Il ruolo del Partito comunista nella storia d'Italia

4
I comunisti
nella clandestinità

Premessa

Le questioni strategiche poste al Congresso di Lione del gennaio 1926 dovettero misurarsi dopo pochi mesi con la svolta impressa da Mussolini con l'approvazione delle leggi speciali che mettevano fuori legge tutte le organizzazioni non fasciste e gli organi di stampa non allineati, chiudevano il parlamento e revocavano l'immunità parlamentare per i deputati dell'opposizione.

   In seguito a uno strano attentato subito da Mussolini nel corso di una visita a Bologna fu linciato un giovane poco più che quindicenne, Anteo Zamboni, che sarebbe stato responsabile di aver sparato un colpo di pistola contro il duce del fascismo. La dinamica dell'attentato era molto dubbia, ma fornì il pretesto per le misure liberticide che immediatamente seguirono. Il 6 novembre entrarono in vigore le leggi eccezionali.

   L'unica scelta che un partito comunista doveva fare in quelle circostanze era organizzare la clandestinità delle proprie strutture e riprendere il lavoro politico nella totale illegalità. Ed è quello che il partito fece, diversamente dalle scelte che caratterizzarono invece i partiti dell'Aventino, i cui dirigenti si ritrovarono a Parigi in attesa che gli avvenimenti consentissero il ritorno in Italia.

   In realtà erano anni che i comunisti lavoravano in clandestinità per far fronte alla repressione mussoliniana e alle azioni squadriste. Questo avveniva a partire dal 1922, da quando cioè Mussolini era stato chiamato al governo dal re con il consenso dei militari, della borghesia, degli agrari e del Vaticano.

   Nel novembre 1926, al momento del varo delle leggi eccezionali, tutte le strutture del partito erano di fatto in clandestinità ad eccezione del gruppo parlamentare, del centro editoriale di Milano, il SEUM, che fungeva da collegamento, e dei giornali di partito, L'UNITA' in particolare, che a stento riuscivano a sopravvivere ai sequestri e alle censure. Tutto il resto del lavoro del partito veniva svolto in maniera più che clandestina, ma la polizia controllava i movimenti e ogni qualvolta riusciva a scoprire il luogo degli incontri procedeva agli arresti e alle denunce per cospirazione contro i poteri dello stato. Migliaia di compagni, compresi i dirigenti, si ritrovavano così in galera. Solo che il capo di imputazione non sussisteva, in quanto non si potevano tenere in galera persone che appartenevano a un partito che aveva rappresentanza in parlamento e non era stato messo fuorilegge. Dopo mesi di carcere in attesa di processo, la magistratura era perciò costretta a liberare gli arrestati, ma comunque gli arresti comportavano un grosso danno per l'operatività del partito.

   Con il varo delle leggi eccezionali la musica cambia. Il partito non è più legale, l'immunità parlamentare è revocata e viene istituito il tribunale speciale per la difesa dello stato. Ciò consente a Mussolini di fare una prima grossa retata arrestando Gramsci e altri dirigenti centrali e periferici del partito. E questa volta le condanne sono assicurate dalle nuove leggi e non ci sarà scarcerazione.

   Al famoso 'processone', la cui sentenza viene emanata il 4 giugno 1928, con gli imputati in stato di detenzione, le condanne principali riguardano Terracini, 22 anni, 9 mesi, 5 giorni, e Gramsci, Scoccimarro e Roveda, 20 anni, 4 mesi e 5 giorni [qui].

   Il partito nato a Livorno e legato ai 21 punti previsti per l'adesione all'Internazionale è però un partito ormai temprato a reggere la nuova drammatica svolta, avendo già attraversato l'attacco squadristico delle camicie nere, la repressione poliziesca dopo il 1922 e la clandestinità di fatto fino alle leggi speciali del novembre 1926.

