Palmiro Togliatti

La lotta del popolo italiano
per la pace, il lavoro, la libertà

Relazione di Togliatti al VII congresso nazionale del PCI, Roma, 3-8 aprile 1951. Testo ripreso da "Da Gramsci a Berlinguer, ...", op. cit., vol. II pp.411-436.



  Delegati al VII Congresso nazionale del Partito comunista italiano, compagne, compagni, amici. Ricordo che cinque anni or sono, parlando al V Congresso del nostro partito, esaminata l'attività da noi svolta dopo la nostra fondazione e par­ticolarmente nel successivo più duro periodo della storia del nostro paese, mi ri­tenevo autorizzato dai fatti stessi ad affermare che senza il nostro contributo la storia d'Italia negli ultimi anni sarebbe stata molto diversa, e peggiore, da quella che è stata. Non era senza dubbio vanità che mi spingeva a fare simile afferma­zione, e non era nemmeno soltanto il desiderio di esaltare il contributo glorioso dato da noi, dai nostri combattenti, da tutto il nostro partito alla causa della li­berazione d'Italia dalla tirannide fascista e dall'invasione straniera. Oltre a tutto questo, vi era in noi la consapevolezza della parte che spetta ormai in questo pae­se, in Italia, alla classe operaia e al suo partito di avanguardia. Questa parte è diventata e diventerà sempre più grande e più chiara via via che le classi dirigenti imperialistiche e reazionarie abbandonano il cammino degli interessi nazionali, spinte dalla difesa esclusiva del loro egoistico interesse di casta.

   Nel periodo precedente questo congresso, ancora una volta è venuta a galla la sciagurata tendenza a presentare il nostro partito, il partito di avanguardia del­la classe operaia e del popolo, quasi come un corpo estraneo alla nazione, il quale debba venire eliminato non so con quali misure. In realtà è toccato a noi, anche in questi ultimi anni, il compito di essere, assieme con i compagni socialisti, gli animatori di tutte le lotte condotte dal popolo per i suoi interessi vitali, per la difesa e l'accrescimento del suo benessere economico, per l'affermazione e la di­fesa delle proprie libertà democratiche, per la resistenza a una politica che ancora una volta porti l'Italia verso l'abisso della guerra.

   Ci presentiamo quindi a questo congresso con un bilancio di cui la parte più importante è questa nostra partecipazione alle lotte della classe operaia e del po­polo per i propri ideali e i propri interessi vitali. Nel corso di queste lotte si sono raccolti intorno a noi gruppi larghissimi della popolazione. L'anno scorso si è af­fiancata a noi una nuova grande organizzazione comunista di massa, la Federa­zione giovanile comunista italiana, la quale ha in questo modo ripreso la sua esistenza gloriosa [1]. Le nostre forze numeriche sono più ingenti di quanto non fos­sero prima, più ingenti di prima sono le nostre forze politiche, più grande di prima il nostro prestigio, l'autorità con la quale ci presentiamo sulla scena nazio­nale. Inventi ciò che vuole la bovina idiozia anticomunista e ci credano i babbei. Questa è la realtà. Oggi dunque, come nel passato, ci presentiamo e ci sentiamo al centro della situazione del paese, forza dal cui orientamento dipendono il pre­sente e l'avvenire d'Italia. A noi, partito della classe operaia, spetta in questo momento, come nei momenti più gravi del passato, riconoscere e difendere gli interessi di tutta la nazione.

   In pari tempo però noi non siamo separati dal resto del mondo; anzi ci sentia­mo e siamo solidali e concordi con quelle forze democratiche e progressive che in tutta l'Europa, e in tutto il mondo - siano esse forze di governo, siano forze di opposizione - si muovono oggi per risolvere con efficacia, nell'interesse della pace, tutte le questioni che stanno davanti all'umanità.

   Sono delegati a questo nostro congresso i rappresentanti di alcune di queste forze, di alcuni dei partiti comunisti e operai d'Europa. Il nostro presidente ha già elevato la protesta contro il fatto che una decisione governativa abbia impedi­to una più larga partecipazione al congresso dei rappresentanti di tutti i partiti di avanguardia della classe operaia europea. Questa decisione è dovuta all'attua­le ministro degli esteri [2] e noi sentiamo commiserazione per quest'uomo, costret­to a terminare la propria esistenza politica tessendo manovre indegne per impe­dire che le forze avanzate della democrazia e della classe operaia possano prende­re contatto fra di loro, conoscersi, salutarsi nel momento in cui fanno una rasse­gna del proprio lavoro e stabiliscono i loro compiti avvenire. Questa è una fine ben meschina di una esistenza politica!

   Rivolgo a nome di tutto il congresso un saluto cordiale alle delegazioni stranie­re che sono qui presenti, del Partito operaio ungherese, del Partito comunista austriaco, del Partito del lavoro svizzero, del Partito comunista del Territorio Li­bero di Trieste, e in prima linea del grande partito fratello, del Partito comunista francese, che vive e lotta in condizioni tanto simili alle nostre [...]. Noi siamo certi che assieme sapremo condurre al successo la lotta comune, per dare ai nostri popoli benessere e libertà, per salvare la pace di tutti i popoli europei.

   Compagni, da questa duplice costatazione della parte che abbiamo avuto e ab­biamo nella vita del popolo del nostro paese, e di ciò che siamo nell'arena inter­nazionale, deriva l'autorità che sentiamo di avere e con la quale ci rivolgiamo, da questa tribuna, a tutto il paese, ai compagni nostri prima di tutto, agli amici, agli indifferenti, agli avversari. A tutto il popolo noi presentiamo il bilancio di ciò che abbiamo fatto in questi ultimi anni, delle lotte che abbiamo combattuto, dei successi riportati, di quelli che non siamo ancora riusciti a ottenere. Ci sforze­remo, con l'aiuto di quella dottrina marxista e leninista che per trenta anni ci ha guidati e ci ha guidati bene, di comprendere la situazione del momento pre­sente e a tutto il popolo faremo le proposte nostre, le proposte che riteniamo necessario fare acciocché si rafforzi la democrazia e diventi migliore la vita della grande maggioranza degli italiani.

   Non vi è dubbio che dall'ultimo congresso nostro, che ebbe luogo all'inizio del 1948, profonde modificazioni sono avvenute in Italia, e fuori d'Italia. Le più profonde, le più gravi sono senza dubbio quelle che sono avvenute nel campo internazionale. Alcune di queste infatti hanno un carattere drammatico e un con­tenuto tale che non si può dire che possano essere comprese o interessino soltanto gli specialisti della politica. Esse colpiscono e prendono alla gola l'uomo sempli­ce, gli fanno sentire che dal modo come si sviluppano i rapporti internazionali dipende, in un avvenire che può essere prossimo, la sua esistenza, quella dei suoi figli, della sua famiglia, del suo paese.

   È in corso oggi in Estremo Oriente una guerra in cui sono impegnati alcuni dei più grandi stati del mondo. Il nostro governo ha preso aperta posizione per una delle parti belligeranti e precisamente per coloro che, intervenuti in un con­flitto interno coreano, fanno la guerra al popolo della Corea e al popolo cinese. Noi ci troviamo quindi, se non direttamente per lo meno politicamente, impe­gnati in questa guerra.

   In relazione con la guerra in Corea gli Stati Uniti da alcuni mesi si sono dichia­rati in stato di emergenza, che è ciò che precede immediatamente lo stato di guerra.

   Gli Stati Uniti, inoltre, che sono oggi la più grande potenza capitalistica e im­perialistica del mondo, non soltanto hanno orientato tutta la loro attività all'in­terno delle loro frontiere verso la preparazione politica, economica e militare di un nuovo conflitto armato, ma a tutto il mondo, si può dire, e in prima linea agli stati che da loro sono controllati e diretti, come il nostro, hanno imposto di seguire lo stesso cammino. In questo modo l'alternativa pace o guerra, la pro­spettiva della maggiore o minore probabilità che una guerra scoppi in un tempo più o meno breve, domina oggi l'animo di tutti gli uomini, domina la vita di tutti gli Stati europei. A questa alternativa sono collegate oggi tutte le questioni che si presentano ai popoli dell'Europa, e del mondo intiero.

   Nonostante questo, se consideriamo con maggiore attenzione lo svolgimento della situazione mondiale negli ultimi anni, ciò che prima di tutto ci colpisce è un notevole spostamento di forze reali a favore di quei popoli, di quei gruppi sociali e di quegli stati che sono animati da uno spirito democratico, pacifico e di rinnovamento sociale, a favore cioè, in sostanza, della classe operaia e di colo­ro che la accompagnano nel suo cammino.

   Questo spostamento si è espresso, prima di tutto, nella grande vittoria della rivoluzione cinese, venuta a compimento fra il 1948 e il 1949. Questa vittoria ha schierato sul fronte della democrazia, della pace e del lavoro tenace per un rinnovamento sociale, un popolo di oltre quattrocentocinquanta milioni di uo­mini, uno stato nuovo, diretto da un grande partito comunista, alleato di tutte le forze democratiche di quel paese. Il valore di questo avvenimento sfugge pro­babilmente ancora alla maggior parte degli uomini politici del mondo capitali­stico; esso certamente è sfuggito ai dirigenti della politica italiana. In conseguen­za della vittoria della rivoluzione cinese, una nuova, potente organizzazione poli­tica, economica e militare fa oggi parte del nostro fronte. Si è così compiuta una tappa decisiva nella distruzione del sistema coloniale nell'Asia e nel mondo in­tiero. Un nuovo colpo gravissimo è stato dato al sistema mondiale dell'imperiali­smo. Si è creata, dopo la fine della seconda guerra mondiale, una nuova ondata di movimento democratico e liberatore. Questa nuova ondata si sta a poco a poco estendendo a nuove parti del mondo, in modo tale che le ripercussioni non pos­sono ancora essere calcolate completamente. Si tratta di popoli nuovi, i quali ri­vendicano benessere, dignità e parità di diritti con tutti gli altri; si tratta di una inevitabile nuova crisi dei vecchi gruppi dirigenti imperialistici, condannati alla perdita di posizioni che erano per essi posizioni vitali.

   Ho già detto che i dirigenti del nostro paese non ne hanno capito nulla. Non potevano capirne nulla, tenuti come sono a eseguire gli ordini degli imperialisti americani, cui hanno legato la loro sorte politica e cui, purtroppo, hanno anche legato, almeno per ora, la sorte politica del paese. Non è concepibile una avanza­ta dell'umanità sulla strada del progresso senza che questo movimento di libera­zione dei popoli coloniali, di distruzione delle posizioni del vecchio colonialismo e dell'imperialismo giunga a una vittoria totale. Ogni cittadino italiano, quindi, il quale si senta in qualsiasi modo legato alla causa della libertà dei popoli e del progresso, per ideologia o per tradizione nazionale, non può che salutare la vitto­ria della rivoluzione cinese, la creazione in Cina di una repubblica democratica popolare, e le ulteriori trasformazioni nella struttura del mondo intiero che sca­turiscono da questa vittoria. Ma non basta. Noi italiani - a cui tante sciagure sono state riservate ogni volta che le nostre classi dirigenti han tentato di mettersi sulla strada della concorrenza con i grandi gruppi imperialisti dominatori del mondo fino ad alcuni decenni or sono - abbiamo un interesse particolare a salutare la liberazione del popolo cinese, e di tutti i popoli coloniali dal giogo dell'imperia­lismo. La rovina dell'imperialismo è per noi una strada aperta, una salvezza. Il saluto che mandiamo da questo nostro congresso alla Repubblica popolare cine­se, al popolo cinese, al suo Partito comunista ed al suo capo, compagno Mao Tse Tung è un saluto di socialisti, di democratici, di cittadini i quali comprendono l'interesse vitale della loro patria.

