Dov'è la forza del fascismo italiano?

Questo scritto firmato Ercoli (Togliatti) apparve su l'Internationale communiste del 5 ottobre 1934. Lo riproduciamo dall'opera in cinque volumi "Da Gramsci a Berlinguer - La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito Comunista Italiano", Edizioni del Calendario, Venezia 1985, vol. I, pp.563-577.


  Il problema del fascismo italiano desta ancora una volta un grande interesse nell'arena internazionale, ma non più come nel passato, quando il fascismo si presentava come una novità, e l'interesse consisteva nel cercare l'essenza del fa­scismo. Oggi, fra noi, non esistono più dissensi a questo proposito. La definizio­ne del fascismo come è stata data dall'Internazionale comunista nei suoi congres­si, e in maniera ancora più precisa dalla XIII Assemblea plenaria del Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista, non solo è del tutto giusta, non solo è il risultato di uno studio condotto per anni da tutta l'Internazionale comunista, ma è ormai riconosciuta come esatta da importanti strati di lavoratori, di piccoli borghesi e di intellettuali che non sono ancora sotto l'influenza diretta dei partiti comunisti. In una parola, la concezione secondo la quale il fascismo è la forma aperta della dittatura dei gruppi più reazionari della borghesia, nelle condizioni storiche attuali, è finora una concezione largamente popolare. Ma in che modo il fascismo riesce a mantenere e a difendere il potere del capitalismo sulla classe operaia e sulle grandi masse lavoratrici oggi, nelle condizioni sempre più gravi - si tratti della situazione economica o di quella politica - cui la borghesia si vede obbligata a far fronte?

   Questo problema, naturalmente, non è nuovo. Ciascuno di noi è in grado di ripetere che il fascismo difende e mantiene il potere della borghesia attraverso i mezzi della violenza aperta e del terrore, perseguendo una offensiva spietata contro le condizioni di esistenza dei lavoratori, distruggendo ogni possibilità di organizzazione autonoma del movimento operaio e delle grandi masse, imbava­gliando l'opinione pubblica, ecc. Ognuno di noi è capace di ripetere queste cose, ma per quanto esse siano giuste spiegano fino in fondo la verità? E poi, quando si esamina la maniera di combattere il fascismo, possiamo contentarci di afferma­zioni di carattere generale o non dobbiamo piuttosto impegnarci in una analisi molto più concreta della politica fascista?

   Prendiamo l'esempio dell'Italia. Il fascismo vi è al potere da 12 anni. Fino dal suo avvento al potere esso si è trovato immediatamente di fronte una serie di gra­vi difficoltà politiche, ma per alcuni anni le condizioni economiche gli sono ri­maste relativamente favorevoli (periodo della stabilizzazione relativa); successi­vamente la situazione economica si aggrava, prima lentamente, poi in maniera eccessivamente rapida; la crisi mondiale trova nell'economia italiana un corpo già minato da gravi malattie (crisi finanziaria del 1926-27 e sue conseguenze, cri­si agraria acuta, ecc.) e le imprime una forte scossa esacerbando tutta una serie di contraddizioni assai gravi. Tuttavia, il fascismo ha resistito. Dal 1927 i salari hanno subito una riduzione media ed effettiva di più del 50%. Nell'economia italiana riappare il fenomeno della disoccupazione permanente che tocca centi­naia di migliaia di persone. Ma, mentre nel passato, prima della guerra, questo fenomeno restava confinato tutt'al più nelle campagne e le sue conseguenze ve­nivano attenuate da una forte e continua corrente di emigrazione, oggi la disoc­cupazione permanente si estende alle città e al proletariato industriale, e le cor­renti migratorie non permangono che a un livello irrisorio. Le condizioni di vita delle masse lavoratrici, particolarmente in alcune regioni agricole, si trovano ri­dotte ad un livello estremamente, incredibilmente basso, che non può essere pa­ragonato che a quello di 60 anni fa, subito dopo la costituzione dello Stato na­zionale unificato. Allora, la stessa borghesia parve impressionata dalla situazione miserabile delle masse e alcuni dei suoi uomini di Stato denunciarono quella si­tuazione in inchieste rimaste famose. Le condizioni alle quali sono condannate le masse e la situazione economica del paese, in generale, sono tali che un para­gone tra la situazione attuale e ciò che il fascismo aveva promesso dodici anni fa nel suo programma iniziale sembrerebbe oggi paradossale.