   Sono gli stessi giudici e poliziotti che istruiscono i processi ai comunisti che si preoccupano di evidenziarne il carattere. In una lettera [qui] inviata il 4 febbraio 1927, cioè poco dopo le retate, dalla direzione della PS all'avvocato militare presso il tribunale del corpo d'armata territoriale di Milano, si può leggere:

   "L'organizzazione del partito comunista italiano differisce profondamente da quella di tutti gli altri partiti politici sia per la struttura che per le finalità che persegue.
   Bisogna premettere che il PCI è una sezione dell'internazionale comunista ed obbedisce a precise norme fissate nei congressi annuali dell'Internazionale e la cui esecuzione è demandata al comitato esecutivo sedente a Mosca".


   A seguito di questa lettera il giudice istruttore militare del tribunale speciale per la difesa dello stato, Enrico Macis, per definire meglio i capi di imputazione al 'processone' che si concluderà nel giugno 1928, chiede ulteriori informazioni a tutte le Questure e ai comandi dei regi carabinieri [qui]. Suo malgrado, pur a sostegno dell'incriminazione, la lettera rende omaggio ai comunisti e fornisce un quadro vivido del ruolo che da tempo il Partito comunista sta svolgendo con la sua "...continua propaganda nelle fabbriche ... intensa propaganda tra i contadini ... diuturna propaganda nelle file delle forze armate per incitare i militari ad infrangere i doveri di disciplina".

   Queste erano dunque le caratteristiche del partito uscito dal congresso di Lione e che entrava nella clandestinità. Ma come affrontava la nuova situazione e con quale esperienza?

   Ercoli (Palmiro Togliatti), intervenendo il 24 ottobre 1928, cioè a due anni dalla promulgazione delle leggi speciali, alla commissione italiana del segretariato latino dell'Internazionale, così si esprime:

   "Non c'è dubbio che il nostro partito non ha visto a tempo il cambiamento della situazione che si è compiuto alla fine del 1926 e all'inizio del 1927. Non ha visto il passaggio da un regime di semilegalità all'illegalità assoluta e la nuova situazione che si era creata in Italia e che imponeva al fascismo la necessità di condurre un attacco particolarmente accanito contro l'avanguardia della classe operaia. Non ha capito (cioè) che questi due fatti imponevano un cambiamento rapido dei suoi metodi di lavoro e dei suoi metodi d'organizzazione in generale."

   E anche Botte (Pietro Secchia) al comitato centrale del partito del 5 giugno 1928 dichiara:

   "Il partito, dinanzi alle leggi eccezionali, tenne un atteggiamento strafottente, eroico, apparentemente fece un bel gesto. Tutto è come prima si disse. Il tribunale speciale è solo fatto per spaventare la gente. I nostri giornali saranno più diffusi di prima. Si previde che L'UNITA' avrebbe in breve tempo triplicata la tiratura; un giornale per ogni officina, dicevamo ai giovani... Noi non pensammo un solo momento alla forza del fascismo. Noi non ci ponemmo per un solo momento il problema: avrà il fascismo la forza di applicare le sue leggi? ... Noi volevamo dare una risposta allo scioglimento del partito, alla privazione di ogni libertà, e ci gettammo a capofitto in questa lotta"

   La risposta su quel che avvenne sta nei numeri."Se centomila sono gli schedati - scrive Paolo Spriano nella sua storia del PCI - almeno altrettanti i poliziotti (dagli agenti dei servizi investigativi della PS, e dellla MVSN (la milizia), ai carabinieri, ai dipendenti di ministeri in servizio speciale, ai militi della confinaria, della portuale, della ferroviaria) che si dedicano prevalentemente o esclusivamente a rafforzare la vigilanza e la repressione politica." Un esercito dunque per la caccia agli antifascisti, ma prevalentemente ai comunisti. Basti vedere la statistica dei condannati dal tribunale speciale: l'85% dei 4600 condannati sono comunisti e solo poche unità sono appartenenti ai partiti aventiniani, i rimanenti sono oppositori antifascisti non partiticamente qualificabili.