   Altri spostamenti di enorme importanza sono quelli che riguardano l'Unione Sovietica. L'Unione Sovietica era uscita dalla guerra profondamente ferita nel pro­prio sistema economico con piaghe numerose che dovevano essere sanate. Negli anni che stiamo esaminando è giunta a termine per essa la riparazione dei danni causati dall'invasione hitleriana e si è iniziato un periodo nuovo, di cui gli ele­menti caratteristici sono l'elevazione continua del tenore di vita dei lavoratori, l'inizio di nuove grandi costruzioni economiche le quali tendono alla trasforma­zione della natura stessa del paese nell'interesse dello sviluppo di una economia socialista, l'inizio, infine, di nuove trasformazioni sociali, come quelle che han­no luogo oggi nelle campagne sovietiche e che tendono a diminuire la differenza tra il lavoro industriale e il lavoro agricolo, accelerando quindi il passaggio da un regime socialista al comunismo. Il periodo della riconversione industriale, cioè del passaggio dalla produzione di guerra a quella di pace, è finito fin dal 1946. Il livello della produzione prebellica è stato raggiunto, per la grande industria, nel marzo del 1948, per i beni di consumo nel 1949, per l'agricoltura nel 1949-50. Questo ha permesso di realizzare nel 1950 un reddito nazionale che è superiore al 160 per cento a quello del 1940, una produzione industriale che tocca il 170 per cento del 1940, una produzione agricola che tocca il 125 per cento del 1940. I piani di costruzioni economiche e di trasformazione della natura, che sono stati annunciati dall'Unione Sovietica in questi ultimi anni, sono di tale grandiosità che superano qualsiasi precedente in questo campo, che superano anzi persino quello che l'immaginazione degli uomini poteva pensare come realizzabile a così breve tempo dalla instaurazione di un regime socialista e a così breve distanza dalla fine di una guerra distruggitrice. Ci troviamo quindi in un mondo in cui mentre da un lato i paesi capitalisti europei, usciti dalla guerra in parte essi pure carichi di ferite, sono riusciti a stento a raggiungere e in qualche luogo a superare i livelli di produzione di anteguerra, dall'altra parte il paese del socialismo dà alla sua economia uno slancio sino ad ora non pensato.

   Il terzo elemento sul quale desidero richiamare la vostra attenzione è lo svilup­po e il consolidamento dei regimi democratici popolari sorti dopo la guerra nel­l'Europa centrale e orientale. I paesi dove questi regimi sono sorti erano stati an­ch'essi duramente provati dalla guerra: alcuni, come la Polonia, in misura spa­ventosa. Orbene, essi hanno compiuto tutti tali progressi economici che non pos­sono che sembrare meravigliosi a noi italiani, che invano andiamo cercando pro­ve di miglioramento nelle statistiche spesso falsificate che ci forniscono i nostri organismi governativi. Il livello della produzione industriale dell'anteguerra è stato raggiunto ed ampiamente superato in tutti questi paesi, dalla Romania alla Polo­nia, dall'Ungheria alla Cecoslovacchia e alla Bulgaria. In tutti questi paesi si nota un aumento continuo, di anno in anno, del numero dei lavoratori impiegati nel­l'industria, il che significa uno sviluppo continuo delle forze produttive. Di an­no in anno si nota un accrescimento tanto della produzione industriale quanto della produzione agricola, sulla base di piani di direzione della vita economica realizzati dallo stato. Dal 1949 al 1950, per esempio, si ha un accrescimento del­la produzione industriale che è del 15 per cento in Cecoslovacchia, del 23 per cento in Bulgaria, del 30 per cento in Polonia, del 37 per cento in Romania, del 35 per cento in Ungheria.

   E' vero che vi è stato il passaggio della cricca di Tito al campo degli imperialisti, ma lo smascheramento di questa cricca di rinnegati è stato rapido, completo. Tutti i tentativi, poi, fatti dagli imperialisti per allargare questa breccia, sono falliti, grazie alla vigilanza rivoluzionaria dei partiti comunisti e operai e dei governi dei paesi di democrazia popolare, come hanno dimostrato i processi dei traditori Raik e Kostov, come dimostrano le recenti energiche misure del Partito comuni­sta cecoslovacco per smascherare e punire i provocatori e le spie che erano riuscite a penetrare nelle file del nostro movimento.

   Ci dicono però, ed è questa la obiezione che ci viene opposta e circola più am­piamente quando parliamo dei progressi economici e politici dei paesi di demo­crazia popolare, che si sono costituiti in questi paesi dei regimi che escono dal quadro della democrazia tradizionale, perché fondati sulla unità di una serie di forze politiche raccolte intorno al partito comunista e da esso dirette. Questo, si dice, non sarebbe più uno sviluppo democratico. La verità è che la realizzazio­ne di una unità di forze popolari per costruire un regime economico nuovo è cosa inevitabile dappertutto dove vengono meno le scissioni sociali provocate dall'esi­stenza del regime capitalistico, cioè di un regime che si fonda sullo sfruttamento dei lavoratori. Là dove questo regime scompare e lo stato e l'economia son poste al servizio del popolo, ivi tutti gli onesti cittadini possono collaborare e collabo­rano alla costruzione e direzione di questa economia. Anche la vita politica assu­me quindi aspetti diversi e l'unità delle forze democratiche diventa in esse l'ele­mento prevalente. Non ci possono essere partiti di capitalisti là dove il capitali­smo non esiste più. Vi possono essere ancora degli speculatori, degli agenti dello straniero, dei traditori dell'interesse comune, ma contro di essi viene condotta la lotta che deve essere condotta. D'altra parte non possiamo dimenticare che quella zona d'Europa dove questi paesi oggi fioriscono e che va dal Baltico al Mar Nero, era coperta tra la prima e la seconda guerra mondiale da regimi reazio­nari, da regimi fascisti, da regimi che anche quando avevano parvenza di rispet­tare le regole della democrazia borghese, come in Cecoslovacchia, tradirono alla fine gli interessi del popolo e della nazione, quando si presentò la necessità di difenderli dall'imperialismo straniero e dal fascismo. Questo fatto viene di solito dimenticato, e vi è chi parla quasi per augurare che i regimi di democrazia popola­re scompaiano e al loro posto vengano ancora una volta i fascisti di Horthy e di Pilsudski [3] o coloro che in Cecoslovacchia capitolarono davanti allo hitlerismo.

   Questa parte d'Europa è oggi governata dai popoli, da governi che rappresen­tano la unità di tutte le sane forze popolari, raccolte attorno alla classe operaia. Il rafforzamento continuo di questi paesi è una nuova sconfitta dell'imperiali­smo, che ha così perduto per sempre alcune di quelle che erano nell'Europa stes­sa le sue basi.

   Se raccogliamo ora le osservazioni fatte circa questi tre settori della economia e della politica mondiale, risulta che enormi passi in avanti sono stati compiuti dalle forze popolari. Se vogliamo, anzi, considerare giusta l'affermazione secon­do la quale si starebbe combattendo nel mondo una guerra fredda tra le forze del capitalismo da una parte e le forze del socialismo dall'altra, la conclusione a cui dobbiamo arrivare è che le posizioni oramai definitivamente strappate al capitalismo e all'imperialismo sono diventate più estese, più solide, più sicure, più unite di quanto non fossero prima. Questo vuol dire che nella famosa «guer­ra fredda» chi ha riportato la vittoria sono le forze della pace, del lavoro, della classe operaia, del socialismo. Chi è stato sconfitto sino ad ora è l'imperialismo mondiale.

   Conosciamo però quale nemico abbiamo davanti a noi. E' un nemico che non accetta la sconfitta, che è anzi disposto a scatenare sulla umanità i più terribili flagelli, pur di difendere le proprie posizioni fino all'ultimo. Le sconfitte subite dall'imperialismo hanno infatti provocato una furiosa reazione dei gruppi impe­rialistici dirigenti, che sono quelli dell'imperialismo americano. Questa è l'origi­ne più profonda della guerra di intervento scatenata contro il popolo coreano e dell'attacco sferrato contro il popolo cinese con la occupazione dell'isola di For­mosa e con la minaccia militare alle frontiere della Cina. L'intenzione dei gruppi dirigenti la politica americana era senza dubbio di ottenere con questa impresa di guerra rapidi successi politici e militari e in questo modo rialzare il proprio prestigio, scatenare una nuova ondata di isterismo bellico, imporre a tutto il mondo capitalistico una marcia accelerata verso una nuova guerra mondiale.

   Non mi pare dubbio che il piano con il quale gli imperialisti americani si sono mossi attaccando la Corea e la Cina è per ora anch'esso fallito, grazie alla resi­stenza eroica opposta agli invasori stranieri dal popolo coreano, grazie all'aiuto generoso che al popolo coreano ha dato il popolo cinese, difendendo in pari tem­po le proprie frontiere e la propria indipendenza dalla minaccia che l'intervento degli Stati Uniti faceva gravare sopra di esse. Il piano degli imperialisti americani è fallito, poi, perché in tutto il mondo il loro attacco alla Corea e alla Cina, ren­dendo più acuta la coscienza del pericolo di guerra nella classe operaia e nelle forze democratiche, ha accelerato la creazione di un fronte di masse e di popoli i quali indipendentemente dalle loro opinioni politiche e religiose, indipenden­temente dal fatto di vivere sotto l'uno o sotto l'altro regime, sentono che è inte­resse di tutti che la pace venga salvata e sempre più si convincono che è loro dove­re condurre un'azione concreta perché la pace sia salva.

   Il fronte dei popoli per la pace che così si è venuto estendendo e rafforzando è un fronte organizzato e potente. Ne fanno parte non più soltanto masse lavora­trici di singoli paesi, ma una grande e solida organizzazione mondiale, quale è quella dei partigiani della pace. Questo, però, non è tutto. Al fronte della pace appartengono stati intieri, anzi appartiene un gruppo di stati che si estende dal­l'Elba all'Oceano Pacifico. Alla testa di questo fronte vi è l'Unione Sovietica, la quale conduce una lotta conseguente per la difesa della pace appunto perché è un paese socialista, cioè un paese il quale si dirige unicamente secondo gli inte­ressi dei lavoratori e dell'umanità.

   Non abbiamo alcuna riluttanza in questo congresso col quale vogliamo porre al centro dell'attenzione non solo del nostro partito, ma di tutta la nazione, la questione della salvezza della pace, non abbiamo nessuna riluttanza ad afferma­re che nella lotta per la difesa della pace la parte dirigente, la parte di guida, spetta al paese del socialismo, spetta all'Unione Sovietica.

   Questo deriva per noi dalla natura stessa dello Stato sovietico, dal fatto che esso non è imperialista ma socialista; dal fatto che la sua economia è di natura completamente diversa da quella che esiste nel mondo capitalistico; dal fatto che in esso non esistono più caste dominanti privilegiate, le quali, essendo proprieta­rie dei mezzi di produzione, se ne servono per opprimere il popolo e preparare aggressioni contro gli altri popoli.

   Queste però sono le ragioni che valgono per coloro che giudicano secondo una giusta dottrina economica e sociale. Per gli altri debbono valere, perlomeno, i fatti. Quali sono i fatti? Sono quelli, prima di tutto, dello stesso indirizzo della economia sovietica. Il compagno Stalin ha giustamente ricordato, nella sua ulti­ma intervista, che il modo come si sviluppano i piani economici dell'Unione So­vietica e gli obiettivi che il governo sovietico pone a tutto il popolo per la trasfor­mazione della vita economica e della natura sono tali che escludono che un paese il quale lavora concretamente per raggiungere questi obiettivi possa in pari tem­po fare una politica di preparazione alla guerra.