   Ma il fascismo resiste. Quali sono le basi della sua resistenza? Mi pare che que­sto problema sia di particolare interesse quando si parla del fascismo italiano. La discussione sistematica di questo problema non può non essere estremamente istrut­tiva tanto per noi, comunisti italiani, - poiché discutendolo siamo inevitabil­mente condotti, data la nostra esperienza, a scoprire i numerosi e gravi errori da noi commessi - quanto per i compagni degli altri paesi, che possono certamente attingere molte cose dalla nostra esperienza.

   E mi perdonino i lettori se mi vedo obbligato a ripetere ancora una volta che, studiando lo sviluppo e la politica del fascismo nei vari paesi, bisogna guardarsi bene dal trasporre meccanicamente le esperienze dello sviluppo del fascismo ita­liano ad altri paesi. Vorrei anche aggiungere che quando non solo si parla della natura del fascismo ma si considerano anche in particolare le forme concrete della sua politica, il pericolo di cadere in luoghi comuni e vuoti di significato cresce sensibilmente; è quindi necessario guardarsi più che mai dalle false analogie. Mi sembra utile che i compagni degli altri paesi di dittatura fascista e i compagni del partito comunista bolscevico, che hanno l'esperienza della lotta illegale con­tro l'autocrazia zarista, esaminino i fatti di cui parliamo, li confrontino con la loro esperienza e ci aiutino ad approfondire lo studio dei nostri problemi e a tro­vare ciò che nella nostra esperienza può essere generalizzato ed applicato agli al­tri paesi.


Il partito fascista, partito borghese di tipo nuovo


  Il primo punto sul quale vorrei soffermarmi è questo: che cosa è riuscito a fare il fascismo nel campo dell'organizzazione politica della borghesia, grazie alle cir­costanze oggettive e a numerosi altri elementi, tra i quali la debolezza del movi­mento rivoluzionario non è l'ultimo. La borghesia italiana non possedeva, prima dell'avvento del fascismo, una forte organizzazione politica, è un fatto incontestabile. C'era in Italia un gran numero di partiti, ma essi avevano soprattutto un carattere elettorale e locale, senza programmi ben definiti, e dal punto di vi­sta dell'organizzazione e dei quadri erano inconsistenti. Gli uomini di Stato bor­ghesi - e in particolare Giovanni Giolitti, che fu l'uomo di fiducia della bor­ghesia industriale della banca e della monarchia prima e anche dopo la guerra - si sono sempre preoccupati non di creare forti partiti borghesi, provvisti di un programma ben definito e solidamente organizzati, ma, al contrario, di im­pedire la costituzione di simili partiti. La loro arte di governo consisteva piutto­sto nel disgregare i partiti esistenti e nel comporre una maggioranza parlamenta­re attraverso compromessi, corruzioni, manovre, ecc.

   Così quando subito dopo la guerra sono apparsi e si sono potentemente af­fermati nella vita politica del paese due partiti politici di massa, grandi, solidi, ben organizzati e disciplinati - il partito socialista e il partito popolare (cattoli­co) - tutto il sistema di governo della borghesia italiana è stato sconvolto.

   Nel complesso la borghesia italiana non possedeva che una sola organizzazione unificata, quella della massoneria; ma l'ideologia di quest'ultima non conveniva più alla lotta che la borghesia aveva intrapreso allo scopo di organizzare la pro­pria dittatura aperta. E' per questo che il fascismo aveva concentrato, a un certo momento, i propri colpi sulla massoneria.

   Il fascismo non solo si è posto il compito di creare una solida organizzazione politica unita della borghesia, ma è anche riuscito ad assolvere a quel compito. Il fascismo ha dato alla borghesia italiana ciò di cui essa è sempre stata priva, e in particolare un partito forte, centralizzato, disciplinato, unico, dotato di una propria forza armata. Si potrebbe obiettare che il partito fascista non è un partito nel senso vero e proprio, nel senso tradizionale della parola, perché è sprovvisto di una struttura e di un funzionamento democratici, perché nel suo ambito non avvengono di­scussioni regolari, perché non esiste nella base alcuna forma di elezioni dei diri­genti, ecc. Tutto questo è vero, ma queste obiezioni non servono che a dimostra­re che il partito fascista è un partito borghese di un tipo speciale, è un «tipo nuovo» di partito della borghesia, adattato alle condizioni uscite dal periodo della disgregazione del capitalismo e dal periodo della rivoluzione proletaria, adattato soprattutto alle condizioni della dittatura aperta della borghesia sul proletariato e sulle grandi masse lavoratrici.