   Pietro Secchia, nello scritto "L'organizzazione del partito e del suo lavoro tra le masse al centro della resistenza contro il fascismo", [qui] pubblicato in occasione del trentesimo anniversario del PCI, in cui rievoca il periodo della clandestinità, sottolinea che nella prima fase furono commessi diversi errori:

   "Per quanto il partito non fosse passato di colpo alla completa illegalità, ma vi fosse giunto in un certo senso gradualmente, attraverso un periodo di semiclandestinità durato dall'ottobre 1922 all'ottobre 1926, tuttavia non si può dire che vi fosse stata una seria e sufficiente preparazione all'illegalità e vi fosse una larga esperienza di lavoro cospirativo."

   Ma la questione non era solo di tecnica cospirativa, di metodi di lavoro illegale. C'era, come sostiene Secchia, al fondo anche e soprattutto una questione di orientamento politico nel senso che, oltre alla preparazione del lavoro clandestino, si doveva anche essere in grado di trovare il modo di collegarsi alle masse. In caso contrario la clandestinità diventava un esercizio per piccoli gruppi che avrebbero ruotato su loro stessi. Su questo Secchia cita Palmiro Togliatti che nello scritto dell'ottobre 1934 "Dov'è la forza del fascismo italiano?" [qui] diceva:

   "Il ritardo del nostro partito è stato un ritardo essenzialmente politico... La chiave di tutti gli errori che noi abbiamo commessi tanto nel campo politico quanto in quello dell'organizzazione deve essere ricercata nel fatto che noi abbiamo mancato di abilità nel trasformare rapidamente e radicalmente tutti i metodi del nostro lavoro per non perdere il contatto con nessuno degli strati popolari che il fascismo si sforzava in tanti modi di influenzare e di tenere legati".

   Dopo il 1927, sostiene Secchia, cioè dopo la proclamazione delle leggi eccezionali e dopo che la stragrande maggioranza, per non dire la totalità dei lavoratori era costretta a far parte delle organizzazioni del fascismo, bisognava prenderne atto a trarne tutte le conseguenze.

   Nello scritto citato, Togliatti fa un'analisi compiuta di questi problemi e ribadisce l'indirizzo di fondo del lavoro che deve essere svolto dal partito, un partito uscito dalle caratteristiche settarie del bordighismo e che si era posto, da Lione in poi, il compito principale di organizzare le masse nella lotta.

   "Credere che l'organizzazione della dittatura fascista sopprima le contraddizioni tra i vari gruppi della borghesia - scrive Togliatti - è un grave errore teorico e politico. Ma un errore molto più grave sarebbe quello di credere che il fascismo possa giungere a sopprimere l'antagonismo fondamentale che esiste fra il contenuto di classe della dittatura fascista e gli interessi e le aspirazioni della classe operaia e delle grandi masse lavoratrici che esso si sforza di ingannare e di assoggettare. Al contrario, sotto il riparo di questo sistema preteso totalitario e monolitico, lo sfruttamento capitalistico aumenta consi­derevol­mente creando le condizioni oggettive per una estrema accentuazione della lotta di classe... Le contraddizioni oggettive che il regime fascista non può superare offrono possibilità di lotta che il nostro partito avrebbe dovuto utilizzare molto più ampiamente del passato e che deve utilizzare assai largamente nella situazione attuale".

   Come inserirsi in queste contraddizioni? "Non basta diffondere volantini e fare dell'agitazione; in una situazione come la nostra è indispensabile penetrare organicamente e largamente in tutte le formazioni fasciste di massa, è indispensabile che queste organizzazioni divengano il campo principale del nostro lavoro di massa... Nelle nostre file si è diffusa l'opinione... che fosse sufficiente al partito lanciare un appello generale alla lotta perchè tutti i lavoratori si sollevassero contro la dittatura... Questa concezione opportunistica, tipica manifestazione della dottrina della spontaneità, ci ha già fatto molto male perchè ha impedito di vedere l'ampiezza dei compiti politici e organizzativi che incombono sul partito comunista".

