sviluppo, perché è la Democrazia cristiana che si è assunta la loro parte, arrivando fino all'accordo coi gruppi fascisti dichiarati. Per abbattere la concorrenza con i democristiani i liberali sono andati al loto ultimo congresso a rispolverare fra le loro molteplici «tradizioni» ciò che avrebbero dovuto tenere più nascosto, e cioè la loro allean­za coi fascisti dal 1921 al 1925; si sono vantati di aver favorito la marcia su Roma, la vittoria del fascismo, la distruzione delle istituzioni democratiche. Con tutto questo però non sono riusciti a dare al loro partito qualche possibilità di successo, anzi, hanno fatto un nuovo passo verso la confusione e lo sfacelo. I pochi che hanno conservato fede a principi di libertà, se ne vanno da questo partito e ven­gono in cerca di nuove formazioni politiche, ma non ancora definibili.

   Sorte analoga è toccata al cosiddetto movimento dell'«Uomo Qualunque». Qui però il tono del discorso dovrebbe cambiare. Se per i liberali si può ancora parlare d'un dramma, qui si rimane entro i limiti della commedia e della farsa. Guglielmo Giannini, presentatosi sulla scena politica sostenendo una parte che per molti aspetti lo avvicinava alla tradizionale maschera di Pulcinella, ha finito col subire le sorti di Pulcinella che, alla fine della farsa, come tutti sapete, si prende le bastonate tanto da una parte, quanto dall'altra! Il movimento dell'«Uomo Qualunque» era ben visto e favorito dai ceti reazionari quando attraverso quel particolare mascheramento datogli dalla personalità del suo «fondatore» serviva a coprire in modo nuovo la preparazione di nuove imprese reazionarie e a creare un centro di raccoglimento di fascisti vecchi e nuovi, ma quando questo uomo si è messo in testa di diventare una persona decente e di fare una politica per conto suo, e quando poi ha incominciato a discutere con noi con un certo tono oggettivo, ammettendo persino la necessità di liberarsi dai fascisti che erano nelle sue file, allora si preferisce buttarlo via come uno straccio. In tutto questo c'è una logica. Via i commedianti e i ragazzini dall'arena dove si scontrano i lottato­ri! I ceti reazionari hanno ormai trovato il loro centro principale di organizzazione nella Democrazia cristiana, nell'Azione cattolica, nelle alte gerarchia della Chiesa, e sotto la protezione dell'imperialismo americano. Così è sorto il partito della reazione e della conservazione sociale, il «partito americano», contro il quale dobbiamo dirigere prima di tutto il fuoco della nostra polemica e della nostra azione.

   Una forza intermedia tra la democrazia e la reazione, tra il progresso e la con­servazione sociale, non la vedo. I due partiti repubblicano e saragattiano, che si vantano di essere questa «terza forza», si sono semplicemente messi al rimor­chio e al servizio della Democrazia cristiana. Diversa è però la situazione di cia­scuno di loro. Nel partito repubblicano vi è senza dubbio ancora una massa di popolani, aderenti alle vecchie sezioni mazziniane, i quali conservano un senso di fierezza nazionale e l'attaccamento alla causa della democrazia e della giusti­zia sociale. Ma quando il capo attuale di questo partito [5] entra in un governo dichiarando egli stesso che questo governo viene costituito per ordine dell'imperia­lismo americano il quale impone che siano esclusi dal potere i comunisti e i socia­listi, abbiamo il diritto di dire che egli tradisce il proprio partito, tradisce quello che vi è ancora di buono e di sano nelle tradizioni del repubblicanesimo italiano. Nel partito saragattiano truppe ve ne sono assai poche, ma vi sono molti capi, alcuni dei quali sono contro di noi, più che altro, credo, per una sopravvivenza in loro del risentimento per le lotte del '19 del '20 del '21 quando siamo usciti dal partito socialista dando vita al nostro partito. Ma non è qui il pericolo princi­pale, perché si tratta spesso di vecchi uomini nei quali alle volte vi è un fondo di onestà, e che sono coerenti, in sostanza, con la loro vecchia politica di riformi­sti, e con la loro incapacità di comprendere la sostanza dei problemi sociali e le necessità della lotta politica del nostro paese. Il pericolo più grave è nei tipi alla Saragat, traditori qualificati, che hanno sollecitato il sacco dei dollari per trovare la loro strada politica e sono agenti diretti dello straniero, i quali cercano in mo­do più raffinato di scindete le forze della democrazia, nell'interesse della reazione.

   In lotta contro tutti costoro, abbiamo il dovere di salvare la democrazia italia­na facendo appello alle masse popolati e organizzandole in un fronte il quale sorga dalla coscienza sempre più precisa delle esigenze della lotta democratica e delle necessità vitali dei lavoratori. Ho già accennato delle iniziative oramai in pieno sviluppo: Consigli di gestione e loro congresso, raccolta delle forze demo­cratiche del Mezzogiorno, Costituente della terra, movimento dei Comuni demo­cratici, e nuova organizzazione unitaria democratica che sorge col nome di Fron­te democratico popolare, richiamandosi alle tradizioni dei CLN ma differenzian­dosi dai CLN perché questa volta il punto di partenza è l'impegno preciso di ri­solvere alcuni fondamentali problemi della struttura della economia e della so­cietà italiana. Il partito socialista e altre forze democratiche, soprattutto nel Mez­zogiorno, hanno partecipato con noi alla organizzazione di questo movimento grandioso. Forze sociali anche non appartenenti alla classe operaia aderiscono in un modo o nell'altro a questo grande movimento. Non si tratta quindi né dell'a­zione di una sola classe, né di una creazione artificiosa nostra o del partito sociali­sta o dei due partiti messi assieme. Noi, come avanguardia che ha il dovere di guidare i grandi movimenti di massa ma da sola non li può creare, ci siamo inse­riti in una iniziativa sorta spontanea dalle masse lavoratrici del Nord, particolarmente quando esse, nel corso di una dura esperienza sono state portate dai fatti stessi a urtare contro la necessità di risolvere i problemi della struttura economica del nostro paese, e hanno sentito di doversi organizzare in modo nuovo per arrivarci.

   Cadono quindi le critiche malevole che vengono fatte a questo nuovo grande movimento che si sta organizzando in tutta l'Italia.