   Si tratta del piano, celebre ormai, di rimboschimento di zone più grandi del­l'Italia intiera: si tratta della costruzione di stazioni idroelettriche come quelle del Volga e di Stalingrado, ciascuna delle quali fornirà in un anno 10 miliardi di chilovattore, come quella del Dniepr con un rendimento di un miliardo e 200 milioni di chilovattore; si tratta della irrigazione di regioni dell'Asia centrale da secoli prive di acqua e deserte e più grandi di tutto il nostro paese; si tratta della irrigazione della parte secca dell'Ucraina meridionale e della Crimea; si tratta della costruzione di canali i quali devono unire due delle più grandi vie d'acqua del­l'Europa, come il Volga e il Don; si tratta di milioni di ettari di terreno che dovranno essere resi fertili; si tratta di piani i quali richiedono l'impegno di tutte le ricchezze del paese, di tutte le energie del popolo; si tratta di piani socialisti, di piani di pace e di rinnovamento del mondo.

   Quando noi sentiamo da una parte venirci l'annuncio di questi lavori, mentre dall'altra sentiamo soltanto voci brutali che reclamano o esaltano l'accrescimento delle forze armate, la costruzione di nuove armi misteriose, il passaggio da un tipo a un altro tipo di bomba sterminatrice, inevitabilmente noi facciamo il con­fronto, anzi invitiamo tutti i cittadini a fare il confronto e a dirci da quale parte è la pace e da quale parte è la guerra, da quale parte è la volontà di salvare la nostra civiltà dalla rovina e da quale parte invece è l'intenzione di spingere il mondo verso una nuova catastrofe.

   Ma i fatti parlano in modo altrettanto eloquente quando passiamo a esaminare le iniziative che sono state prese dall'Unione Sovietica, per distendere la situazio­ne internazionale, per creare una situazione nella quale il pericolo di guerra pos­sa essere considerato per un intiero periodo storico come allontanato. Circa il di­sarmo, quattro volte sono state fatte dal rappresentante dell'Unione Sovietica pro­poste concrete, nel 1946 e nel 1947 di riduzione generale degli armamenti, nel 1948 e nel 1950 di riduzione di un terzo di tutti gli armamenti entro un anno e, in tutti i casi, introducendo un controllo internazionale sulla effettuazione di queste decisioni. Circa le armi atomiche da parte della Unione Sovietica non solo è stato proposto sin dall'inizio il divieto dell'impiego e il divieto di fabbrica­zione di queste armi, ma è stato proposto che questo divieto venisse reso efficace da un rigoroso controllo internazionale, fondato su ispezioni periodiche, da farsi in qualsiasi momento, secondo le decisioni di un organismo internazionale.

   Che cosa è stato risposto a queste proposte dell'Unione Sovietica? Delle pro­poste per il disarmo, la prima è stata annegata in una risoluzione che non signifi­ca nulla, la seconda è stata respinta, le ultime due sono state egualmente boccia­te dalla maggioranza americana dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Alle proposte sovietiche relative alle armi atomiche è stata contrapposta la brillante proposta americana secondo la quale la proprietà di tutte le fabbriche che posso­no elaborare questa energia dovrebbe passare nelle mani di un grande monopo­lio americano, che così assicurerebbe agli Stati Uniti la possibilità di far vivere l'umanità intiera sotto l'incubo dello sterminio.

   Ma andiamo avanti, riferiamoci sempre soltanto ai fatti. Quale posizione è sta­ta assunta dall'Unione Sovietica nel caso concreto di una guerra guerreggiata quale è quella che ha luogo nel momento attuale in Corea? L'Unione Sovietica ha pre­sentato nel mese di luglio e ripresentato poi le proprie proposte, le quali esigeva­no il ritiro delle truppe americane dalla Corea; ma in pari tempo, tutte le volte che sono state presentate proposte di mediazione, il 15 luglio da parte del signor Nehru primo ministro dell'India, il 31 luglio, il 4 ottobre e infine il 15 gennaio di quest'anno, tutte le volte l'Unione Sovietica, benché queste proposte non coin­cidessero con le sue, ma poiché offrivano la possibilità di una fine del conflitto attraverso una equa trattativa cui partecipassero tutte le parti, le ha approvate. Esse sono state ogni volta respinte dalla maggioranza americana dell'Organizza­zione delle Nazioni Unite.

   Arriviamo così al problema di fondo. Ci troviamo di fronte a due linee nella politica mondiale. Una è la linea che è stata presentata dal più grande uomo di Stato che esista oggi nel mondo, dal compagno Stalin, il quale ripetutamente, dal 1946 al 1949, riprendendo e sviluppando il pensiero di Lenin e suo, ha affer­mato e ripetuto che non è soltanto possibile ma è cosa saggia e realizzabile, che convivano senza farsi la guerra regimi diversi, come quello capitalistico che esiste in una parte dell'Europa e negli Stati Uniti, e quello socialista che esiste nell'U­nione Sovietica e verso il quale si muovono i paesi di democrazia popolare. Que­sta posizione è stata affermata dal compagno Stalin, per riferirci solo ai testi prin­cipali degli ultimi anni, nell'intervista con il signor E. Roosevelt nel febbraio del 1947, nell'ottobre del 1947 nell'intervista con il signor Zilliacus, nella lettera al signor Wallace del maggio 1948, in una intervista al signor Kingsbury Smith del gennaio 1949 e infine nelle ultime sue notissime dichiarazioni a un corrispon­dente della Pravda.

   Di fronte a questi fatti, quando noi vediamo non soltanto sui giornali america­ni in lingua italiana che si pubblicano nel nostro paese, ma sulla bocca dei nostri stessi governanti ritornare l'affermazione che l'Unione Sovietica minaccerebbe il mondo intiero di chissà quale aggressione - e ciò mentre da parte dell'uomo che saggiamente dirige l'Unione Sovietica è stato detto, ripetuto, ribadito in tut­te le occasioni che l'Unione Sovietica vede possibile e desidera la convivenza fra regimi di natura sociale opposta - quando ci troviamo di fronte a un fatto simile possiamo solo dire che i nostri governanti mentono, che essi ingannano il popo­lo, e se fanno ciò è perché lavorano agli ordini di imperialisti stranieri, per spin­gerci alla guerra.

   Coerenti del resto con le affermazioni di principio fatte dal compagno Stalin sono state le proposte già avanzate dall'Unione Sovietica all'Organizzazione del­le Nazioni Unite, nel settembre e nell'ottobre del 1950, per sollecitare la stipula­zione di un patto di pace tra le cinque grandi potenze del mondo, di un patto che mentre permetta la diminuzione degli armamenti di tutti, dia ai popoli la sicurezza che essi sono liberi di risolvere i propri problemi e costituirsi il proprio destino senza che nessun imperialismo straniero intervenga a minacciare la loro indipendenza e la loro esistenza.

   A questa conseguente politica e azione di pace dell'Unione Sovietica si contrappone la posizione imperialistica, che è quella in primo luogo dei gruppi diri­genti degli Stati Uniti d'America.

   Essa consiste, prima di tutto, nell'affermazione che il modo di vita americano deve essere esteso in tutto il mondo e che gli Stati Uniti d'America lottano con tutti i mezzi, compresi i mezzi militari, per raggiungere questo scopo. Come si vede, questa è la nuova maschera sotto la quale viene nascosta l'aspirazione e la lotta concreta degli imperialisti americani per il dominio sul mondo intiero.

   Essa consiste, in secondo luogo, nel tentativo dei gruppi dirigenti degli Stati Uniti d'America di uscire dalle loro difficoltà economiche le quali diventano di anno in anno più gravi, intervenendo nella vita di altri paesi, sottoponendo que­sti paesi al loro controllo e dominio economico. Di qui il piano Marshall, di qui le misure dirette a impedire gli scambi tra l'una e l'altra parte dell'Europa, di qui una affannosa corsa all'accumulazione di sempre più favolosi profitti a favore dei capitalisti americani e ai danni di tutti i popoli che vengono assoggettati al loro dominio.

   Essa consiste, infine, nella affermazione mostruosa che ogni progresso sociale, ogni atto il quale stacchi un paese qualunque, in qualsiasi parte del mondo, dal­la tradizionale via del capitalismo, limiti i poteri dei gruppi capitalistici e riduca quindi l'area del dominio dell'imperialismo, pone una questione di pace o di guerra, pone cioè la questione di un intervento armato da parte degli Stati Uniti d'America. Questo è certamente il punto più grave. Qui diventa un abisso l'op­posizione tra le due linee, quella socialista, che è ragionevole, che tiene conto del punto a cui è arrivata l'evoluzione sociale e apre possibilità di pace al mondo intiero, e quella imperialistica, che condanna il mondo intiero a cadere di nuovo nel baratro della guerra. Di qui deriva il precipitare pauroso dei paesi dominati dall'imperialismo americano nell'anticomunismo, che fu il marchio degli hitle­riani e dei fascisti alla vigilia della seconda guerra mondiale. Di qui deriva lo sforzo organizzato per far risorgere, come forza politica e come forza militare, quei gruppi a cui risale la responsabilità di avere scatenato la seconda guerra mondiale; il mi­litarismo tedesco, il militarismo giapponese, la reazione di tipo fascista nel no­stro paese. Per questo si aprono le porte delle prigioni ai criminali di guerra fasci­sti e nazisti; per questo si organizza nelle Nazioni Unite una cosiddetta maggio­ranza, la quale, approvando tutto ciò che è negli interessi dei gruppi dirigenti monopolistici americani, distrugge facendole totalmente cambiare natura, quel­la organizzazione mondiale di stati verso la quale si dirigevano le speranze dei popoli nell'immediato dopoguerra.

   Tutto questo rende senza dubbio più pesante, più dura, la lotta per le necessa­rie trasformazioni sociali e politiche in tutti i paesi. Tutto questo rende reale, concreta, la prospettiva di una guerra di aggressione provocata dai gruppi impe­rialisti americani e dai loro satelliti. Il problema della pace, il problema cioè di opporsi attivamente alla politica di gruppi dominanti dell'imperialismo per sal­vare, fino a che si è in tempo, la pace del mondo attraverso l'azione dei popoli, diventa il problema più importante di tutti, quello da cui dipende la soluzione di tutti gli altri. È partendo da queste costatazioni che nel recente congresso della Federazione comunista milanese, a nome della Direzione del nostro partito di­chiaravo che, riconoscendo la gravità e l'urgenza del compito di salvare la pace del popolo italiano, noi che siamo il più grande partito di opposizione al gover­no attuale della borghesia italiana, siamo disposti a ritirare la nostra opposizione, tanto parlamentare quanto nel paese a un governo il quale, modificando radical­mente la politica estera dell'Italia, cioè sottraendo l'Italia a quegli impegni che la portano in modo inevitabile verso la guerra, impedisca alla nostra patria di es­sere trascinata nel vortice di un nuovo conflitto armato.

   Ci è stato domandato un po' da tutte le parti che cosa voglia significare questa nostra dichiarazione o meglio questa nostra proposta. Ci è stato chiesto di preci­sarne il contenuto. Vi è persino chi, appartenendo a quel campo dell'anticomu­nismo professionale che è in sostanza il campo della irresponsabilità e dell'idio­zia, ha cercato di presentare questa nostra dichiarazione come una specie di abdi­cazione che il nostro partito farebbe a tutti i motivi della propria azione econo­mica e sociale.

   A me sembra invece che il contenuto della dichiarazione che abbiamo fatto sia molto chiaro. Noi diamo in essa il necessario rilievo a un elemento, quello della preparazione della guerra, che è il più grave, il più drammatico, il decisivo.