   Questa analisi di Togliatti rende esplicito il modo con cui l'organizzazione deve muoversi all'interno della struttura fascista, ma ovviamente presuppone che l'organizzazione rimanga in piedi e, nonostante i colpi inferti dalla polizia di regime, sappia muoversi con la dovuta determinazione e tener conto dello sviluppo delle contraddizioni sociali e politiche del momento. Il punto critico del lavoro nella clandestinità era costituito dal continuo ricambio dei quadri per tener testa agli arresti. L'unico modo per andare avanti stava nella capacità del partito di recuperare le forze necessarie per la continuità. Era perciò un movimento ondivago, con alti e bassi a seconda dei colpi che i comunisti ricevevano dalla polizia del regime. Ad esempio dopo i grandi arresti del '27-28 ci fu una pausa di riorganizzazione, ma già dal 1929, inizio della crisi economica mondiale partita negli USA, si pose la questione immediata, e non solo in Italia, di come i comunisti avrebbero dovuto reagire. La questione fu posta dall'Internazionale a tutti i partiti comunisti e l'indicazione che ne scaturì fu quella di inserirsi nelle nuove contraddizioni e in modo rivoluzionario. Ciò provocò un dibattito, proprio al VI congresso dell'Internazionale, sia con le correnti definite opportuniste dell'organizzazione sia sul carattere della socialdemocrazia che, nella contingenza, e pensando alla situazione in Germania, venne definita socialfascismo per il ruolo che stava svolgendo a difesa del sistema capitalistico in crisi. Di questo ci siamo occupati già nella sezione del nostro lavoro dedicata all'Internazionale.

   Per attenersi ai fatti italiani, è Palmiro Togliatti che pone la questione di come il partito debba muoversi per intercettare nel lavoro politico la fase nuova ed è sua la relazione dell'8 gennaio 1930 svolta al CC della federazione giovanile comunista e intitolata 'Necessità di una svolta' [qui].

   Il centro del ragionamento di Togliatti è che di fronte all'evolversi della situazione determinata dalla crisi capitalistica "si pongono al Partito comunista d'Italia dei problemi nuovi, tutta una serie di problemi nuovi e di compiti nuovi... questi problemi e compiti nuovi derivano dalla stessa situazione oggettiva che sta davanti a noi e dai prevedibili sviluppi di essa, dalla disposizione che stanno prendendo le masse lavoratrici delle città e delle campagne e dalla stessa situazione di partito".

   A fronte di questa nuova situazione - dice Togliatti - "Si sente ripetere spesso questa affermazione, che, accentuandosi la crisi economica e politica della società italiana, assisteremo ad un distacco dal fascismo della borghesia, la quale, spinta dalla situazione stessa, diventerà 'antifascista' e sbarazzerà il campo di una grande parte delle istituzioni, dei metodi di governo, ecc in cui consiste l'attuale regime reazionario italiano. La Concentrazione e tutti i 'democratici' basano la loro politica su questa prospettiva... ma una concezione simile e, almeno, dei riflessi di essa, si trovano senza dubbio in alcuni strati delle classi lavoratrici italiane e persino in elementi del nostro partito". Questa è per Togliatti la sostanza dell'opportunismo.

   Da queste constatazioni si parte per affrontare il punto critico che si era determinato nel Partito comunista tra gravità degli avvenimenti e limiti di intervento delle strutture. Il dibattito porta molto lontano e non è solo una questione di confronto politico. Una svolta come quella degli anni '30 porta infatti a una resa dei conti non solo con elementi tradizionalmente critici della linea del partito, come Tasca, Silone, Bordiga. La lotta si sviluppa anche dentro la segreteria e si arriva alla espulsione di tre dei suoi membri, Tresso, Ravazzoli e Leonetti.