   Ci si dice che l'organizzazione di questo movimento sarebbe una violazione del metodo democratico. Ma chi ha detto che il metodo democratico consista sol­tanto e sempre nelle lotte elettorali e negli intrighi che si possono fare nei corri­doi di Montecitorio? La Costituzione dice chiaramente, all'art. 18, che i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente, senza alcuna autorizzazione, per fini che non incorrono nelle sanzioni del codice penale. Il lavoratore, se pensa che è nell'interesse della sua industria e del suo paese esercitare un controllo sopra la produzione, ha quindi il diritto di organizzarsi per far trionfare questo princi­pio e per applicarlo. Diritto di organizzarsi hanno i contadini e la piccola bor­ghesia meridionale, quando sentono che il problema del Mezzogiorno non verrà mai risolto se non si suscita l'iniziativa politica delle stesse popolazioni meridio­nali e la loro alleanza organizzata con i lavoratori settentrionali. E così i contadini hanno diritto di organizzarsi per preparare e imporre la soluzione dei problemi della riforma agraria, in conformità coi loro interessi e cogli interessi di tutta la nazione. Coloro poi i quali ci accusano di non applicare un metodo democratico, di voler uscire dalla legalità e di far ricorso alla violenza, si ricordino che vi è die­tro a noi una esperienza della quale non ci siamo dimenticati. Non ci lasceremo sorprendere un'altra volta dal fascismo; lo sapremo prevenire e schiacciare nel­l'uovo. Siamo anche capaci di comprendere quali sono le modificazioni del me­todo fascista che il ceto reazionario italiano sta studiando per riuscire a sorpren­dere le forze della democrazia, a provocarle, a gettarle in una situazione senza via d'uscita, nella speranza di poterle battere. I conti delle forze reazionarie sono però dei conti sbagliati. La situazione italiana odierna non è quella di allora. Og­gi le forze attive, che hanno partecipato alla liberazione del paese, che si sono conquistate un merito nazionale combattendo tanto nelle file dell'esercito, quanto nelle file del movimento partigiano, sono forze democratiche e sociali avanzate, che nella loro maggioranza si schierano col nostro partito e con quello socialista. A nessun costo queste forze e questi partiti permetteranno che un'altra volta il nostro paese venga tratto nell'abisso. Noi non minacciamo, abbiamo aperta da­vanti a noi e al paese una grande strada democratica, ma coloro i quali possono pensare o vaneggiare di sbarrarci questa strada facendo ricorso all'arma della pro­vocazione, del terrorismo, della discordia e della confusione seminate ad arte, dei conflitti provocati fra il popolo e le forze dell'esercito o della polizia, si ricor­dino costoro che noi abbiamo presente questo pericolo. Seguiamo una linea di azione democratica, ma non ci lasceremo sorprendere da nessuna provocazione, da nessun piano reazionario. Abbiamo dietro di noi l'esperienza della guerra par­tigiana. Questa esperienza hanno decine di migliaia di giovani e di adulti, i quali hanno imparato a servirsi delle armi per difendere la libertà e l'indipendenza della patria e i quali, se si creasse una situazione in cui, come molte volte nel corso dei rivolgimenti democratici, la libertà dovesse essere difesa e riconquistata an­che con le armi, saprebbero fare ancora una volta tutto il loro dovere verso la democrazia e verso la loro patria.

   Ci si dice che il metodo che noi seguiamo nella creazione di un nuovo largo fronte democratico è metodo esclusivamente proletario, perché noi interesserem­mo soltanto gli operai e le forze più avanzate della campagna. Ma questo non è vero. Il Consiglio di gestione nella fabbrica è un centro di organizzazione delle alleanze della classe operaia con gli altri ceti sociali. Nel Consiglio di gestione l'operaio d'avanguardia prende contatto col tecnico, con l'impiegato, con l'in­gegnere, persino col rappresentante della classe padronale, ne saggia gli orienta­menti economici e politici, stabilisce dove è possibile una collaborazione. Il Con­siglio di gestione quindi, lungi dall'essere organizzazione puramente proletaria, è strumento di organizzazione dell'alleanza di tutti i ceti produttivi nella misura in cui essi possono diventare consapevoli della necessità di controllare la produ­zione nell'interesse di tutti. Basta poi avere avuto la notizia di quello ch'è stato il Congresso democratico del Mezzogiorno per sapere che ivi non vi erano soltan­to gli strati più poveri della campagna, ma vi erano i rappresentanti di un ceto medio e di intellettuali, uniti ai contadini da un profondo desiderio di rinnova­mento economico e sociale.

   Ci si dice ancora che il metodo di avanzare la proposta di riforme della struttu­ra economica del paese proprio in questo momento non sarebbe opportuno per­ché ci troviamo in periodo di crisi. Ma è proprio perché ci troviamo ancora in pericolo di distruzione e di disorganizzazione della nostra economia, è proprio perché siamo minacciati da una crisi economica, che abbiamo bisogno di intro­durre quelle riforme di struttura che sole possono permettere di dirigere la rico­struzione della economia nell'interesse di tutta la nazione e di evitare la crisi. Il capitalista singolo, che parte dalla considerazione del proprio esclusivo ed egoistico interesse, quale rimedio trova, di solito, allo stato di crisi e alla minaccia di crisi della propria industria? O licenzia gli operai e così accresce il numero già troppo grande dei disoccupati o contrae la produzione. Ma questi due espedienti, appli­cati conseguentemente e su vasta scala, portano alla rovina del paese; ci portano, in un momento in cui abbiamo ancora da ricostruire case, fabbriche, ponti, stra­de e tutta una parte dell'apparato industriale, ad avere la massa più grande di­soccupata che vi sia in qualsiasi paese dell'Europa; ci portano alla chiusura delle fabbriche in un momento in cui le fabbriche dovrebbero lavorare in pieno per soddisfare anche solo una parte delle esigenze del paese. Questi profondi squili­bri economici e sociali non potranno mai essere evitati se ci si ostina a fondare la ricostruzione soltanto sullo stimolo dell'interesse personale privato. Per evitar­li occorre un controllo il quale, senza escludere l'iniziativa privata, renda però possibile una direzione organizzata della economia nazionale. Il metodo che noi proponiamo è il solo che permetta di risolvere i problemi immediati coordinan­doli alla soluzione di tutto il grave problema della riconversione e riforma del nostro apparato industriale, della riforma agraria, di cui abbiamo bisogno per arricchire lo stesso nostro mercato interno, e per la riorganizzazione del commer­cio estero.

   Si dice infine che il metodo che noi proponiamo minaccerebbe conflitti gravi per l'avvenire. E' vero il contrario. La verità è che conflitti economici e sociali molto gravi sono nella prospettiva del nostro paese, se non seguiamo la strada da noi proposta ch'è la strada dell'unità delle forze democratiche, della collaborazione di diversi gruppi economici e sociali e quindi di uno sviluppo pacifico, che eviti gli urti violenti, le scosse più gravi, i conflitti più acuti. L'esperienza già lo dimo­stra: dal momento che De Gasperi ha voluto costituire il suo governo conservatore e reazionario nell'interesse esclusivo del ceto dirigente capitalista e agrario, da quel momento la vita del paese è entrata in crisi continua, da quel momento so­no incominciati i conflitti, gli scioperi ecc. Il metodo che noi proponiamo è il solo adeguato a un paese che ha bisogno della collaborazione di tutti i suoi citta­dini su una base democratica per riuscire a rinnovare se stesso.