   La borghesia tende oggi in tutti i paesi a creare partiti di questo tipo. La pre­senza di un partito borghese di questo tipo costituisce uno degli aspetti caratteri­stici dell'organizzazione della dittatura fascista.

   La creazione di questo nuovo genere di partito non avviene beninteso senza difficoltà. Si tratta in generale di un processo pieno di contraddizioni, comples­so, pieno di urti e di soprassalti. A questo proposito vorrei fare osservare che pa­recchie volte durante i primi anni della dittatura fascista avevamo espresso su questo processo un giudizio unilaterale, avevamo concentrato l'attenzione soltanto sulla resistenza che le vecchie formazioni politiche borghesi opponevano alla marcia del fascismo, ci sembrava allora che ognuna di queste resistenze avrebbe dovuto immediatamente svilupparsi giungendo fino a creare le condizioni di una «crisi politica» insormontabile e, in sostanza, dimenticavamo che l'elemento decisivo capace di ridurre il vantaggio del fascismo non può essere nient'altro che la lotta antifascista delle masse. Questo errore di valutazione dal quale derivano prospettive inesatte sullo sviluppo della situazione è stato commesso allo stesso modo in altri paesi e lo si ripete ancora oggigiorno.

   Evidentemente non è vero, e sarebbe anche un errore teorico grave affermarlo, che la creazione di un «tipo» nuovo di partito della borghesia sopprima gli an­tagonismi in seno delle classi dirigenti del capitalismo. Al contrario è necessario sottolineare che la creazione di questo tipo nuovo di partito corrisponde ad un approfondimento di queste contraddizioni. Tuttavia, dato che i contrasti non ap­paiono apertamente se non nel momento in cui sono divenuti molto profondi, le classi dirigenti borghesi riescono a presentarsi alle masse come una forza unica e coerente.

   Prendiamo come esempio le masse lavoratrici italiane. Sono otto anni che se non capita tra le loro mani la stampa clandestina del partito comunista, esse sono ridotte a non leggere nient'altro che la stampa fascista. E quest'ultima cerca pri­ma di tutto di nascondere i dissensi che agitano le classi dirigenti e a presentare le forze della borghesia unite, compatte, nelle file del fascismo. Questo è uno dei primi fattori dell'estensione dell'influenza fascista tra le masse, è un fattore della più grande importanza psicologica. Il suo effetto non può essere ostacolato se non giungiamo, assicurando una larga diffusione della stampa illegale, a scre­ditare ampiamente il fascismo di fronte alle masse, a paragonare le sue parole ai suoi atti, a mostrare il vero spirito delle sue campagne, ecc.; ma solo il movi­mento delle masse può avere come conseguenza quella di distruggere il fascismo. Ogni volta che scoppia un movimento di massa, per quanto sia limitato, si osser­vano immediatamente delle esitazioni nei quadri del fascismo e quando i movi­menti si moltiplicano e si estendono le esitazioni finiscono per far dubitare della validità della linea politica ufficiale del fascismo. Si producono allora delle «cri­si» dell'organizzazione fascista su scala locale ed anche, a volte, su scala naziona­le, come abbiamo visto ultimamente quando l'ex-ministro dell'interno di Mus­solini, Arpinati, è stato arrestato, con altri duecento capi fascisti, poiché era favo­revole ad un cambiamento della politica fascista nei confronti della socialdemocrazia. [1]

   Appare chiaro da tutto ciò come sia pericolosa l'opinione secondo la quale il fascismo è condannato a sfasciarsi da sé, in seguito all'esplosione spontanea delle contraddizioni interne che minano il suo regime. Questa opinione era largamen­te diffusa in Italia dalla socialdemocrazia e dai vecchi capi democratici, e si è insi­nuata anche nelle file del nostro partito. Di qui le tendenze opportuniste «ad aspettare» un cambiamento della situazione per fare qualcosa. Di qui anche l'im­pulso che ha condotto il partito a rinchiudersi in sé stesso, a perdere la concezio­ne esatta delle proprie funzioni e delle funzioni della classe operaia nella lotta contro la dittatura fascista, a rinunciare al lavoro quotidiano di massa e a isolarsi così dalle masse.