   Prima di tutto quindi noi affermiamo che se da un governo italiano venisse seguita una linea di condotta la quale portasse a una distensione internazionale facendo uscire il nostro paese dal campo degli imperialisti provocatori di guerra, ciò porterebbe senz'altro a una distensione dei rapporti tra i diversi gruppi politici e sociali. Abbiamo parecchie volte, a partire dal 1949, credo, affermato la ne­cessità di una simile distensione che è necessaria se si vuole effettivamente inizia­re una trasformazione sociale quale è prevista dalla Costituzione repubblicana. Ebbene, affermiamo oggi che condizione prima perché una simile distensione si realizzi è che venga abbandonata l'attuale politica di preparazione alla guerra al seguito dell'imperialismo americano e venga inaugurata una politica di pace.

   Ma questo non basta. Facendo la nostra proposta noi proponiamo di fatto al paese una linea di condotta nuova in tutti i campi dell'azione governativa e non la proponiamo soltanto a favore della classe operaia, ma nell'interesse di tutti i cittadini, nel momento preciso in cui il bisogno di una politica nuova è sentito con particolare acutezza da strati sempre più larghi della nostra popolazione e prima di tutto per evitare una nuova catastrofe nazionale.

   Nel fare questo continuiamo a battere la strada che abbiamo battuto da quan­do il nostro partito è uscito dal periodo - diciamo così - infantile e particolarmente durante l'ultima guerra e dalla fine della guerra in poi.

   Finita la guerra esisteva in Italia grande incertezza e confusione. I gruppi diri­genti della borghesia avevano perduto qualsiasi prestigio; essi infatti avevano portato l'Italia alla rovina. Qualsiasi cittadino era in grado di indicare, segnandoli a dito, concretamente, gli autori della rovina, coloro che avevano stimolato il fascismo, che lo avevano spinto sulla via della tirannide e delle avventure, coloro che aveva­no tratto profitto dalla tirannide e dall'avventura fascista, coloro che avevano col­laborato con l'invasore straniero contro gli interessi e la dignità del paese. E tuttora, del resto, concretamente possono essere indicati a dito molti di questi re­sponsabili che, sotto la protezione del governo di oggi, hanno ripreso a giocare una parte analoga a quella che giocavano sotto la tirannide fascista.

   Dopo la guerra, però, la classe operaia, nella sua grande maggioranza e una parte notevole della opinione pubblica, non operaia, si raccolsero attorno ai par­titi operai avanzati, di ispirazione marxista, e questo distinse la situazione del nostro paese, e così pure la situazione della Francia, da quella di altri paesi del­l'Europa occidentale.

   Di qui i compiti che particolarmente nell'immediato dopoguerra caddero sul­le nostre spalle. Non potevamo limitarci alla propaganda, non potevamo limitar­ci a fare della pura agitazione contro la borghesia reazionaria che cercava, con l'aiuto dello straniero, di riorganizzare il proprio potere. Non potevamo nemme­no presentare una soluzione che fosse lontana dalla realtà del nostro paese e non adatta ad essa, non adatta a quel desiderio di larga unità nazionale che era sorto durante la guerra in tutti gli strati sociali. Non potevamo presentare una soluzio­ne di dittatura proletaria. Di qui la nostra politica, la quale partì dalla afferma­zione della necessità di una profonda trasformazione delle strutture economiche e politiche, ma in pari tempo proclamò la necessità che questa trasformazione venisse raggiunta attraverso una ampia cooperazione di gruppi sociali, di correnti ideologiche e di partiti diversi.

   Di qui la nostra partecipazione al governo e a quella che si volle chiamare la nostra politica nazionale, alle volte tentando di contrapporla a una politica di classe, come se tra le due esistesse un contrasto! No, non esiste contrasto tra una politica nazionale e una politica di classe del partito comunista. La classe operaia esercita una funzione nazionale positiva di guida e non soltanto di critica, nella misura in cui nello sviluppo della sua stessa lotta essa si rende conto di tutti i problemi nazionali, ne presenta la soluzione giusta e lottando per questa solu­zione fa proprie le rivendicazioni anche degli strati più lontani del proletariato purché siano degli strati sani della nazione. La classe operaia esercita una funzio­ne nazionale, poi, nella misura che i gruppi dirigenti della borghesia, chiusi nel loro organismo, spinti da puro spirito di conservazione economica e politica, non riescono più a soddisfare gli interessi di tutti gli strati della popolazione, a realiz­zare il benessere di tutti i cittadini, ma si isolano sempre più dalla massa della popolazione lavoratrice e produttrice. È in queste condizioni che noi proponem­mo a tutti i partiti democratici la ricerca di una via italiana la quale potesse porta­re gradualmente a una trasformazione profonda delle strutture economiche del paese e quindi alla creazione di un regime politico nuovo, in cui il popolo vera­mente fosse padrone dei propri destini e potesse far valere la propria volontà con­tro i vecchi gruppi capitalistici, egoistici ed esclusivi.

   Bisogna riconoscere che oggi le condizioni essenziali della politica da noi pro­posta all'Italia nell'immediato dopoguerra rimangono, anche se le condizioni po­litiche sono diverse. Continua infatti a esistere una crisi profonda di tutta la so­cietà; rimane lo spostamento della classe operaia attorno ai partiti più avanzati, e di ispirazione marxista: rimane, anzi si è rafforzata, l'unità di questi partiti, l'unità del partito comunista e del partito socialista; rimane e si rafforza il presti­gio che questi partiti hanno in tutto il paese.

   E' intervenuto però un elemento nuovo: l'imperialismo straniero. Sono inter­venuti i gruppi monopolistici del capitalismo americano a turbare tutto il proces­so di sviluppo e trasformazione di una democrazia italiana. Sono intervenuti per ridar coraggio ai vecchi gruppi dirigenti della borghesia e hanno trovato in parte negli stessi gruppi ed uomini che furono gli ispiratori del fascismo, in parte in gruppi diversi ma di analogo orientamento reazionario, gli esecutori della loro volontà e dei loro piani.

   Il contrasto intorno a questi, che sono i problemi fondamentali della nostra situazione, è stato particolarmente vivo nel periodo della Costituente e prima del 18 aprile. Vi è stata una lotta abbastanza aspra tra i fautori del programma che noi proponevamo e le forze conservatrici e reazionarie. Questa lotta ha messo ca­po, se si cerca di prescindere dagli elementi contingenti, a due risultati opposti. Da un lato abbiamo una Costituzione nella quale sono scritti principi tali che consentono e anzi prevedono la adozione della linea di trasformazione sociale da noi propugnata. Dall'altra parte vi è stato un altro risultato, il 18 aprile, cioè la rottura aperta del governo e dei partiti governativi borghesi coi partiti della classe operaia, il ritorno all'agitazione e alla propaganda anticomunista come ele­mento fondamentale e direi quasi unico della azione del governo verso il popolo e quindi l'adozione di una linea di aperta conservazione sociale e reazione politi­ca. Come è stato ottenuto questo risultato non occorre ora esaminare. Vi è stata una mobilitazione delle vecchie forze reazionarie che immediatamente dopo la guerra sembravano uscite dalla scena politica, è risorta una parte del fascismo, vi è stato un aperto intervento degli imperialisti stranieri nella nostra vita inter­na, vi è stata una sfacciata violazione di quel Concordato secondo il quale l'auto­rità spirituale non dovrebbe immischiarsi nella lotta politica. Si tratta di vedere che cosa è stato ottenuto sulla base di questo risultato e che cosa è stato fatto di quel rinnovamento sociale che la Costituzione prevede e prescrive.

   Nella campagna del 18 aprile erano state promesse al popolo italiano essenzialmente tre cose: la stabilizzazione della situazione economica, attraverso l'ap­plicazione del Piano Marshall; l'applicazione dei nuovi principi sociali e politici sanciti nella Costituzione, e infine la restaurazione del prestigio del paese tenuto lontano da qualsiasi blocco e particolarmente da un blocco di guerra. Orbene, nessuna delle promesse fatte è stata mantenuta ed è questo il motivo fondamen­tale per cui oggi esiste, anche se non ancora pienamente manifesta, una profon­da crisi politica.

   Secondo il Piano Marshall sono state assegnate all'Italia ingenti somme. Gli americani parlano di più di un miliardo di dollari cioè circa 700 miliardi di lire italiane.

   Ma questa enorme somma a che cosa è servita? E' servita a mascherare in parte, ma solo in parte, le falle del bilancio dello stato, ma non è servita né a operare la riconversione dell'industria di guerra in industria di pace, né a stimolare una ripresa produttiva. Il numero dei disoccupati non è diminuito, anzi proprio que­st'anno è ancora in aumento. Nel nostro apparato produttivo appaiono sempre più manifeste le zone di crisi, e quando appaiono vi è, nel migliore dei casi, un intervento volta per volta a seconda della pressione esercitata dalle masse lavora­trici per difendere il loro pane e la loro esistenza. Il quadro generale è di una stagnazione del nostro apparato produttivo nel suo complesso, il che significa un aggravamento della situazione di quelle regioni italiane nelle quali si erano crea­ti determinati nuclei industriali prima della seconda guerra mondiale. Non a tor­to si è detto che Napoli oggi muore: ma la situazione di Napoli è la situazione di intiere regioni italiane.

   I vecchi contrasti economici e sociali propri della struttura del capitalismo ita­liano si aggravano: si aggrava la questione meridionale; si aggrava la questione sarda, e ciò perché nessuna di queste questioni è stata affrontata in pieno, per nessuna di queste questioni si è fatto tentativo organico di soluzione in un piano di riorganizzazione economica di tutto il paese.

   Nonostante la immissione di una enorme massa di denaro americano, non vi è stata e non vi è né una riduzione dei prezzi, né un aumento del tenore di vita del popolo, anzi, la tendenza è all'aumento dei prezzi e al peggioramento del tenore di vita della popolazione, creandosi di nuovo, come avvenne durante il fascismo, delle zone di forte depressione di questo tenore di vita, sia nella Italia meridionale e insulare, sia in alcune parti dell'Italia settentrionale, oppure dove le fabbriche si chiudono o stanno per chiudersi.

   Succede alle volte che gli stessi americani denuncino questo quadro così oscuro della situazione economica del nostro paese e muovano quindi delle critiche alla direzione della politica economica italiana, cioè al governo stesso e ai suoi uomi­ni più responsabili. A queste critiche prestiamo anche noi l'orecchio e alle volte troviamo che assomigliano alla realtà. Non dobbiamo però nutrire nessuna illu­sione circa le intenzioni di coloro che le fanno. Non dobbiamo dimenticare che gli investimenti di capitali americani sono legati sempre a una lotta di interessi immediati tra diversi gruppi monopolistici. Il sistema però non cambia. Soddi­sfatti questi interessi, le critiche vengono ritirate.

   Il peggioramento della situazione economica del nostro paese è legato prima di tutto non al modo particolare come il denaro americano possa essere stato impiegato da questo o da quel gruppo di industriali; è legato alla struttura stessa di tutto il sistema del Piano Marshall, è legato ai propositi coi quali vengono inviati in Italia i cosiddetti aiuti americani, alle condizioni di questi aiuti e a tutto il modo come, in conseguenza di ciò, è organizzata la vita economica italiana.

   Finita la guerra, ed essendo riusciti a salvare una parte notevole del nostro ap­parato industriale, avevamo bisogno prima di tutto, tanto nell'interesse del Nord quando del Mezzogiorno, di assicurare la vita e lo sviluppo della nostra industria produttrice di macchine. Ma per questo occorreva fossero allargati gli scambi con tutti i paesi che si stanno tuttora industrializzando, come sono l'Unione Sovieti­ca, i paesi di democrazia popolare, la Cina. Ciò non è stato fatto, e non è stato fatto per motivi politici. Sono stati invece orientati i nostri scambi verso paesi di alta industrializzazione, come gli Stati Uniti che cercavano di collocare in Ita­lia la loro produzione industriale per allontanare da sé il pericolo di una crisi. Per impedirci gli scambi che per noi sarebbero stati i più naturali e i più vantag­giosi sono state imposte le famose liste di discriminazione, di cui una segreta, sulla base delle quali è proibito un libero e vasto commercio con quei paesi del­l'Oriente europeo, i quali potrebbero oggi fornirci il grano e tutte le materie pri­me di cui abbiamo bisogno e dare ampiamente da lavorare a tutte le nostre indu­strie di produzione di macchine e di trasformazione.