   La grande organizzazione di forze democratiche che noi propugniamo si trove­rà presto di fronte al problema elettorale. Qual è la nostra posizione a questo proposito? La cosa ha bisogno di essete discussa con grande attenzione, ed è le­gittimo che anche nel nostro partito vi siano compagni i quali possano essere di differente opinione circa l'opportunità o meno che nella prossima campagna elet­torale noi, il Partito socialista e le altre forze democratiche che aderiscono al Fronte democratico popolare si presentino con una lista unica oppure con liste separate. Il nostro congresso discuterà questa questione. La mia opinione è che prevalgono gli argomenti a favore della lista unica, per il fondamentale motivo che è molto difficile separare la lotta elettorale dalla lotta generale, che si svolge in tutto il paese e che noi, socialisti e democratici, conduciamo uniti nel Fronte. Inoltre è molto difficile tecnicamente separare le elezioni che dovranno essere fatte per il Senato a collegio uninominale dalle elezioni che saranno fatte per la Camera col sistema della rappresentanza proporzionale. La costituzione del Fronte democra­tico popolare ha creato nel paese una situazione psicologica e politica nuova, che sarebbe errato non sfruttare per il successo elettorale della democrazia. In ogni modo, ripeto, è questa una questione sulla quale discuteremo liberamente come pure liberamente discuteranno i compagni socialisti e gli amici democratici. Si è ormai creata tra gli aderenti al Fronte tale fraternità e comprensione che le di­scussioni che ciascuno affronterà per conto suo non creeranno insuperabili e peri­colosi dissensi.

   Concludendo, la linea politica che riteniamo adeguata all'attuale situazione internazionale italiana è quella che si esprime nella lotta per l'unità delle forze democratiche e lavoratrici, e per la loro organizzazione in un nuovo vasto fronte il quale riesca ad abbracciare la grande massa della popolazione. È evidente per tutti noi che nell'applicazione di questa linea non riusciremo ad avere notevoli successi se il nostro partito, accanto agli altri partiti avanzati della democrazia, non si impegnerà a fondo per raggiungere questo risultato. Dobbiamo quindi ora esaminare con grande attenzione lo stato del nostro partito, le sue doti e le sue debolezze, i passi in avanti che abbiamo fatto dal 1946, le lacune che riman­gono, i difetti nel nostro orientamento e nel nostro lavoro, e indicare che cosa vi è da fare per avere nel nostro partito uno strumento pienamente adeguato ai compiti del momento.

V. I problemi del partito

  Ho già detto che anche noi comunisti abbiamo partecipato alle debolezze generali della democrazia italiana, per cui determinate posizioni non sono state da noi conquistate come forse avrebbero dovuto, e altre, già conquistate, sono state abbandonate senza la necessaria lotta. Nella nostra azione di governo vi sono sta­te senza dubbio debolezze che abbiamo criticato in documenti che sono a dispo­sizione di tutti i delegati. Una debolezza evidente vi è stata quando siamo stati esclusi dal governo; in quel momento non abbiamo saputo giustamente combinare l'azione parlamentare con quella extra-parlamentare, e forse per non avere immediatamente colto tutti gli aspetti e le gravità della crisi che allora si iniziava per la democrazia italiana. In conseguenza di ciò, dopo la uscita dal governo si è creato in certi gruppi di iscritti uno smarrimento per cui non si vedeva più chia­ramente quale fosse la prospettiva per la quale combattevamo. Alcuni si erano ridotti a pensare che la nostra parola d'ordine di lotta per una democrazia pro­gressiva fosse legata inevitabilmente al fatto della partecipazione al governo; quindi consideravano che con la uscita dal governo quella parola d'ordine e quella pro­spettiva non fossero più valide e cercavano di capire quale potesse essere il nostro nuovo piano strategico. Questi compagni non avevano compreso che la parola d'ordine della creazione di una democrazia progressiva non era qualcosa di tran­sitorio, condizionato dalle mutevoli vicende parlamentari, non ci era dettato dal fatto che partecipassimo in queste e in altre condizioni e a questo o ad altro go­verno; ma faceva parte di un piano strategico dettato dallo sviluppo di tutta la situazione internazionale in questo dopo guerra e dallo sviluppo, in rapporto con la situazione internazionale, della situazione del nostro paese. Il partito deve sempre avere un piano strategico e tale piano strategico cambia soltanto quando avven­gono delle svolte storiche. Vorrei a questo proposito citare un passo del maestro di strategia e di tattica di tutti i comunisti, del compagno Stalin, scritto nel 1923, dove egli parla del modo come si sviluppa la strategia del Partito comunista in relazione con la modificazione della situazione storica. «La strategia del partito - dice Stalin - non è qualche cosa di permanente, fissato una volta per sempre. Essa si modifica in relazione con le svolte storiche, con i cambiamenti della situazione storica e questi cambiamenti si esprimono nel fatto che per ogni svolta storica viene elaborato un particolare piano strategico che corrisponde a quella determinata situazione storica ed è valido per tutto il periodo che va dall'una all'altra svolta. Il piano strategico contiene in sé la indi­cazione della direzione del colpo principale delle forze rivoluzionarie e lo schema della disposizione di masse di milioni di uomini sul fronte sociale. È naturale che il piano strategico che è valido per un periodo storico il quale ha le sue parti­colarità, non può essere valido per un altro periodo storico il quale ha altre parti­colarità completamente diverse. Ad ogni svolta storica corrisponde un piano stra­tegico il quale è necessario per questa svolta ed è collegato coi compiti che si pon­gono in questo periodo storico». Esemplificando, il compagno Stalin espone quali sono state le tappe principali dello sviluppo storico del movimento operaio in Russia e parla di una prima svolta storica che delimita un primo periodo storico il quale arriva fino al 1917, e cioè fino alla Rivoluzione democratico-borghese di quell'anno; in questo primo periodo l'orientamento è una rivoluzione demo­cratica borghese. Viene poi il secondo periodo, quello dell'orientamento per la dittatura del proletariato, che dura fino alla Rivoluzione di ottobre e seguendo il quale il partito bolscevico guida la classe operaia e la massa dei contadini pove­ri alla vittoria della Rivoluzione socialista. S'inizia allora un terzo periodo in cui l'orientamento è per una rivoluzione proletaria in Europa. Ad ognuno di questi periodi corrisponde una particolare disposizione di forze, una direzione particolare del colpo principale e quindi di una particolare tattica del partito.