   Credere che l'organizzazione della dittatura fascista sopprima le contraddizio­ni tra i vari gruppi della borghesia è un grave errore teorico e politico. Ma un errore molto più grave sarebbe quello di credere che il fascismo, fondando un partito unico della borghesia, creando una organizzazione fascista che abbraccia la maggioranza della popolazione e di tutte le forme della sua vita, possa giunge­re a sopprimere l'antago­nismo fondamentale che esiste fra il contenuto di classe della dittatura fascista e gli interessi e le aspirazioni della classe operaia e delle grandi masse lavoratrici che esso si sforza di ingannare e di assoggettare. Al con­trario, sotto il riparo di questo sistema preteso «totalitario» e monolitico, lo sfrut­tamento capitalistico aumenta considerevolmente creando le condizioni oggetti­ve per una estrema accentuazione della lotta di classe, lotta che non può essere contenuta che per un certo periodo di tempo, per scoppiare alla fine con tanta più forza e tanto più slancio. Niente di concreto e di vivo corrisponde, da questo punto di vista, alla parola d'ordine fondamentale con la quale il fascismo ha ope­rato da alcuni anni, quella dello «Stato corporativo», dello Stato nel quale sa­rebbero soppresse le contraddizioni e le differenze di classe. Nei primi anni del suo potere, il fascismo ha potuto dare l'impressione che la sua politica favorisse lo sviluppo economico generale. Si trattava in realtà di un fenomeno del periodo della stabilizzazione relativa, quando l'imperialismo «straccione» italiano, do­po aver riportato la vittoria nella guerra mondiale e sul movimento operaio rivo­luzionario, riuscì a rafforzarsi un poco allargando la produzione. Il fascismo con­tribuì a questo allargamento annientando le organizzazioni rivoluzionarie e col­mando di favori i capitalisti e i banchieri. Tuttavia le contraddizioni economiche oggettive erano state accentuate assai rapidamente dallo sviluppo stesso della pro­duzione, la situazione cambiò, e si accumularono le difficoltà fino allo scatenarsi della crisi economica. Parallelamente, e con un ritmo anche più rapido di quello della crisi economica, si accentuavano le contraddizioni di classe. Il passaggio del fascismo al «sistema totalitario» (che succedette al sistema di compromessi con altri gruppi politici), la soppressione completa del parlamentarismo, l'aumento della repressione, le leggi eccezionali (questa «eccezione» dura da otto anni!) e, infine, gli sforzi per costringere le masse nella organizzazione fascista sono una risposta che il fascismo dà a questa accentuazione degli antagonismi di classe.

   Tuttavia quella risposta non risolveva affatto il problema. Il fascismo si trova nell'impossibilità di costruire uno Stato corporativo «al disopra delle classi» e, proprio per ciò, di eliminare la lotta di classe, a dispetto dei suoi sforzi incessan­ti. La lotta di classe degli operai e delle grandi masse si sviluppa sempre di nuo­vo, in condizioni nuove, sotto nuove forme, con nuove prospettive. Niente serve meglio a mostrare la vanità del compito che il fascismo si è dato - creare uno Stato «al disopra delle classi» - che la verità e l'instabilità delle forme della organizzazione fascista, il fatto che il fascismo è costretto a cambiare senza posa i suoi metodi e le sue forme di organizzazione per far fronte al pericolo che la situazione oggettiva e la volontà di lotta delle masse rappresentavano per esso.

   Le contraddizioni oggettive che il regime fascista non può superare offrono pos­sibilità di lotta che il nostro partito avrebbe dovuto utilizzare molto più ampia­mente nel passato e che deve utilizzare assai largamente nella situazione attuale.