   Bisogna poi osservare che i famosi aiuti americani sono stati accompagnati da un intervento politico che ha rimesso alla testa della nostra vita economica i vec­chi gruppi monopolistici i quali non potevano assolutamente pensare di servirsi dei soldi americani per rinnovare le nostre strutture economiche, ma unicamente per rafforzare le loro posizioni di privilegio e mettere una barriera a qualsiasi tra­sformazione democratica.

   I gruppi monopolistici italiani, insomma, divenuti più forti di prima, hanno chiuso la strada di quel rinnovamento, che era indispensabile per la riconversione della nostra industria, per assorbire la grande massa dei nostri disoccupati, per far lavorare il più grande numero di fabbriche e dare più benessere a tutto il popolo.

   Oggi però il Piano Marshall, in sostanza, non esiste più. Da esso si è passati, prima alla famigerata integrazione economica europea, dove l'Italia è stata trat­tata come la serva di tutti gli altri, ed oggi all'intervento diretto dei gruppi impe­rialistici americani per trasformare ancora una volta l'economia di pace in econo­mia di guerra. Non è per niente che al posto degli organismi che fino a ieri diri­gevano la ripartizione dei cosiddetti aiuti è subentrato un comitato dove domi­nano i rappresentanti dei più grandi gruppi monopolistici americani, e che con­trolla la distribuzione delle materie prime nei diversi paesi europei, a seconda dei loro piani di militarizzazione. Noi che siamo in Europa il grande paese che maggiormente è privo di materie prime, abbiamo perduto, in questo campo, qual­siasi autonomia e le stesse assegnazioni americane alla economia italiana non ven­gono più fatte anno per anno, ma di tre mesi in tre mesi, a condizione che ven­gano accettate per questo periodo le direttive impartite dagli organi di controllo americani.

   Questo è tutto il contrario di quanto era stato promesso il 18 aprile. Invece che verso una stabilizzazione siamo spinti verso una nuova fase di economia di guerra, con la crisi di intieri settori produttivi, con il conseguente abbassamento del tenore di vita del popolo, con l'accentuarsi della disoccupazione, col dilagare della miseria, con il ritorno aperto al vecchio corporativismo di tipo fascista.

   I produttori italiani sanno assai bene che cosa vuol dire corporativismo. Non vuole dire che lo stato intervenga con una azione direttiva nell'interesse di tutta la nazione, ma che l'apparato dello stato è invece messo al servizio dei gruppi monopolistici, i quali diventano i veri padroni dell'economia del paese e respin­gono fuori del campo produttivo il medio e piccolo produttore. Si inizia in que­sto modo un processo di differenziazione sociale analogo a quello che si ebbe dal 1939 in poi e soprattutto nei primi anni della guerra fascista. Si ritorna indie­tro, alle più dannose forme di organizzazione della vita economica, e questo ri­torno addietro si traduce in un approfondimento di tutte le differenze sociali.

   Non vi è mai stata, nemmeno negli anni più brutti del regime fascista, una così sfacciata contrapposizione del lusso sfrenato di pochi alla indigenza degli uo­mini che vivono del loro lavoro, alla disperazione dei disoccupati, dei pensiona­ti, dei contadini senza terra, di intieri gruppi sociali che si sentono scivolare nella miseria.

   Era necessario, perché si creasse una situazione simile, che al governo d'Italia andasse un partito il quale si dice «democratico» e «cristiano»!

   Circa l'applicazione dei principi della Costituzione, ho già detto qualcosa. E' vero che sono state approvate alcune leggi che non si è osato chiamare leggi agra­rie, ma leggi di «stralcio» cioè di ritaglio, forse perché da una possibile legge agraria si è ritagliato, per seppellirlo, il principio costituzionale del limite della proprietà terriera in tutto il paese e ad esso si è sostituito un tentativo abbastanza meschino di creare nelle campagne nuove differenziazioni, di isolare gli elemen­ti più combattivi e mantenere intatti gli interessi della grande proprietà. Nell'a­gricoltura e nell'industria sta per diventare un delitto, secondo una legge che si vuol proporre alle Camere, l'affermazione del diritto al lavoro. Non parliamo della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, che è sì un diritto sanci­to dalla Costituzione, ma per affermare il quale migliaia di operai oggi affronta­no le persecuzioni dei padroni. Nulla è stato fatto per rompere le situazioni di monopolio della ricchezza esistenti nelle campagne e nelle industrie. Nulla per introdurre nella posizione industriale e agricola un regime nuovo, democratico.

   Circa il prestigio dell'Italia nel mondo, possiamo soltanto costatare che tutte le questioni che all'inizio del 1948 erano ancora da risolvere, relative al nostro paese, sono state risolte contrariamente ai nostri interessi, quelle delle colonie del Mar Rosso, quella dei territori dell'Africa settentrionale, quella degli interes­si degli italiani trasferitisi in questi territori negli anni in cui essi appartenevano all'Italia, quella di Trieste. Dopo aver registrato dappertutto insuccessi e sconfit­te, il nostro governo si è però dichiarato disposto ad appoggiare i piani dell'im­perialismo americano per quello che riguarda il riarmo della Germania e la risur­rezione di un militarismo tedesco. Anche per noi questa è una questione vitale. Il giorno in cui i gruppi militaristici tedeschi avessero ripreso forza, inevitabil­mente si volgerebbero anche contro il nostro paese. Non è senza significato che qualcuno dei pupilli tedeschi degli Stati Uniti d'America già ha parlato persino di un nuovo «Anschluss»4, di una nuova unificazione della Germania e del­l'Austria, ponendo cioè ancora una volta quel problema dell'avvicinamento del militarismo tedesco alle nostre frontiere che fu anche per il fascismo un problema decisivo per gli orientamenti della sua politica in senso antinazionale.

   La questione è che i gruppi reazionari che oggi dirigono l'Italia pongono al di sopra di qualsiasi esame degli interessi e dei problemi nazionali, pongono al di sopra di qualsiasi considerazione della necessità di non acutizzare la situazione internazionale perché di qui potrebbe venire un danno irreparabile, pongono al di sopra di tutto il loro legame criminoso coi gruppi dirigenti della politica impe­rialistica americana. Durante la campagna del 18 aprile alcuni tra gli esponenti degli attuali partiti governativi ancora facevano eco alle nostre domande dicendo che non volevano legare l'Italia a nessun blocco, che intendevano fare una politi­ca di indipendenza e di pace. Poi venne il Patto Atlantico, il quale però fu pro­clamato patto difensivo, patto non militare, patto di funzionamento non auto­matico.

   Ma ora son cadute anche queste maschere; si è passati alla organizzazione degli strumenti concreti della guerra, il Patto Atlantico appare a tutti come patto di guerra, l'esercirò italiano è diventato parte dell'esercito integrato, diretto da un generale americano, ed è per questo esercito che i cittadini italiani sono costretti a fornire allo stato 250 miliardi di lire.

   Desidero ricordare, a questo proposito, che noi non siamo mai stati contro a che l'Italia abbia un esercito. Quando all'Assemblea Costituente ci fu un depu­tato, che credo appartenesse a uno degli attuali partiti americani di lingua italia­na, il quale propose che l'Italia non avesse un esercito, noi ci opponemmo, non votammo quella proposta. Riteniamo che l'Italia, come grande nazione libera e indipendente, ha il diritto e il dovere di avere un esercito. Non siamo affatto per un disarmo unilaterale del nostro paese. Pensiamo però, prima di tutto, che la costruzione dell'esercito italiano deve essere fatta in modo che non porti al fal­limento di qualsiasi piano di ricostruzione economica; pensiamo in secondo luo­go, che l'esercito che oggi viene ricostruito in Italia, data l'adesione al Patto Atlan­tico, dato il carattere che ha questo patto, dato che si tratta di un esercito assog­gettato al comando di un generale americano sin da oggi, cioè prima ancora che si arrivi a una situazione di guerra, dato tutto questo l'esercito che oggi viene ricostituito non è l'esercito di cui l'Italia ha bisogno. Questo non è l'esercito di cui ha bisogno la nostra patria. Noi vogliamo un esercito, ma vogliamo un esercito dell'Italia, e di una Italia indipendente e sovrana, e non una organizzazione al servizio degli Stati Uniti d'America e a loro soggetta.

   Non è stata ancora decisa dai due rami del Parlamento l'assegnazione di 250 miliardi per la organizzazione di questo esercito e già veniamo a sapere, ma lo veniamo a sapere leggendo fra le righe di giornali americani che si pubblicano a Roma in lingua italiana, che lo stato maggiore americano richiede con urgenza che l'Italia spenda il doppio di quello che non ha ancora deciso di inscrivere nel suo bilancio, perché solo a questa condizione la posizione italiana verrà accettata dallo stato maggiore americano. I 250 miliardi sono, per gli americani, «incom­prensibili». Ne vogliono 500 e il più rapidamente che sia possibile! Siamo così minacciati di vederci buttare addosso un peso doppio e tutto questo non nell'in­teresse dell'Italia, ma di una macchina militare straniera.

   In tutti i campi che abbiamo preso a esaminare, l'attività svolta dai governi che si sono succeduti dal 1947-48 in poi è andata contro non soltanto le promesse che erano state fatte, ma contro gli interessi e l'animo del popolo italiano. Que­sto ci fa capire perché le attuali classi dirigenti e il loro governo hanno compiuto in questi ultimi anni un tentativo cosi sfacciato di spingere indietro le forze po­polari, di far loro paura, di dividerle, di disorganizzarle. I fatti sono noti a tutti. Si va dal tentativo di assassinio del dirigente del partito comunista, sino alla scis­sione dei sindacati, dalle scissioni organizzate nei partiti operai da intriganti e agenti di potenze oscure fino all'azione continua del governo e dei suoi funzio­nari per tentare di disgregare il movimento operaio e la sua parte più avanzata, ricorrendo alla violenza, alla corruzione, alla discriminazione, all'utilizzazione di spregevoli rinnegati, alle persecuzioni sistematiche.

   Permettetemi di dare a questo proposito alcuni dati impressionanti. Si tratta di dati che si riferiscono al 1948, al 1949 e alla prima metà del 1950. In questo periodo sono caduti, uccisi in conflitto con le forze di polizia oppure di squadre di agrari o fascisti 62 lavoratori, di cui 48 comunisti. Credo non esista nessun pe­riodo della storia d'Italia nel quale si possa presentare un bilancio così nero, escluso forse il periodo della guerra civile fascista più aspra. Negli stessi anni sono stati feriti 3.126 lavoratori di cui 2.367 comunisti; sono stati arrestati e rinviati a processo per presunti motivi politici 92.169 lavoratori di cui 73.780 comunisti; sono stati condannati a pene varie 19.306 lavoratori di cui 15.429 comunisti; sono sta­ti assegnati 8.441 anni di carcere di cui 7.598 a comunisti; sono attualmente de­tenuti 1.105 lavoratori di cui la maggioranza comunisti. E' un bilancio che ricor­da quello dei primi anni della tirannide fascista, con una differenza però, che non posso non rilevare. Il fascismo allora, nel 1927-28-29, aveva concentrato le proprie persecuzioni contro i dirigenti del nostro movimento. Le centinaia e mi­gliaia di arrestati e condannati erano gli organizzatori delle nostre formazioni clan­destine; oggi, ci sono pure dei dirigenti tra i colpiti, ma vi è, in pari tempo, una parte notevole della massa dirigente dei lavoratori. Ci troviamo di fronte a un tentativo di rendere le persecuzioni più efficaci allargandone l'influenza. Ma io credo di poter affermare, interpretando l'animo vostro, di tutti gli iscritti al no­stro partito, di tutti gli operai socialisti e comunisti, di tutti i lavoratori che han­no una coscienza di classe e una coscienza politica a qualunque partito apparten­gano, che se l'attacco dei fascisti fallì per la resistenza tenace opposta da quella piccola minoranza che erano allora i nostri dirigenti, nazionali e locali, l'attacco odierno fallirà in modo anche più evidente, per la resistenza di tutta la massa lavoratrice, di tutti i lavoratori che ci sostengono e che ci seguono.