   Quando abbiamo elaborato la parola d'ordine della lotta per una democrazia progressiva - e questa parola d'ordine non è stata lanciata solo dal nostro parti­to, ma in forme diverse, adeguate alla situazione dei singoli paesi europei, anche da altri partiti comunisti, lo abbiamo fatto perché abbiamo sentito di trovarci in un momento in cui si compiva una svolta storica ben determinata che giustifi­cava questo nuovo orientamento. I nostri obbiettivi strategici dovevano quindi essere diversi da quelli che ci eravamo precedentemente proposti ed essi si riassu­mevano con la maggiore evidenza nella lotta per una democrazia di nuovo tipo. Il nostro piano strategico in questo periodo non poteva non essere diverso da quello che abbiamo avuto nel precedente dopoguerra. In conformità con questo piano, il nemico principale contro il quale dobbiamo dirigere il colpo sono le forze più reazionarie del capitalismo e il rinato imperialismo, uscito rafforzato dalla secon­da guerra mondiale, e che minaccia la libertà e l'indipendenza di tutti i popoli. L'obiettivo che ci proponiamo di raggiungere è di distruggere le radici del fasci­smo e della reazione capitalistica, trasformando la struttura economica della vec­chia società, spodestando le vecchie classi dirigenti conservatrici, e facendo delle masse lavoratrici le vere depositarie del potere.

   Naturalmente in ogni paese d'Europa esistono condizioni particolari, per cui questo piano strategico fondamentale deve essere applicato tenendo conto di ca­ratteristiche, tradizioni, condizioni oggettive, forme di organizzazione e forme di lotta speciali. Nel nostro paese esistono pure determinate particolarità e di esse dobbiamo tener conto nello sviluppo della nostra azione. Ecco che cosa volevamo dire alla conferenza di Firenze quando abbiamo affermato il nostro proposito di trovare la via italiana per arrivare a una democrazia di tipo nuovo, la quale ci apre la strada per la realizzazione del socialismo. Questa via italiana non si inven­ta, non la si deduce per via astratta da principi universali, la si costruisce sulla base della lotta quotidiana, concreta delle masse. Alcuni elementi di essa inco­minciano a delinearsi, ma noi stessi comprendiamo che questa nostra via è ancora in elaborazione e che dobbiamo aprircela con l'organizzazione e lo sviluppo del­la lotta delle masse e del nostro lavoro. L'esistenza della unità sindacale nella for­ma di un sindacato unito; l'esistenza di un'unità d'azione tra socialisti e comuni­sti, l'esistenza di un regime parlamentare, ma dall'altra parte lo sviluppo di un largo movimento di massa che si fonda sopra organizzazioni che sgorgano dalle masse stesse e dal loro movimento, sono alcuni degli elementi caratteristici del metodo appropriato al nostro paese e che noi stiamo applicando per arrivare a costruire una democrazia nuova. Dobbiamo proseguire su questo cammino, sen­za mai perdere di vista il nostro obiettivo strategico fondamentale, comprenden­do che esso è valido per tutto un periodo storico, sapendo regolare sopra di esso la nostra tattica, l'azione politica e le forme di lotta e di organizzazione. In que­sto deve consistere la capacità politica del nostro partito.

   Certo, vi sono ostacoli e pericoli che ci minacciano. Il pericolo più grave che ci ha minacciato negli ultimi due anni e che ci minaccia tuttora è quello dell'op­portunismo. Lo abbiamo visto nella stessa battaglia del due giugno, nella quale se i nostri successi qua e là sono stati scarsi, ciò fu dovuto al fatto che una parte delle nostre organizzazioni e dei nostri compagni non ha saputo fare la necessaria distinzione tra una politica di unità e una politica di capitolazione di fronte al­l'avversario. Fare una politica di unità non vuol dire rinunciare alla difesa delle posizioni del partito, alla necessaria critica degli avversari, alla propaganda e alla agitazione del programma del partito, alla lotta contro l'avversario politico.

   Anche la partecipazione al governo aveva sviluppato alcuni germi di opportu­nismo nel partito, per cui sembrava ad alcuni compagni che nessun risultato concreto a favore dei lavoratori potesse più essere raggiunto se non attraverso i nostri rappresentanti al governo e in altri organismi ufficiali. Questi germi di opportunismo hanno in certi momenti frenato lo sviluppo di certe nostre organizzazioni, perché alla nostra uscita dal governo, esse si sono trovate disorientate, avendo perduto la nozione, che deve essere elementare per un comunista, del legame tra l'azione che si può svolgere partecipando a un governo e l'azione delle masse sul terreno della lotta sindacale e politica immediata. Contro questo pericolo di opportunismo dobbiamo condurre una lotta conseguente, se non vogliamo che il nostro partito perda le caratteristiche vitali di partito d'avanguardia della classe operaia. In pari tempo credo sia per noi oggi anche il pericolo di cadere in una specie di massimalismo o estremismo parolaio.

   Vi sono compagni i quali dopo la riunione dei Partiti comunisti in Polonia hanno giustamente capito che in quella riunione si era indicata la necessità di meglio precisare gli obbiettivi nostri e di sottolineare di più il compito di essere alla testa di tutte le lotte economiche e politiche delle masse, e di far convergere queste lotte in una ampia azione per la difesa della pace e dell'indipendenza, per la conquista di una nuova democrazia. Di qui una serie di compiti concreti politici e di organizzazione e la necessità di un miglioramento di tutto il nostro lavoro. Altri invece hanno pensato che si trattasse solo di fare dei discorsi con frasi più radicali di prima, oppure persino che ormai non ci fosse più altro da fare che prepararsi all'insurrezione armata. In pari tempo, naturalmente, il vero e neces­sario lavoro di partito essi lo trascuravano. Come si vede, vi è qui un pericolo di estremismo infantile e parolaio contro il quale dobbiamo combattere senza per ciò mettere da parte la lotta contro il pericolo dell'opportunismo. La lotta su due fronti è sempre stata fondamentale per la formazione di un partito comunista.

   L'essenziale per noi comunisti italiani è di non dimenticare né cancellare quel­le caratteristiche che siamo riusciti a dare al nostro partito in questo periodo e alle quali è dovuta la maggior parte dei nostri successi. Quali sono queste caratte­ristiche? Permettetemi di ricordarne alcune tra le principali, rapidamente. Prima di tutto, abbiamo creato un partito il quale, per la prima volta nella nostra sto­ria, ha veramente il carattere di un partito di massa. Questo corrisponde alle con­dizioni generali in cui si sviluppa la lotta politica in Italia in questo periodo, è dettato da esse, e noi commetteremmo un gravissimo errore se rinunciassimo a questo carattere del nostro partito o lo limitassimo, credendo di poter diventare in questo modo una organizzazione più «rivoluzionaria» o anche solo più effi­ciente. Non lasciamoci sedurre dai compagni che vengono sussurrando che me­glio sarebbe o meglio sarebbe stato rimanere «pochi ma buoni» o tornare ad esserlo. No, abbiamo raccolto nelle nostre file una massa di due milioni e due-centocinquantamila lavoratori di tutte le categorie. Sappiamo che non tutti an­cora sono buoni comunisti, ma sappiamo che sono sinceri ed entusiasti aderenti al nostro programma e spetta a noi il compito di educarli nel partito stesso, per accrescere sempre di più nelle nostre file, sia il numero dei buoni comunisti che dei quadri dirigenti. Questo richiede un contatto sempre più stretto e meglio or­ganizzato tra gli organi di direzione e i compagni della periferia.