La classe operaia, il terrore e l'organizzazione fascista delle masse


  La borghesia italiana era riuscita a creare dei gruppi di aristocrazia operaia e a corrompere una parte dei «vertici» del movimento operaio. Dalla presa del potere da parte del fascismo e soprattutto da quando hanno cominciato a farsi sentire le difficoltà economiche, da quando si è aggravata la crisi agraria nelle campagne e tutta l'economia del paese si è trovata sprofondata nella crisi, da quel momento sono sopravvenuti in questo campo dei cambiamenti profondi. Sareb­be tuttavia errato supporre che il fascismo abbia ridotto a un medesimo livello tutte le categorie di operai, tutti i gruppi di lavoratori. Persistono delle differen­ze, ed esse non sono trascurabili.

   L'azione più energica di livellamento viene perseguita nelle campagne. Una differenza persiste ancora, per esempio, fra il salario medio degli operai agricoli nel Mezzogiorno e quello della Valle padana. Nel Mezzogiorno i salari sono più bassi e la miseria è maggiore; ma prima del fascismo c'erano nella Valle padana gruppi importanti di salariati agricoli che potevano essere considerati nel com­plesso come dei privilegiati, perché erano giunti attraverso la lotta e l'organizza­zione ad assicurarsi ogni anno un maggior numero di giornate lavorative. Si può dire che oggi questi gruppi sono scomparsi e ciò, mi pare, spiega meglio il fatto che la maggior parte dei movimenti di massa abbiano luogo nelle campagne e in particolare fra i salariati agricoli.

   Se si prende la classe operaia, si vedrà che le cose sono diverse. Esistono ancora alcune categorie di operai, i tipografi per esempio, che hanno conservato il loro carattere di professioni «privilegiate» rispetto alle altre. I salari dei tipografi hanno subito essi pure delle diminuzioni, ma restano ancora al di sopra della media. D'altra parte il sindacato fascista di questa corporazione non si differenzia dalla vecchia organizzazione riformista dei tipografi. E' in sostanza la stessa organizza­zione di prima, ma nella quale i fascisti si sono impiantati senza che i capi rifor­misti abbiamo loro opposto una minima resistenza di massa; in realtà essi ne so­no divenuti padroni con il consenso e l'aiuto dei dirigenti riformisti. Oggi, que­sta organizzazione funziona come funzionava prima e in questi ultimi anni non ci sono stati, se non mi sbaglio, che due movimenti di carattere economico dei tipografi. La stessa cosa si è verificata in alcune altre professioni, per i cappellai, per esempio, la cui organizzazione riformistica aveva anch'essa un carattere cor­porativo fortemente pronunciato. Per i marittimi, c'è stato un certo periodo ab­bastanza lungo nel quale i vecchi quadri dell'organizzazione hanno collaborato con i fascisti, ciò che ha permesso a questi ultimi di impadronirsi dell'intiera or­ganizzazione e di consolidare il loro potere sulla massa.

   Se esaminiamo al contrario le categorie fondamentali del proletariato industriale (metallurgia, industria tessile, prodotti chimici, edilizia, ecc.) vediamo che il fa­scismo vi ha completamente distrutto la vecchia organizzazione legale di classe, senza lasciarne traccia, che l'ha distrutta altrettanto bene come organizzazione sindacale nel significato proprio del termine, che come organizzazione di fabbri­ca (commissioni interne). L'organizzazione sindacale fascista di queste corpora­zioni non ha niente in comune con la vecchia. Anche il tipo di contratto di lavo­ro è diverso. Ma non si deve credere che le condizioni di tutte le corporazioni siano identiche. I salari dei metallurgici (si intende, i salari fissati dai contratti fascisti di lavoro) sono un po' più elevati che nelle altre professioni e fra i metallurgici stessi è ancora possibile osservare che in alcune regioni (a Torino, per esem­pio, che è il più importante centro metallurgico del paese) sono a loro volta leg­germente più elevati che altrove.

   Nelle fabbriche la situazione è un po' più complicata, perché il contratto di lavoro fascista non vi è mai applicato in generale e in maniera uguale per tutti gli operai; il padrone fa grandi differenze di trattamento da un operaio all'altro, e gli operai meno favoriti sono obbligati ad accettare queste differenze senza pro­testare, per timore del licenziamento e della disoccupazione.