   È evidente che queste persecuzioni sono possibili solo attraverso la violazione continua della Costituzione e delle leggi della Repubblica da parte dei funziona­ri del governo. Vi possono essere alcuni casi di reati commessi a causa di manife­stazioni diverse; questi casi non si discutono. Nella grande maggioranza, però, si tratta o di persecuzioni contro partigiani, le quali sono vietate da una legge dello stato, o di cittadini i quali hanno manifestato secondo i diritti che sono garantiti loro dalla Costituzione della Repubblica, oppure di montature e provo­cazioni indegne.

   La Costituzione, ci ha detto uno dei membri dell'attuale governo, è una trap­pola da cui il governo cerca di uscire in tutti i modi e con tutti gli espedienti. Un proposito di violazione continua, permanente della Costituzione penetra tut­ta l'azione governativa. Con colpi di maggioranza gli articoli della Costituzione vengono travisati e calpestati nella lettera e nello spirito. Si è giunti sino al punto di voler annullare quelle poche prerogative che la Costituzione assicura al Presi­dente della Repubblica. Si è giunti al tentativo di annegare e calpestare quei di­ritti rivendicati e ottenuti da regioni come la Sicilia, le quali hanno combattuto per ottenere in uno stato democratico italiano il riconoscimento di particolari libertà ed autonomie, che consentissero loro di sanare le loro piaghe economiche e sociali. Oggi, poiché sono al governo i democristiani, si dovrebbe tornare in­dietro, e la regione siciliana dovrebbe perdere ciò che si è conquistato. Si è giun­ti, mancando per ora il coraggio di restaurare il tribunale fascista, a sottoporre tutti i cittadini, per la manifestazione delle loro idee politiche, al giudizio delle corti marziali. Da un regime fondato sopra una Costituzione democratica stiamo passando ad un regime di arbitrio e di violenza burocratica, contro i cittadini, e alcune leggi oggi proposte tendono, sempre col pretesto della preparazione alla guerra, a dare a questo regime una parvenza di legalità.

   Compagni, quando si precisò, nel 1947, l'inizio di questa politica di discordia civile, di conservazione sociale e di reazione, noi prevedemmo la necessità di una grande lotta popolare per restaurare la democrazia e riaprire la strada all'avanza­ta delle forze popolari. Non so se tutti allora compresero che cosa significava quella nostra affermazione; essa significava che noi prevedevamo una lunga lotta nella quale saremmo stati costretti ad affrontare non soltanto i vecchi gruppi dirigenti reazionari italiani, ma anche i gruppi dirigenti dell'imperialismo internazionale. Prevedevamo quindi una lotta lunga e difficile. Dobbiamo riconoscere che la re­sistenza della classe operaia e del popolo ai tentativi di spingerli indietro fatti dal governo e dai partiti che lo compongono è stata grande, superiore anche al­l'attesa. Vi sono state continue lotte di categoria per il salario e per la difesa dei diritti dei lavoratori nella fabbrica. Vi sono state grandi lotte politiche, manife­stazioni, scioperi, per affermare la necessità che venissero rispettati i diritti de­mocratici scritti nella Costituzione repubblicana. Vi è stata poi, soprattutto, una grande azione dei lavoratori italiani per rivendicare e difendere il loro diritto al lavoro. Anche questa è stata una lotta politica. Il diritto al lavoro infatti è scritto nella nostra Costituzione come uno dei diritti fondamentali del cittadino. Que­sto diritto al lavoro ha però dovuto essere difeso fabbrica per fabbrica, campo per campo, strada per strada, borgata per borgata, dagli operai, dai braccianti, dai contadini, dai lavoratori di tutte le categorie. E' stata una lotta commovente, che ha interessato milioni e milioni di donne e di uomini, che ha lasciato tracce profonde nella coscienza del popolo. È vero, questa lotta ha avuto all'inizio e tuttora ha spesso un carattere frammentario, occasionale, puramente difensivo. Ad un certo momento, però, la grande organizzazione unitaria dei lavoratori ita­liani, la CGIL, rendendosi conto delle esigenze di questa lotta, ha formulato il suo piano del lavoro, contrapponendo così, alla politica economica dei vecchi gruppi dirigenti capitalistici, l'inizio di una politica economica che soddisfi l'inte­resse dei lavoratori e di tutti i cittadini, e quindi anche delle categorie non mono­polistiche di produttori.

   Questa iniziativa confederale ha dato una spinta nuova alla lotta del popolo per il proprio benessere, per il proprio pane; ha dato un prestigio nuovo alla clas­se operaia; ha costretto molti uomini anche non appartenenti alla classe operaia e ai suoi partiti a riflettere sul presente e sull'avvenire del paese, a cercare se non sia effettivamente necessario e possibile trovare un accordo fra tutti gli uomini di buona volontà che ci sono in Italia e che sentono la necessità di trasformazioni sociali nell'interesse del lavoro. Noi riconosciamo che l'avere formulato e propo­sto il Piano del lavoro e iniziato una lotta per l'attuazione di esso è un grande merito della CGIL. Questa iniziativa ha portato la CGIL in primo piano tra le glandi organizzazioni di lavoratori, le quali vogliono combattere non soltanto per la rivendicazione immediata del pane quotidiano, ma per realizzare trasformazioni sociali che assicurino in modo permanente il benessere della nazione.

   La rivendicazione di un Piano del lavoro non poteva non suscitare nuove ini­ziative, azioni e lotte nelle regioni meridionali e nelle isole allo scopo di sottoli­neare ancora una volta che la rinascita di queste regioni è legata ad una trasformazione profonda di tutte le strutture economiche e sociali, a una riorganizza­zione dell'industria nazionale, a una lotta efficace contro i gruppi monopolistici, all'attuazione di una riforma agraria estesa a tutto il paese.

   Questa indicazione è stata data agli italiani e a noi in particolare da Antonio Gramsci, sulla base di una analisi attenta delle forze motrici della rivoluzione in Italia. La classe operaia italiana - ci ha detto Gramsci - deve trovare ed ha i suoi alleati nelle popolazioni delle regioni arretrate, anche se esse non sono po­polazioni di proletari ma di contadini, di piccoli e medi borghesi, di intellettuali che soffrono per la struttura economica reazionaria che grava sopra di loro. Que­ste parole di Gramsci hanno trovato un inizio di attuazione nelle lotte condotte da un lato per il Piano del lavoro nel campo industriale, dall'altro lato, e in stret­ta unione, per la rinascita delle regioni meridionali e delle isole.

   Si è costituito in questo modo un vasto fronte di operai, di contadini, di im­piegati, di piccola e media borghesia di campagna e di intellettuali, un vasto fronte di cittadini, i quali sentono che è necessario modificare profondamente la situa­zione sociale esistente oggi in Italia se si vuol salvare l'avvenire del paese, se si vuol porre il paese sopra una via che sia effettivamente di libertà, di benessere e di progresso.

   Un notevole movimento democratico si è dunque già sviluppato. Costatiamo però che esso è stato sino ad ora insufficiente per modificare la situazione politica in modo radicale, cioè per cambiare l'attuale direzione politica. Per questo ci tro­viamo oggi in modo così acuto di fronte al problema della guerra. Per questo avanziamo la nostra proposta di una politica di pace, convinti che questa è la via della salvezza per tutti gli italiani.

   L'Italia non è minacciata da nessuno. Coloro i quali dicono che l'Italia sarebbe minacciata dall'Unione Sovietica o dai paesi di democrazia popolare, costoro men­tono. Se non mentono, ci diano le prove di questa minaccia che sarebbe rivolta contro di noi e che imporrebbe all'Italia la politica di guerra che essi stanno se­guendo.

   Ma si può dire di più: ammesso che ci possano essere, se non delle minacce, delle situazioni gravi, oggi o nel futuro, il dovere dei governanti italiani non è già di spingere verso la guerra, ma di garantire con mezzi adeguati e di pace la sicurezza del paese. Questi mezzi adeguati esistono. Essi sono, anzitutto, l'im­piego di quegli strumenti politici e diplomatici che sempre sono stati adoperati dai paesi che vogliono garantire con mezzi pacifici la propria sicurezza e sovrani­tà: essi sono, poi, lo stabilimento di relazioni economiche le quali creino una interdipendenza tra l'Italia e i paesi che stanno ad oriente, tra l'Italia, l'Unione Sovietica, la Cina, gli Stati di democrazia popolare, in modo che attraverso que­sta interdipendenza, favorevole a noi e alla nostra ripresa economica, si crei e si rafforzi la impossibilità di conflitti tra l'Italia e questi paesi.

   Una tale politica di pace è possibile. Essa richiede però che l'Italia esca dal Pat­to Atlantico, che l'Italia rompa gli impegni che la legano a una organizzazione politica e militare di aggressione contro l'Unione Sovietica e contro i paesi di democrazia popolare, che l'Italia rompa qualsiasi solidarietà con coloro che condu­cono la guerra contro il popolo della Corea e contro il popolo cinese.

   A coloro che ci dicono che noi vorremmo, dunque, la «neutralità» dell'Italia e che questo non si addice a un paese come il nostro, rispondiamo che il termine non è esatto. La rivendicazione della neutralità vale quando vi è una guerra di­chiarata. Nel momento che fosse scoppiata una guerra in Europa e noi avessimo il tempo di riflettere, posto che gli impegni già presi dal governo non ci trasci­nassero nella guerra automaticamente, non v'è dubbio che la grande maggioran­za non solo degli italiani ma probabilmente anche degli uomini politici ragione­voli sarebbe per la neutralità. Il problema però non si pone oggi in questi termini e non sappiamo come si porrà in futuro. Siamo ancora separati da un certo perio­do di tempo, che auguro il più lungo possibile, da una simile situazione. Occorre dunque usare un altro termine, e il termine giusto, il termine che noi usiamo, ciò che noi rivendichiamo per il nostro paese è una politica non di neutralità, ma di indipendenza dell'Italia, di indipendenza della nostra patria da chiunque voglia intervenire nella nostra vita interna a imporci obblighi internazionali con­trari al nostro interesse, indipendenza da chiunque voglia sottoporre la nostra eco­nomia e la nostra vita politica ai suoi interessi e a quelli di un imperialismo stra­niero. Pace e indipendenza; ecco ciò che noi rivendichiamo, ecco ciò che ci salva dalla guerra e per cui, quindi, possono unirsi e lottare tutti i buoni cittadini.