   Una lode particolare deve essere perciò rivolta a quelle organizzazioni che rie­scono a organizzare in modo permanente questo contatto. La Federazione di Bo­logna, per esempio, ci ha annunciato nel suo telegramma di saluto al Congresso che alla data del 31 dicembre 1947 essa aveva già distribuito tutte le tessere del 1948 a tutti gli iscritti. Il fatto è positivo e ne deve essere sottolineata l'importan­za. Esso dimostra che la massa dei centodiecimila iscritti a questa organizzazione sono veramente una massa organizzata. Non dico che siano già tutti centodieci­mila buoni comunisti e che siano inquadrati come devono essere inquadrati cen­todiecimila comunisti; dico però che questa rapidità di tesseramento prova che vi è una compattezza e solidità organizzativa la quale fornisce una ottima base per una ottima attività di partito.

   In secondo luogo, abbiamo creato un partito il quale non è più soltanto una setta o un assieme di gruppi di propagandisti, ma è un vero partirò politico. Un partito politico è una forza la quale è capace di inserirsi attivamente nel conflitto delle forze politiche e sociali del paese, e di ottenere con la sua azione dei risulta­ti concreti nel senso di spostare queste forze. Esso deve saper scegliere quegli ob­biettivi che possono essere raggiunti attraverso la lotta delle masse appunto perché sono dettati dalla realtà. Quindi un partito politico, soprattutto in un paese così differenziato politicamente come il nostro, deve avere una buona politica di al­leanze, costruita secondo i principi del leninismo. Dappertutto dobbiamo saper scoprire dove esiste un possibile nostro alleato e la nostra abilità sta nel saperlo avvicinare e conquistare a una politica democratica e progressiva. Quando poco fa parlavo del partito che è nostro avversario principale, quello della Democrazia cristiana, non ho dimenticato di ricordare che anche al seguito di questo partito vi sono masse di lavoratori alle quali dobbiamo stare vicino, con le quali dobbia­mo trovare il necessario contatto. Questa capacità di trovare delle alleanze e di fare ciò che è necessario perché queste alleanze siano solide, senza perciò tradire i nostri principi, è una delle particolarità caratteristiche del Partito comunista ita­liano, e soprattutto dell'azione politica che esso ha svolto dalla liberazione in poi e non dobbiamo cancellare questa sua caratteristica e capacità, anzi dobbiamo nella nuova situazione perfezionarla e affinarla, se vogliamo poter raggiungere gli obbiettivi più avanzati che ci proponiamo.

   In terzo luogo, siamo un partito che si propone di dare alla causa della demo­crazia un contributo costruttivo non soltanto di parole o di parole d'ordine, di lotte e vittorie elettorali più o meno notevoli, di partecipazioni alla vita parla­mentare, di elaborazioni di leggi e così via, ma essenzialmente di dare un contri­buto positivo alla costruzione di un regime attraverso la lotta delle masse, la solu­zione positiva delle più ardenti questioni che le interessano, l'organizzazione di nuove forme della loro partecipazione al governo del paese. Se perdessimo di vi­sta il carattere costruttivo della attività del nostro partito, tutta l'azione che ora stiamo sviluppando potrebbe ridursi ad una agitazione di tipo massimalistico la quale non darebbe nessuno dei risultati che ci proponiamo di ottenere. I grandi movimenti organizzati di massa che formano la sostanza del Fronte democratico popolare hanno un carattere particolare e nuovo proprio perché, attraverso l'a­zione dei quadri più qualificati della classe operaia, dei contadini, delle masse lavoratrici, portano i lavoratori non solo ad avere coscienza della loro funzione dirigente, ma a compiere veri e propri atti di governo accingendosi alla soluzione di problemi concreti, vitali, quali quelli dell'autonomia delle amministrazioni comunali, del controllo sull'industria, della riforma agraria, della redenzione del Mezzogiorno. È inevitabile che la lotta assuma un carattere costruttivo, e tale carattere deve essere ottenuto particolarmente attraverso l'azione dei comunisti.

   Infine, il nostro partito l'abbiamo costruito attraverso vent'anni e più come un partito di combattimento, e questa caratteristica mai deve essere dimenticata se si vuole riuscire a raggiungere gli obiettivi che stanno davanti a noi. Non basta parlare, non basta aver ragione o farsi dare ragione dall'avversario o dal simpatiz­zante, bisogna riuscire a organizzare, attraverso l'iniziativa del partito, movimenti e azioni di massa che portino avanti tutto il fronte della democrazia. Se il nostro partito non avesse avuto questa caratteristica durante la guerra di liberazione, è certo che né la lotta di liberazione, né il movimento armato partigiano si sareb­bero sviluppati in questo modo. Se quello sviluppo vi è stato è perché i comunisti hanno saputo prendere l'iniziativa, anche quando erano pochi e ancora inascol­tati: hanno saputo col loro esempio, e con la loro azione organizzata trascinare dietro di sè le masse. Non perdiamo questa caratteristica fondamentale del no­stro partito, se la perdessimo sarebbe una sconfitta di tutta la democrazia.

   Naturalmente, a queste questioni fondamentali del nostro orientamento e dei caratteri del partito sono collegati gli aspetti concreti del nostro lavoro. Ad essi dedicherò soltanto due parole, perché altri se ne occuperà per disteso. La mia opi­nione è che un grande sforzo deve ancora essere fatto per migliorare tutto il no­stro lavoro. Dalla Conferenza di Firenze in poi qualche cosa si è fatto, ma è anco­ra troppo poco. Prima di tutto il troppo poco si è fatto per migliorare la forma­zione ideologica del partito ed elevarne il livello. Nel partito si legge troppo po­co, si studia troppo poco. La tiratura dei nostri quotidiani è inadeguata al nume­ro dei nostri quadri intermedi cui essi sono destinati, la tiratura della rivista è inadeguata alla necessità del nostro lavoro ideologico. Bisogna che i nostri com­pagni si abituino a leggere ed a studiare di più. È necessario che l'attività ideolo­gica venga curata in modo migliore, tanto dal Comitato centrale quanto dalle organizzazioni locali. Un monito particolare vorrei rivolgere a questo proposito ai nostri compagni intellettuali, bravi compagni, venuti a noi attraverso l'espe­rienza di lotte che li hanno formati come militanti e combattenti, ma di cui non possiamo dirci oggi completamente soddisfatti perché non riescono a dare al par­tito tutto quello che dovrebbero, di cui il partito ha bisogno o che da loro po­trebbe ricevere. Persino tra i nostri compagni intellettuali tendenze tali rendono loro difficile dare tutto il contributo che potrebbero dare alla elaborazione della politica del partito, al suo progresso ideologico e alla estensione della sua influenza in tutti i campi. L'origine principale di queste tendenze sta forse nel fatto che in molti nostri compagni pur dotati di grandi qualità si sente ancora fortemente l'influenza di certi aspetti deteriori del mondo intellettuale e culturale italiano di questo secolo.