   Bisogna dire che in generale il numero degli operai che appartengono alle ca­tegorie altamente qualificate è stato estremamente ridotto. La manodopera si com­pone in grande maggioranza di «manovali qualificati» particolarmente utilizza­ti nella produzione in serie, e di semplici manovali; la proporzione delle donne occupate nell'industria è aumentata, mentre la qualificazione degli operai è ge­neralmente diminuita. Da questo punto di vista, si è realmente operato il livella­mento. Ma nello stesso tempo assistiamo ad un fenomeno nuovo: nelle fabbriche si sono formati dei piccoli gruppi di operai legati al fascismo, ideologicamente e organicamente, molto più degli altri operai, e giungono a costituire una «ari­stocrazia» speciale dal punto di vista politico. Questi elementi non provengono sempre dagli operai più qualificati, non sono nemmeno «capi-reparto» ma co­stituiscono nondimeno il punto di appoggio del fascismo in fabbrica, e il padro­nato si sforza di conservare sempre questo punto d'appoggio. Per valutare le for­ze che il fascismo possiede in una azienda, bisogna tener conto non del numero di operai iscritti al partito fascista (perché l'iscrizione è semi-obbligatoria e qual­che volta avviene d'ufficio), ma del numero degli operai legati al fascismo in ma­niera più stretta, politicamente e organicamente.

   Ho insistito su questi fatti perché, secondo me, fanno capire molto bene come deve essere posto il problema del terrore sotto la dittatura del fascismo italiano che dura da dodici anni. I diversi punti di appoggio che il fascismo è riuscito a crearsi nelle masse gli hanno servito e gli servono tuttora a sostenere e sviluppa­re la sua organizzazione popolare. Nei rapporti tra la dittatura fascista e le masse lavoratrici, l'aspetto impor­tante, caratteristico, è proprio la combinazione dei me­todi di violenza aperta e di terrore con i metodi di inquadramento più o meno forzato delle masse in una organizzazione creata dai fascisti. La violenza dichiara­ta e il terrore sono impiegati contro il partito comunista in maniera continua, senza riserve, a fondo, con brutalità in modo da spezzare i suoi quadri e i suoi legami con le masse, per rendere impossibile il suo lavoro. Per ciò che si riferisce ai quadri dei partiti socialdemocratici (sciolti e dichiarati fuori legge come il no­stro), la situazione cambia: il terrore non viene esercitato contro di loro alla stessa maniera che contro di noi e fa rapidamente posto a tentativi di corruzione, alle offerte di posti nella gerarchia fascista, e via di seguito. Quanto alle masse, la politica del fascismo consiste nel far per esse del terrore una minaccia continua per quanto non venga applicato loro sempre in modo identico e massiccio. A Fi­renze, per esempio, gli elementi «sovversivi» più noti (per la maggior parte co­munisti) sono trascinati ogni tanto alla sede fascista regionale ove vengono pesta­ti senza motivo plausibile. Ma simultaneamente il circolo fascista del settore con­duce fra le masse una azione pseudo «popolare». Se un marito picchia la moglie e questa va a lamentarsi al circolo fascista, i dirigenti del luogo prendono la sua difesa, chiamano il marito, lo ammoniscono, e gli ingiungono di mettere fine ai suoi cattivi trattamenti. Accade anche che dei dirigenti del circolo intervengano in favore di un affittuario minacciato di sfratto dal suo proprietario o che ancora prestino soccorso in denaro a una famiglia in difficoltà. In quella stessa città, tut­ti coloro che hanno espresso un voto negativo in occasione dell'ultimo plebiscito sono stati portati alla sede del fascio e picchiati con una barbarie inaudita.

   Ma la forma di terrore più diffusa è quella che si potrebbe chiamare del terrore «economico». Ogni operaio sa che non solo non può trovare lavoro se non è iscritto ad una organizzazione fascista, ma anche che perde il suo posto se manifesta an­che di nascosto i suoi sentimenti antifascisti, se non prende parte alle manifesta­zioni fasciste, se lo si sospetta di essere un antifascista attivo.

   Si fa uso, inoltre, nei confronti delle masse, di una violenza estrema ogni volta che i loro movimenti si estendono e si approfondiscono, quando i dirigenti fasci­sti del luogo si rendono conto che né le promesse né piccole concessioni potreb­bero giungere allo scopo di ridurre l'effervescenza.