   Ma è possibile creare in Italia uno schieramento di forze politiche tali per cui queste rivendicazioni possano essere attuate, modificandosi radicalmente lo indi­rizzo della politica estera del governo attuale? Se si guardasse soltanto in alto e all'esteriorità potrebbe anche sembrare che noi siamo degli utopisti, che le nostre rivendicazioni sono destinate a cadere nel vuoto. Attorno al governo attuale e al suo gruppo dirigente e reazionario sembra si mantenga unito un certo blocco di forze. D'altra parte mancano oggi determinate formazioni politiche, dalle quali si potrebbe sperare una politica nuova indipendente. Manca, per esempio, un movimento cattolico progressivo. Il movimento politico cattolico sembra oggi di­ventato tutto reazionario o per lo meno conservatore. Le vecchie tradizioni de­mocratiche sono abbandonate. Manca pure un movimento liberale e questo è forse più difficile averlo che non il precedente. Un movimento veramente liberale c'è stato tra di noi per un brevissimo periodo di tempo, per quei pochi anni in cui Giovanni Giolitti riuscì a introdurre in certi campi un certo costume di democra­zia; ma lo stesso Giolitti capitolò ben presto di fronte alle forze che lo spingeva­no ad avventure reazionarie e di guerra. Da allora, ogni volta che dei liberali si fanno avanti, sembra lo facciano per contraddire il liberalismo. Quando il peri­colo fascista era imminente i liberali furono in sostanza precursori del fascismo; oggi si ha l'impressione che siano i precursori di un nuovo regime di reazione ancor più aperto di quanto non sia il regime attuale. Sono quindi assenti le co­siddette «terze forze» e non parlo dei socialdemocratici, perché non si dica che voglio intervenire in quel così laborioso processo non so se di unificazione o di nuove scissioni che si sta compiendo in questo momento in un altro teatro citta­dino. Ma perché non esistono queste «terze forze»? Perché mancano i movimenti progressivi che pur non essendo né socialisti, né comunisti, aprano tuttavia la pos­sibilità di una politica più ragionevole di quella che è stata fatta dal governo at­tuale? Questo avviene perché l'anticomunismo è accettato da troppi come fonda­mento della loro posizione politica. Una volta accettato questo, tutte le strade son chiuse. L'anticomunismo in quanto lotta contro di noi, non ci interessa poi nemmeno troppo. Ne abbiamo sentite tante, tante campagne di calunnie, tante infamie sono state lanciate contro di noi e ciò nonostante siamo andati e andia­mo avanti lo stesso, che davvero potremmo persino fare a meno di parlarne. Non si tratta però di noi e non è contro di noi che l'anticomunismo è efficace, bensì come strumento di cui il partito dominante si serve per paralizzare qualsiasi mo­vimento o tentativo che si opponga allo stato di cose attuale, per impedire qual­siasi critica, per soffocare qualsiasi richiesta anche della più evidente e ragionevole correzione del corso presente. È ridicolo che uomini politici di rilievo si presen­tino con la pretesa di voler dare un nuovo indirizzo alla vita politica e quando aprono bocca non possano fare a meno di denunciare come scandalo più grave il fatto che la nostra difesa del lavoro e della pace sarebbe fatta... negli interessi di Mosca. Chi si esprime a questo modo dimostra soltanto di non essersi ancora saputo liberare dal giogo ideale del fascismo e di essere solidamente tenuto dal guinzaglio clericale.

   Sta qui uno dei motivi per cui la ricerca di una nuova vita per la soluzione dei nostri problemi politici si svolge in modo così tortuoso e paradossale. Il risul­tato sarà che le cose verranno alla luce più tardi, in forma impreveduta. A noi importa che non vengano alla luce troppo tardi, quando non si possa più ripara­re. Per questo è nostro dovere aiutare tutte quelle forze le quali tendono a rom­pere il monopolio politico del partito della democrazia cristiana. A questo scopo e seguendo questo orientamento ci muoveremo nella prossima lotta elettorale, se una lotta elettorale vi sarà. Secondo questo criterio giudicheremo i risultati del congresso socialdemocratico.

   I compagni socialisti hanno preso in proposito una posizione interessante, che noi comprendiamo, perché apre la via all'incontro di forze popolari in modo nuovo. Ma le elezioni non sono che un episodio. Il movimento di cui l'Italia ha bisogno deve essere un movimento delle grandi masse del popolo, a qualunque partito, a qualunque gruppo sociale appartengano, per la salvezza della pace. Anche i cittadini oggi più lontani da noi possono e debbono essere attirati al lavoro per questa causa. Si muovono in questa direzione i partigiani della pace; questo è il loro compito. Il partito comunista darà loro tutti gli aiuti che è in grado di dare. Particolarmente noi siamo favorevoli alla nuova grande iniziativa dei parti­giani della pace di organizzare un pronunciamento di forze popolari per la con­clusione tra le cinque grandi potenze di un patto che salvi la pace per un intiero periodo storico. Non credo vi possano essere cittadini italiani amanti della loro patria che rifiutino la loro adesione a questa iniziativa che nelle Assemblee parla­mentari ha già avuto una notevole ripercussione. La volontà di pace liberamente espressa da milioni di donne e di uomini non potrà non contare in modo sempre più grande sui destini della nazione.

   Ma per allontanare dall'Italia il pericolo di guerra, per attuare la nostra propo­sta, è necessario che indirizziamo la parola e l'azione nostra nel modo più largo alle classi sociali che hanno nel paese una importanza decisiva, e prima di tutto agli operai. Gli operai hanno avuto una parte di primo piano nell'azione per li­berarci dalla tirannide fascista, nella lotta di liberazione, nella lotta per la demo­crazia. Una parte di primo piano ha avuto la loro unità. Occorre che questa unità sia difesa e rafforzata, e noi ci proponiamo di difenderla e rafforzarla, non soltanto rafforzando il nostro partito, non soltanto stringendo di più i legami che ci uniscono al partito socialista, ma rivolgendoci agli operai di tutte le tendenze, non comunisti, non socialisti, ma cattolici, repubblicani, iscritti a organizzazioni sindacali diverse dalla Confederazione generale italiana del lavoro, seguaci di al­tri partiti. Ci rivolgiamo a tutti gli operai, a tutti diciamo che è necessario oggi concentrare la attenzione sulla questione del loro salario, così come è necessario concentrare l'attenzione sulla questione dello stipendio degli impiegati dello stato. La lotta per la difesa e l'aumento dei salari e degli stipendi, la lotta per ridurre lo sfruttamento degli operai nella fabbrica si impone oggi a tutti. Qui non vi può essere diversità tra operai di diverse correnti. Allo stesso modo, se si vuole che il lavoro abbia nella vita nazionale la parte che gli spetta, occorre condurre in modo più largo, più ordinato, più efficace, l'azione per l'attuazione di un piano del lavoro, sia esso quello proposto dalla Confederazione generale italiana del lavoro, sia quello che possa uscire da contatti tra le diverse organizzazioni sinda­cali, dalla esperienza delle maestranze di diverse località, dei lavoratori di diverse città e regioni.

   La classe operaia, se le sue forze saranno unite, è in grado di ottenere che l'eco­nomia italiana venga diretta nell'interesse di tutti i lavoratori. Perciò occorre ri­vendicare l'attuazione delle riforme industriale e agraria, di quelle trasformazio­ni di struttura che sono mature nella situazione del paese. Occorre condurre una lotta aperta contro i gruppi monopolistici privilegiati, all'interesse dei quali è oggi subordinata tutta l'economia del paese. Occorre sollecitare l'intervento dello sta­to nella vita economica, non al servizio dei ricchi e dei privilegiati, ma secondo un piano che tenga conto degli interessi dei lavoratori e di tutta la nazione. Oc­corre vengano nazionalizzati i grandi complessi industriali monopolistici. Occorre venga attuata una effettiva riforma agraria, secondo i principi sanciti nella Co­stituzione. Questi sono i compiti per la cui attuazione prima di tutto e con le forze unite deve muoversi la classe operaia, ed essa ha la possibilità, per attuare questo programma, di trovare alleati in tutto il paese e in tutte le classi sociali, tra le popolazioni del Mezzogiorno e delle Isole, nei contadini, nel ceto medio produttivo, che dalla organizzazione di una economia di guerra su basi corpora­tive ha soltanto da temere per la sua stessa esistenza, tra gli intellettuali che resi­stono in massa all'oscurantismo reazionario e clericale.

   Si dirà che le rivendicazioni che presentiamo sono rivendicazioni sociali e so­cialiste, e perciò non conciliabili con la proposta che facciamo di ritirare la nostra opposizione a un governo che faccia una politica di pace. Credo di avere già spie­gato questo punto. Aggiungo che la lotta per il socialismo e la lotta per la pace non si possono disgiungere. Noi riusciremo a strappare l'Italia veramente e defi­nitivamente a qualsiasi politica di provocazione e di preparazione alla guerra, nella misura in cui riusciremo a convincere la maggioranza del popolo della necessità di una profonda trasformazione delle strutture economiche e sociali. Per essere ancora più preciso e concreto affermo che esiste una piattaforma politica per un movimento di difesa della pace e di trasformazione delle strutture economiche e sociali quali noi ci auguriamo e da cui facciamo dipendere il bene d'Italia. Questa piattaforma è la Costituzione della Repubblica italiana. Questa è la piattaforma della politica di pace, di lavoro e di libertà che noi proponiamo a tutta l'Italia. Qui è dichiarato che l'Italia non farà mai una politica di guerra. Qui è affermato il diritto al lavoro, qui è sancito il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro e sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa. Qui son previsti i programmi e i controlli del governo sulla economia per indirizzarla a fini sociali, le misure atte a distruggere le situazioni di monopolio, la partecipazione dei lavoratori alla ge­stione delle imprese, una riforma agraria la quale limiti in tutta l'Italia la esten­sione della proprietà terriera. Qui son proclamate le libertà fondamentali del cit­tadino e, prima di tutto, è garantita ai lavoratori la libertà di condurre una larga azione economica e politica per l'attuazione di quel programma sociale che nella Costituzione stessa è a grandi linee tracciato. Ecco dunque la piattaforma politica che noi proponiamo per la salvezza del paese, per garantire all'Italia pace, lavoro e libertà. Per raggiungere questi obiettivi mettiamo al servizio del popolo italia­no il nostro partito.

   Il nostro partito si presenta a questo congresso con una forza numerica superio­re a quella dell'anno scorso e del congresso precedente. Da tutte le parti si discu­te su questa nostra forza numerica, si cerca di negare che essa esista, ma invano. Perché si cerca di farlo? Perché ci sono persino altissime istanze dell'organizza­zione statale degli Stati Uniti che si occupano di dimostrare che gli iscritti al PCI sarebbero diminuiti di non so quante migliaia? Perché la forza numerica di un partito operaio ha un grande valore politico, ideale, sociale. Essa significa oggi, per noi, la conquista della maggioranza degli operai italiani alle idee e ai fini del socialismo, alla lotta che deve essere condotta per attuare il socialismo nel nostro paese.

   Naturalmente il numero non basta. Già il vecchio Marx, nello scrivere l'Indi­rizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli operai, cioè della I Inter­nazionale, lo diceva: «La classe operaia possiede un elemento del successo, il nu­mero. Ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall'organizza­zione e guidati dalla conoscenza». Tali noi dobbiamo essere: uniti dalla organiz­zazione, guidati dalla conoscenza. Se partendo dalla coscienza di queste esigenze cerchiamo di giudicare la nostra situazione attuale, una critica deve essere fatta subito, ed è che il nostro numero non conta ancora nella vita del paese tutto quello che potrebbe contare. Questo vuol dire che non è abbastanza guidato dalla cono­scenza e non è abbastanza unito dall'organizzazione. Vi sono cioè dei difetti che devono essere scoperti attraverso la critica del partito e corretti attraverso l'azione delle sue istanze dirigenti in tutti i gradi. Abbiamo saputo e potuto fare negli anni scorsi grandi cose: siamo stati, insieme ai compagni socialisti e ai lavoratori avanzati di tutte le tendenze, gli animatori di un grande movimento sindacale; siamo stati nello stesso modo animatori di un grande movimento democratico, di un grande movimento di rivendicazione della pace; siamo gli animatori di un movimento che lotta per un piano del lavoro, per la riforma delle strutture eco­nomiche e sociali del paese. Un movimento simile, però, e specialmente quando si possiede la forza che noi possediamo, quando si è un'organizzazione di due milioni e mezzo di donne, di uomini e di giovani, non può limitarsi in nessun momento a essere pura propaganda, pura agitazione. Ogni volta che ci rinchiu­diamo esclusivamente nella propaganda e nell'agitazione noi sentiamo che ci manca qualcosa, non riusciamo più ad andare avanti come potremmo.