   Osservate per esempio come molti nostri compagni capaci di un buon lavoro intellettuale abbiano la tendenza a isolarsi, a starsene in disparte. Essi non sono soltanto distaccati dalle sezioni e dalla massa degli iscritti, ma si isolano anche in un altro modo, formando piccoli gruppi ristretti che si ignorano l'un l'altro, e dove perciò il dibattito ideale assume un aspetto artificiale, e non corrisponde più a necessità reali del movimento. Alle volte, particolarmente tra i giovani e tra i compagni che sanno studiare e scrivere, sembra tenda a riprodursi la situa­zione che esistette, nell'ultimo decennio, quando ogni quattro studenti un po' intelligenti sorgeva una rivistina e una «corrente» speciale. Questa polverizza­zione della attività intellettuale era utilissima ai gerarchi fascisti, a Bottai ecc., ma è in sé esiziale e oggi si richiede di superarla, tornando alle vecchie tradizioni italiane, per esse i gruppi di intellettuali e le loro correnti di pensiero si sforzava­no, attraverso la espansione e il contatto reciproco, di assolvere una funzione na­zionale. Da questa tendenza all'isolamento in piccoli gruppi credo derivi anche un'altra curiosa tendenza, alla oscurità e astrusità dell'espressione. Quando si è in pochi, è naturale si cada nel gergo. Non si accorgono, questi compagni, che questa oscurità dell'espressione è un riflesso, per lo meno nelle forme, di tenden­ze e aspetti della cultura borghese, propri di questa fase di dissolvimento della società capitalistica. Essa rivela un distacco serio dalla vita, un'assenza di quella visione larga della realtà che si acquista precisamente nei contatti molteplici con tutto il movimento sociale. Vi è un abisso tra il modo come alcuni nostri compa­gni impostano i problemi o si esprimono, e la cristallina limpidezza - che però è tutt'altro che superficialità - dei nostri classici, da Marx ed Engels, a Lenin e Stalin. È alla lettura e allo studio di questi classici che io vorrei richiamare molti nostri intellettuali. Il dibattito interminabile e astratto sui rapporti tra «cultura e politica», non può tenere il posto delle indagini economiche, storiche, politi­che, di cui abbiamo bisogno non solo per illuminare la nostra concreta attività quotidiana, ma per rinnovare la cultura italiana. Che cosa può uscire di buono da questo uggioso dibattito se non una nuova spinta a tenersi in disparte, lontani dalla vita stessa, irretiti da riserve, dubbi e contraddizioni che solo nella concreta attività tanto culturale quanto politica possono trovare la soluzione? Per noi co­munisti, rottura e distacco tra cultura e politica non possono esistere, perché lo sviluppo delle nostre posizioni ideali non può essere separato mai dalla nostra attività pratica. Sarebbe bello che dovessimo spender parole per dimostrare que­sta verità, in un paese dove la cultura ufficiale si vanta di aver raggiunto le vette del pensiero filosofico proclamando l'identità di storia e di filosofia! La nostra attività ideale non può non avere, come l'attività pratica, l'impronta di partito; e non perché noi intendiamo, con decisioni di organismi politici, comandare o controllare l'attività artistica, o letteraria, o filosofica, o scientifica, ma semplice­mente perché il partito vuol dire per noi coordinamento e indirizzo di tutti gli sforzi delle classi lavoratrici per diventare classi dirigenti della vita sociale in tutti i suoi aspetti, e questo non può non significare qualcosa di molto serio per chiun­que partecipi alla nostra lotta con la sincerità e lo slancio che sono necessari. Non spetta a noi dettar né temi né metodo né soluzioni agli intellettuali comunisti; ci spetta bensì richiamarli a quella unità della coscienza e della vita che è di tutti i seri pensatori e attori della storia. Come si possono separare dai problemi della politica quelli della cultura, proprio nel momento in cui la classe operaia, diven­tando classe dirigente, afferma la sua egemonia in tutti i campi dell'attività uma­na, e proprio in un paese come il nostro, dove una così profonda trasformazione rinnovatrice della cultura si impone con la stessa urgenza con cui si impone il rinnovamento economico e politico?

   Affido ad ogni modo agli intellettuali stessi questi consigli sperando che essi servano a stringere in modo sempre più forte i loro legami di partecipazione a tutto il nostro lavoro.

   A noi spetta, inoltre, rendere più intensa e più rapida la formazione dei qua­dri del partito, e non soltanto attraverso le scuole. Le scuole ci hanno dato e ci danno parecchio: centinaia di quadri sono usciti dalle scuole centrali e locali, ma il quadro del partito si forma essenzialmente attraverso l'attività concreta quoti­diana, attraverso la lotta, ed è qui che si palesano molti difetti di molte nostre organizzazioni, tali che non consentono né lo sviluppo rapido dei quadri, né il rafforzamento del partito. Non è vero che non vi siano quadri nel nostro partito. Quando andiamo nelle organizzazioni periferiche stupisce la quantità di uomini nuovi, dalla mente aperta e devoti alla nostra causa, che ci sono quasi dappertut­to. La questione è che non si apre la strada a questi uomini, perché non si è anco­ra capaci di trovare l'attività concreta che consenta ad ognuno di affermarsi a se­conda delle sue capacità. E qui torniamo alle questioni fondamentali della confe­renza di Firenze, a quelle risoluzioni di organizzazione che qui ancora una volta commenteremo e forse qua e là ritoccheremo, ma che hanno dato una giusta li­nea di lavoro e che purtroppo non sono state applicate con quella rapidità con cui avrebbero dovuto esserlo. Per questo oggi abbiamo ancora un numero così ridotto di membri del partito effettivamente attivi e non abbiamo ancora tutti i quadri di cui avremmo bisogno; per questo lo sviluppo organizzativo e politico del nostro partito non è stato negli ultimi due anni del tutto soddisfacente. Biso­gna che i compagni dirigenti di tutte le nostre organizzazioni, dal Comitato cen­trale fino all'ultima cellula, si abituino di più a criticare e ad essere criticati. La critica è strumento e molla indispensabile per lo sviluppo di un partito bolscevi­co. Nel nostro partito non è ancora adoperata e quando una critica viene fatta, sotto lo stimolo del Comitato centrale e dalla Direzione del partito, viene fatta in modo meccanico, esteriore, senza che si ricavino dalla critica le immediate con­seguenze pratiche, che devono essere ricavate affinché la critica sia feconda.