   La conclusione di questo scontro si ha al IV congresso del partito che si tiene in Germania, a Colonia, spostato poi a Düsseldorf, dal 14 al 21 aprile 1931. In quella sede vengono ratificate le espulsioni e se ne motivano le ragioni [qui], Vengono anche riassunti tutti i passaggi effettuati dal partito fino al 1931, dai quali si possono dedurre problemi e difficoltà attraversati.

   A questo punto il partito riprende l'iniziativa interna con più vigore e paga, com'è ovvio, il prezzo della ripresa con nuovi arresti. Peraltro, alla vigilia del congresso di Colonia, era stato arrestato Pietro Secchia che era in Italia per prepararlo.

   Due erano gli obiettivi politici che il Partito comunista si poneva negli anni trenta, il primo consisteva nel collegamento con l'indirizzo dell'Internazionale comunista che indicava, e giustamente, la nuova crisi del capitalismo come un momento di ripresa rivoluzionaria; l'altro stava nel puntare, in quel contesto, alla formazione del governo operaio e contadino che era il corollario del fronte unico. Si trattava quindi di un obiettivo socialista che doveva nascere col rovesciamento del regime fascista ad opera di un movimento rivoluzionario di classe in Italia.

   Per questo si arriva a riesaminare anche l'impostazione che all'epoca dell'Aventino il partito si era data indicando come obiettivo di fase, dopo il delitto Matteotti, l'assemblea repubblicana basata sui comitati operai e contadini.

   La revisione critica di questa indicazione viene fatta da Palmiro Togliatti in uno scritto del 1929 sulla rivista Stato Operaio con il titolo, "A proposito di una parola d'ordine" [qui]. Togliatti si propone di chiarire la prospettiva del partito comunista mettendo in evidenza il carattere assolutamente contraddittorio dell'obiettivo dell'assemblea repubblicana indicato in precedenza.

   La parola d'ordine della "assemblea repubblicana, come viene impiegata dal partito nel 1925, era dunque una parola d'ordine politico di carattere circostanziale, la quale doveva aiutare il partito a raggiungere determinati risultati politici in una situazione particolare... malgrado ciò, possiamo dire che questa parola d'ordine fosse costruita bene, e quindi, che l'impiego di essa non contenesse dei pericoli legati alla struttura stessa della parola? Crediamo di no". Non si poteva unire una parola d'ordine di tipo democratico con una che presupponeva il governo dei comitati operai e contadini, a meno che questi non divenissero subalterni a una struttura democratico-borghese il che sarebbe la negazione di quanto i comunisti dichiaravano nei loro congressi.

   Per questo "nel programma di azione scritto prima del VI congresso (dell'Internazionale) e approvato dopo di esso... la tendenza di fare della parola dell'A.R. (l'Assemblea repubblicana) una parola d'ordine generale viene combattuta... viene affermato in questi documenti che il nostro partito non deve mai perdere di vista che la prospettiva sulla quale esso deve regolare tutta la sua azione è quella della rivoluzione proletaria e non, assolutamente, quella di una fase transitoria democratica borghese che preceda la rivoluzione proletaria".

   La storiografia revisionista ha sempre cercato di mettere in contraddizione il programma degli anni trenta con la linea successiva dell'Internazionale, ma ha potuto farlo solo prescindendo dalle condizioni oggettive che inducono un partito rivoluzionario ad adeguare la propria tattica e i propri obiettivi. La linea che verrà adottata col VII congresso dell'Internazionale terrà conto delle condizioni oggettive e, con la sconfitta militare del fascismo da parte dell'URSS e con la lotta armata partigiana, dimostrerà come i comunisti, nelle mutate circostanze storiche, siano stati capaci di ottenere un risultato storico eccezionale e di passare dalla difensiva all'offensiva.