   Le questioni che noi poniamo, i problemi di riforma delle strutture economi­che e sociali, la difesa della libertà e della pace, sono sentiti da milioni e milioni di cittadini italiani all'infuori del nostro partito, lontani dal nostro partito. Vi sono cioè milioni e milioni di cittadini i quali in ogni momento sono disposti a fare qualcosa per migliorare la loro situazione, per attuare una parte di quegli ideali di pace, di libertà, di benessere e di lavoro che sono i nostri ideali. E' neces­sario che il partito sappia trovare questi gruppi di cittadini, stabilire un contatto con essi, dare alla loro aspirazione la forma di movimento organizzato, di lotta condotta per obiettivi precisi. In questo modo il programma di difesa della pace e del lavoro può diventare concretamente programma di un'azione che giorno per giorno venga condotta nella regione, nella città, nella fabbrica, nei porti, nel villaggio, nei campi, dappertutto dove vivono dei cittadini, ai quali si presenta la necessità di migliorare la loro condizione economica e sociale, e i quali sentono il bisogno di migliorare la situazione generale del paese.

   Occorre dire che in questa direzione siamo già riusciti a essere animatori non soltanto di movimenti sindacali, ma anche di movimenti più larghi, in cui si ri­vendicavano misure che intaccavano la politica economica governativa e la strut­tura economica e sociale della città, della zona, della regione. Vi sono organizza­zioni che in questo campo hanno registrato buoni successi, ve ne sono altre che non hanno registrato successi sufficienti. In generale appare più difficile condur­re una lotta simile quando ci si avvicina ai grandi centri industriali, dove tutte le questioni della riforma della struttura economica e sociale si presentano con maggiore acutezza, perché ivi si trovano i gangli più importanti della vita econo­mica ed ivi è quindi necessario condurre l'azione con particolare abilità e intelli­genza e con forme di organizzazione nuove. In questa direzione è necessario che noi spingiamo avanti l'azione del nostro partito, perché questa è la direzione nella quale lavorando riusciremo a far progredire sempre meglio il movimento di tutto il popolo per la pace, per la libertà e per il lavoro. Naturalmente sarebbe un as­surdo se dicessimo che in questo modo possiamo riuscire a svolgere una azione di direzione economica senza essere al governo. No, questo non è possibile. Pos­siamo però riuscire a dimostrare che la classe operaia, attraverso i suoi partiti, ha la capacità di comprendere le questioni che stanno a cuore di tutti i cittadini e di impostarne la soluzione meglio di quanto non facciano i partiti e i gruppi che oggi sono al governo. Così riusciremo a conquistare stabilmente la maggioranza degli operai e la maggioranza del popolo al partito di avanguardia dei lavoratori.

   Cosa occorre per riuscire a fare questo? A questo proposito altri compagni in­terverranno illustrando particolarmente le questioni di organizzazione che sono oggi più acute. Occorre che tutte le nostre forze vengano utilizzate, e utilizzate bene. Per utilizzare bene le nostre forze occorre far lavorare tutti i compagni; per far lavorare tutti i compagni occorre avere un grande numero di quadri dirigenti, occorre conoscere le organizzazioni di massa che esistono attorno a noi e saper svolgere un lavoro adatto alle condizioni di esistenza di tutte queste organizzazioni. Tutto questo dovrà essere studiato con attenzione. Ho visto che nei documenti che vengono distribuiti si dice che il numero dei nostri quadri dirigenti è molto aumentato: ho raccolto la cifra di 360 mila compagni cui potrebbe essere attri­buita la qualifica di dirigenti di un settore più o meno largo del partito o di una massa. In questa direzione approfondiamo le ricerche; intensifichiamo il lavoro. Ma tutto questo non basta. Nessuna abilità organizzativa potrà permetterci di utilizzare a fondo la forza del nostro partito se nel partito non esisterà una gran­de chiarezza ideologica e politica; e se non esisterà, sulla base di questa chiarezza ideologica e politica, una vera unità di tutto il partito; unità che non deve stare e non sta soltanto nel fatto che si approvino le stesse risoluzioni, si battano le mani agli stessi uomini, si vada alle stesse manifestazioni, ma che si sia profonda­mente convinti della giustezza e necessità di una linea politica e quindi si sappia che cosa deve essere fatto per attuarla.

   È necessario che noi sappiamo sempre che abbiamo un nemico da combattere. Il nemico è l'imperialismo con i suoi uomini e agenti nel nostro paese, il nemico è la borghesia reazionaria: contro di esso dirigiamo il fuoco, per smascherarlo, per isolarlo, per muovere contro di esso la grande maggioranza del popolo. In secondo luogo bisogna essere convinti che nella lotta contro l'imperialismo e la borghesia reazionaria possiamo conquistare la maggioranza del popolo; ma per questo è necessaria sempre non soltanto una propaganda, non soltanto una agi­tazione, ma una azione concreta la quale affronti tutte le questioni che stanno a cuore dei lavoratori e le affronti con proposte ragionevoli, giuste, e organizzi una lotta per la realizzazione di esse.

   Dove si raggiunge, compagni, questa chiarezza e unità ideologica e politica del partito? Essa si raggiunge prima di tutto nell'assemblea di partito, si raggiun­ge poi nelle riunioni degli organi direttivi del partito, infine nelle loro decisioni, nel controllo dell'esecuzione di queste decisioni, nella vigilanza continua contro il nemico.

   Su questi punti spero che concentrerete la vostra attenzione, perché qui esisto­no grandi lacune da colmare. L'assemblea del partito deve essere un organo di discussione per il chiarimento e l'approfondimento della politica del partito, per la fissazione dei suoi compiti, per la mobilitazione di tutte le coscienze e di tutte le forze che ci sono nel partito allo scopo di raggiungere i nostri obiettivi. Dove l'assemblea del partito non funziona, il partito si burocratizza e può degenerare. Allo stesso modo le riunioni degli organismi direttivi devono essere animate di vita politica, perché questa è la condizione per l'approvazione di decisioni giuste e per una buona attività direttiva.

   Su queste esigenze vi invito a riflettere, così come rifletterete sulla linea politi­ca proposta e sulle altre questioni di organizzazione che usciranno dai dibattiti del congresso e dalla soluzione delle quali possiamo attenderci un nuovo passo in avanti di tutta la nostra organizzazione, di tutta la nostra attività.

   Compagni, termino. Sono trenta anni che abbiamo fondato il nostro partito. Abbiamo celebrato questa ricorrenza con entusiasmo, con gioia. La maggior par­te di noi ricordano il punto da cui siamo partiti; ricordano la durezza del cammi­no percorso; ricordano che cosa è costato di sacrificio, di lavoro, di slancio, ciò che noi abbiamo fatto, ciò che siamo riusciti a creare. Per questo abbiamo celebrato il nostro trentennio con entusiasmo, con gioia. Ma io vorrei aggiungere che l'abbiamo celebrato anche con un certo tono beffardo all'indirizzo di coloro i quali vorrebbero o farci paura con delle minacce, o farci la lezione. Non si fa paura con delle minacce a un organismo come il nostro. Quanto a quelli che vor­rebbero farci la lezione, siamo disposti a discutere con tutti e da tutti possiamo imparare qualcosa. Sappiamo però che la maggior parte di coloro che oggi si avan­zano per farci la lezione e vorrebbero insegnarci, - guarda un po' - a essere democratici, anzi «buoni» democratici, come essi dicono, non li abbiamo cono­sciuti quando si trattava di lavorare, combattere, lottare, cadere nella lotta per la democrazia. Non li abbiamo conosciuti. Molti, anzi, erano dall'altra parte della barricata, buoni servitori del fascismo come oggi lo sono della Democrazia cristiana. La causa della democrazia e del socialismo, per cui noi combattiamo, sem­brava veramente che fosse perduta, nel nostro paese, per lo meno per un lungo periodo di tempo. Eppure siamo andati avanti e proprio in quegli anni abbiamo reso il nostro lavoro più intenso, abbiamo lottato di più, abbiamo sacrificato di più per la nostra causa.

   Nel 1921, quando siamo sorti, vi era in noi, fondatori del partito, una grande sicurezza nell'avvenire. Quella sicurezza era allora essenzialmente un fatto di fe­de e di dottrina. Avevamo fede nelle nostre idee; sapevamo in quale direzione vanno le lotte sociali, a che cosa porta nel mondo moderno lo sviluppo di queste lotte. Per questo eravamo sicuri della fortuna del nostro partito.

   Oggi direi che la sicurezza nel futuro del nostro partito, nel suo successo im­mancabile non è più soltanto un fatto di fede e di dottrina, perché scende anche dalla esperienza, dalla coscienza acquistata nell'azione che quando un partito è capace di stabilire legami solidi, infrangibili, con la classe operaia da cui è uscito, esso non può mancare di svilupparsi, di saper resistere a qualsiasi attacco, di vin­cere qualsiasi nemico.

   Il partito si sviluppa e rafforza quando sa lavorare non soltanto per chiusi inte­ressi di organizzazione e di gruppo, ma per gli interessi di tutta la classe operaia, di tutto il popolo, di tutta la nazione.

   Abbiamo cominciato a essere un partito serio e siamo diventati un grande par­tito quando ci siamo messi per questa strada: al tempo dell'Aventino, con il no­stro appello alla unità di lotta degli antifascisti per respingere la barbarie fascista, allora ancora agli inizi; nel periodo successivo, quando abbiamo contrapposto al programma di tirannide e di guerra del fascismo un programma di libertà, di democrazia e di pace; e poi durante la guerra per liberare l'Italia da un invasore straniero. Oggi andiamo avanti per la stessa strada. Oggi l'Italia ha bisogno pri­ma di tutto, essenzialmente, di pace. Ebbene, noi, che siamo una forza di pace, ci dichiariamo disposti a fare tutto ciò che è necessario per salvare la pace del po­polo, poniamo questo obiettivo al disopra di tutto, subordiniamo alla lotta per la pace tutta l'attività del nostro partito.

   Salviamo la pace del popolo italiano; saremo certi, in questo modo, di aver fatto del nostro partito la più grande forza politica d'Italia, la forza politica a cui spetterà domani il governo del nostro paese.

   Evviva il Partito comunista italiano! Evviva l'Italia democratica! Evviva la pace del popolo italiano! Con queste parole apriamo, con queste parole conduciamo avanti i lavori del nostro congresso!


Note


[1] La ricostituzione della FGCI fu decisa dal Comitato centrale del PCI nella riunione del 25-31 marzo 1949. Durante e subito dopo la Resistenza i giovani comunisti parteciparono al Fronte della Gioventù che raccoglieva tutti i movimenti giovanili democratici. Nel 1948, spezzatasi la politica di unità nazionale, la gioventù comuni­sta entrò nelle «Avanguardie garibaldine» che operarono nell'ambito del Fronte democratico popolare e che ne seguirono la sorte.
[2] Il ministro degli esteri era allora Carlo Sforza.
[3] Miklós Horthy (1868-1957) soffocatore della rivoluzione ungherese diretta da Béla Kun nel 1919. dittatore e alleato dei nazisti sino al 1944 quando tentò un armistizio separato con I'URSS, per cui fu deportato in Germania. Riparò in Portogallo nel dopoguerra. Josef Pilsudski (1867-1935), nazionalista polacco, fu presidente e capo delle forze armate nella guerra russo­-polacca del 1919-1920, poi dittatore in seguito a un colpo di stato dal 1926.