   Due parole prima di concludere, su due problemi che devono starci particolar­mente a cuore: quello delle donne e quello dei giovani. Richiamo la vostra atten­zione su alcune cifre che risultano dal rapporto statistico della nostra commissio­ne di organizzazione. In media noi organizziamo nel nostro partito il 7,65 % della popolazione attiva. Si tratta di una media nazionale. Se però stabiliamo la stessa media tenendo conto soltanto della popolazione maschile, saliamo fino al 13%, cioè quasi al doppio, il che vuol dire che tra la massa maschile noi abbiamo rela­tivamente più del doppio di aderenti che fra quella femminile. Se prendiamo le donne isolatamente abbiamo una percentuale del 2,94% di aderenti che è pre­cisamente meno della metà che tra le masse maschili. E' evidente che qui c'è un difetto grave. Considerazioni analoghe si devono fare anche per quello che ri­guarda lo sviluppo della nostra influenza fra i giovani. Qui le cifre sono più ele­vate, ma l'organizzazione giovanile vera e propria non ha quella consistenza ed estensione che dovrebbe. Dove sta l'errore nell'impostazione del nostro lavoro, da cui deriva, oltre che da certe condizioni oggettive, questo duplice difetto? L'er­rore è che il lavoro tra le donne e i giovani viene considerato alla stregua di un qualsiasi altro lavoro, cioè come una fra le tante ripartizioni burocratiche dei compiti dell'organizzazione. Vi è una sezione di lavoro per le donne e una per i giovani come vi è per molte altre cose; creata questa sezione, faccia essa il suo lavoro! I dirigenti dell'organizzazione non se ne occupano più in modo particolare, per­ché hanno perduto il senso della sua decisiva importanza politica. Questo è un errore. Sviluppare una organizzazione femminile o una organizzazione giovanile democratica di partito e di massa, è compito politico di primo piano per la de­mocrazia italiana e per noi, se vogliamo riuscire a far trionfare le forze del lavoro. Così non pensano quelli tra i nostri compagni che pongono il lavoro fra le donne e i giovani su un piano non politico, ma unicamente tecnico e organizzativo. E' anche per questo che non si formano molti quadri femminili e giovanili, e che le organizzazioni democratiche giovanili e femminili non si sviluppano; del che, se non ripariamo a tempo, potremo subire le conseguenze nelle elezioni. Credo sia necessario che in questo come negli altri campi dove vi sono serie lacune nel­l'attività del partito vengano concentrate le forze per liquidare decisamente i di­fetti che ancora vi sono. Sono convinto che il nostro congresso darà a questo sco­po il contributo che è necessario che esso dia.

   Compagni, ho terminato. Abbiamo aperto il nostro congresso nei primi giorni dell'anno nuovo, del 1948, e ognuno di noi va con la sua mente ad un anniversa­rio, rievoca la data fatidica di un secolo fa, del 1848, è portato quindi a fare con­fronti e sulla base di questi confronti a formulare prospettive e auguri. E' inevita­bile che ciò avvenga. Il 1848 fu anno di importanza decisiva per l'Italia, perché dopo secoli di vita chiusa, ristretta, dominata da concezioni retrive e da gruppi reazionari, dopo secoli di isolamento dalle correnti progressive del resto del mon­do, nel 1848 sembra finalmente che l'Italia si schieri di nuovo su un fronte di lotta internazionale, a fianco dei grandi movimenti di massa, nazionali, demo­cratici e sociali che in quell'anno si sviluppano in quasi tutta l'Europa. Questo secondo me è il valore principale del 1848, per l'Italia. Per cui, qualunque siano stati i risultati concreti dei movimenti di quell'anno, effettivamente quella data fu decisiva per la rinascita del nostro paese. E' vero che il movimento italiano fu diretto in quell'anno da gruppi politici incapaci di portare il paese alla realizza­zione delle fondamentali aspirazioni della parte migliore del popolo. In quel­l'anno però, in tutta Europa si parla di nuovo del popolo italiano come di un popolo che in tutta la penisola, da Torino e da Milano alla Sicilia, si solleva e lotta per prendere nelle proprie mani il proprio destino. Se ora noi allarghiamo la visuale e cerchiamo di rievocare che cosa fu il 1848 per l'Europa e per il mondo intero, l'indicazione è ancora più chiara: il 1848 fu l'anno nel quale la classe operaia per la prima volta si presenta sulla scena della storia come massa con un proprio programma, con proprie rivendicazioni concrete, prende le armi e si batte per realizzare questo programma e queste rivendicazioni. E' ciò che il nostro grande maestro Federico Engels ha detto con stile lapidario in una celebre prefazione al Manifesto dei comunisti.

   «Dappertutto quella rivoluzione [del 1848], - egli scrive, - fu opera della classe operaia, fu questa che fece le barricate e pagò di persona. Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l'intenzione bene determinata di rove­sciare il regime della borghesia. Ma per quanto essi avessero coscienza dell'anta­gonismo che esisteva tra la propria classe e la borghesia, né il progresso economi­co del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi erano giunti al grado che avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivolu­zione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe capitalistica. In altri paesi, in Italia, in Austria, in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al potere la borghesia... Se dunque la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a quest'ultima».

   Ho voluto citare queste parole perché in forma concisa e cristallina indicano cosa fu il 1848 e perché sono piene di indicazioni anche per la situazione nostra di oggi. Nel 1848 abbiamo iniziato in forma concreta la lotta per l'indipendenza e l'unità del nostro paese. Oggi, nel momento in cui il capitalismo è arrivato alla fase suprema del suo sviluppo, all'imperialismo, sembra che questo problema si ripresenti. La borghesia capitalistica, giunta al punto della sua agonia, non è più capace di difendere quei beni che nel passato ebbe il merito di rivendicare. Vi è qualcosa di profetico in Engels quando egli, nella stessa prefazione, afferma poche righe dopo che «senza l'autonomia e l'unità restituite a ciascuna nazione europea, né l'unione internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelli­gente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi». Oggi dobbiamo ancora una volta combattere per l'indipendenza nazionale; oggi spetta a noi la direzione di questa lotta, ma in quale diversità di condizioni da allora. Oggi la classe operaia è in Italia una grande forza organizzata, compatta, combattiva, la quale ha alla sua testa grandi partiti come il nostro e come il Parti­to socialista, la quale rivendica il compito di dirigere tutte le forze della demo­crazia alla costruzione di una società nuova. Il 1948 quindi si lega al 1848 nella linea della continuità storica, ma in condizioni in cui spetta a una classe nuova, affermandosi come classe dirigente di tutta la nazione, di guidare tutta la nazio­ne ad adempiere ai compiti che stanno davanti ad essa.

   Il 1848 fu l'anno del Manifesto comunista, il documento il quale contiene nel­la forma più limpida e concisa la sostanza dei principi della nostra dottrina, di quei principi che hanno guidato il movimento operaio nel corso di un secolo, che hanno resistito a tutte le critiche e a tutti gli attacchi, a tutti i tentativi di distruzione e di revisione condotti con tutte le armi. Oggi, quando gli operai, gli intellettuali, i giovani si chiedono una spiegazione di ciò che avviene nel mondo moderno, e ricorrono a quei famosi maestri i quali si vantano di avere o «supera­to» o liquidato per sempre la nostra dottrina, trovano che da quella parte non viene più e non può più venire nessuna spiegazione coerente, ma solo indifferen­za pseudo-olimpica, o imbelle rassegnazione, o disperazione e scetticismo male mascherato. Di luce immortale sempre più viva brillano invece le poche decine di pagine del Manifesto, compendio di un pensiero pienamente adeguato alla realtà d'un secolo e alla realtà del giorno d'oggi, perché vi è in essa una guida sicura alla comprensione di tutti i problemi della società moderna, delle sue ori­gini e del suo sviluppo. Di fronte a questa realtà si spezzano le armi della critica. Comprendo perciò il tono sconsolato con cui i vecchi «maestri» dell'ideali­smo reazionario si rivolgono oggi ai giovani implorandoli di abbandonare l'ere­sia marxista e ritornare al vecchio ovile. Comprendo l'ira mal contenuta di questi «maestri», e come essi siano ridotti a usare contro di noi non più le armi della polemica ideale, ma quelle della falsificazione, dell'insulto, della calunnia. Com­prendo come Benedetto Croce sia costretto a lanciare contro di noi l'anatema co­me contro il partito dell'anticristo. Arrivati a questo punto sono finiti il ciclo e l'efficacia del ragionamento. La realtà è che gli uomini vogliono capire, e voglio­no esser guidati da una dottrina che permetta loro di capire e nello stesso tempo apra l'animo loro alla speranza e alla certezza di un mondo rinnovato, di una umanità migliore. Sulla base della dottrina del Manifesto si è sviluppato un mo­vimento grandioso che è di pensiero e di azione nello stesso tempo; dal Manife­sto la più grande corrente ideale, politica, sociale del mondo moderno, la quale culmina nella grande Rivoluzione socialista di ottobre, vinta da un grande popo­lo, guidata da un grande partito, da un partito formato e educato alla scuola di Marx e di Engels, di Lenin e di Stalin. Se questo grande partito ha saputo portare la classe operaia per la prima volta a conquistare il potere, a riportare la più gran­de vittoria della storia affermandosi come classe dirigente di una intiera nazione, e gettando le basi di una società nuova, di una società socialista, è perché esso si è ispirato in tutta la sua attività alla dottrina del Manifesto. Noi non potremmo chiudere meglio questa seduta del nostro Congresso che rivolgendo il nostro pen­siero riverente e commosso a quel partito e agli uomini dirigenti di quel partito, che così grande e decisivo contributo hanno saputo dare allo sviluppo della storia dell'umanità. Rivolgiamo il nostro saluto ed il nostro pensiero al Partito bolsce­vico dell'Unione Sovietica, ai suoi dirigenti, al compagno Stalin, il più grande di tutti, nostro Capo e maestro, al quale tutta l'umanità è debitrice di una pace conquistata attraverso la distruzione del fascismo.

   Anche il nostro partito, se vuole andare avanti, se vuole continuare a svilup­parsi come una grande forza democratica e rivoluzionaria, deve saper tener fede ai principi della nostra dottrina, ai principi del Manifesto. Dai compagni che hanno fondato insieme con noi questo partito, dal compagno Gramsci e da tutti gli altri che al nostro partito hanno consacrato la loro esistenza abbiamo ricevuto un grande legato, una eredità a cui noi dobbiamo essere fedeli. Per costruire questo partito, per difenderlo, per affermarlo, per rafforzarlo, per farlo diventare una grande organizzazione di combattimento e di massa, centinaia e migliaia di uomini hanno saputo dare tutto quello che avevano di più prezioso: la loro intelligenza, la loro capacità combattiva, la libertà, il sangue, la vita. In questi due anni abbiamo fatto molto cammino. Nessuno saprebbe misconoscerlo, né lo misconoscono i nostri stessi avversari. Abbiamo dimostrato che il grande successo che ha portato la pic­cola organizzazione comunista clandestina a diventare nella legalità un partito di milioni di uomini non è stato un successo temporaneo, occasionale; abbiamo dimostrato che quel successo corrisponde a una conquista duratura della classe operaia e dei lavoratori italiani. Ci presentiamo a questo congresso con un bilan­cio dove le vittorie riportate non ci rendono ciechi verso le debolezze ancora esi­stenti. Di una cosa siamo certi: il nostro partito, traendo dall'esperienza di questi due anni tutto l'insegnamento che essa contiene, saprà rimanere fedele alle sue tradizioni e al legato che ha ricevuto dai suoi fondatori, dai suoi caduti, dai suoi martiri. Il nostro partito andrà avanti per la strada che essi gli hanno segnata. Siamo certi che questo nostro VI Congresso segnerà una nuova tappa nel suo svi­luppo, nel suo rafforzamento, nel suo consolidamento. Questo è il regalo che noi offriamo all'inizio di questo 1948 al popolo italiano. Sappia il popolo italia­no che il Partito comunista saprà fare tutto quello che è necessario per difendere le libertà riconquistate, per spingere avanti la causa della democrazia, per rinno­vare la vita del nostro paese, per aprire all'Italia le vie di un avve­nire libero e felice, le vie della edificazione di una società nuova, di una società di liberi e di uguali, di una società socialista.


Note


[1] Molto probabilmente Togliatti allude allo scambio epistolare intercorso nell'estate 1947 tra il presidente degli Stati Uniti Truman e Pio XII, nel quale il papa rassicura che «la Chiesa non ha paura: essa non può scende­re a compromessi con i nemici aperti di Dio». Si veda Eugenio Reale, Il Vaticano e la lotta contro la guerra, «Rinascita», IV, n. 8, agosto 1947, pp. 204-6.
[2] Il tragico protagonista del dramma di William Shakespeare, Il mercante di Venezia.
[3] Togliatti fa riferimento alla enciclica Mediator Dei, promulgata da Pio XII alla fine del 1947.
[4] Si tratta di Giulio Andreotti.
[5] Era allora segretario del PRI Randolfo Pacciardi.