   Combinando tutti questi metodi, il fascismo giunge a irreggimentare tutta la massa lavoratrice in una o più organizzazioni fasciste e a stabilire anche sui lavo­ratori un sistema di controllo molteplice, raffinato, in ogni momento, al quale è molto difficile sfuggire e che permette di far penetrare nelle loro file, sotto i più diversi aspetti, l'ideologia fascista.

   È evidente che la lotta contro un regime che stabilisce in questo modo i propri legami con le masse non può svilupparsi se non attraverso la penetrazione nei ranghi dell'organizzazione avversaria, se l'avanguardia comunista - appoggian­dosi fortemente sull'organizzazione illegale e dei sindacati di classe, senza mai nascondere la fisionomia del partito e perseguendo senza posa la agitazione e la lotta per lo scopo finale, per il rovesciamento rivoluzionario della dittatura fasci­sta - non riesce a trasferire il centro del lavoro di massa dell'avanguardia comu­nista in quella organizzazione. E' evidente tuttavia che l'atteggiamento che il fa­scismo ha dovuto assumere verso le masse e gli sforzi attraverso i quali esso cerca di irreggimentarle e influenzarle non possono non creare molteplici possibilità di lavoro illegale e semilegale per la mobilitazione delle masse contro il fascismo stesso.


Le manovre del fascismo e le sue diverse forme di organizzazione


  L'affermazione che il fascismo comprende nelle sue organizzazioni quasi tutta la popolazione attiva del paese è confermata dalle statistiche.[2] Ma non vorrei che questa affermazione possa dare ai compagni l'impressione che l'organizzazione fascista sia qualcosa di solido, di compatto, come un muro contro il quale è inu­tile rompersi la testa. Al contrario, esiste una contraddizione profonda, incom­mensurabile, tra la dittatura fascista e le masse dei lavoratori che essa inquadra nelle sue organizzazioni. Si tratta di un antagonismo di classe, che si aggrava og­gettivamente sotto il peso delle difficoltà economiche e della politica fascista, po­litica che accentua il suo carattere spoliatore a profitto dei gruppi più reazionari della borghesia. E questa contraddizione si manifesta nettamente in seno all'or­ganizzazione fascista, determinando una grande instabilità nelle forme di essa.

   Il tipo di organizzazione sindacale fascista varia molto da una professione al­l'altra (e ne abbiamo già viste le ragioni); ma varia altrettanto da una regione all'altra, e da un momento a un altro. A Torino e a Milano, i funzionari sindacali fascisti cercano di legare gli operai all'organizzazione, li invitano a frequentare le sedi dei sindacati, li obbligano ad assistere alle riunioni sindacali, e tengono queste riunioni nel corso del lavoro nei piazzali delle fabbriche chiudendo le por­te d'uscita. In Puglia (Italia del sud) ove la miseria delle masse è molto maggiore che altrove e ove regna una forte tendenza verso i movimenti di massa violenti e spontanei, i sindacati fascisti non organizzano quasi mai riunioni e alle porte delle sedi sindacali stanno due guardie che non lasciano passare gli operai agrico­li se non uno per uno, per un colloquio di breve durata, e impediscono ogni riu­nione di fronte alla porta. A La Spezia (importante centro industriale), la nostra organizzazione, nel 1923, nonostante un certo numero di errori e di esitazioni, riuscì a trarre partito da numerose riunioni sindacali convocate dai fascisti, per chiamare le masse alla lotta e allo sciopero. Così era stato deciso, per ordini supe­riori, che i sindacati non dovevano più tenere assemblee. Le riunioni non sono riprese che quando la nostra organizzazione è stata distrutta ad opera di una spia. Il fatto più triste è che eravamo organizzati in modo tale che è stato sufficiente a quella spia di demolire il centro dell'organizzazione illegale del partito perché si arrestasse tutto il lavoro di massa.

   In generale, la forma di organizzazione dei sindacati fascisti è cambiata più volte dal 1927. In principio, l'organizzazione era fondata sulle professioni ed esi­steva un organismo centrale confederale che dirigeva tutte le categorie. Ne è ri­sultato che nel corso del primo congresso convocato da questo organismo, lo scon­tento delle masse è stato espresso dagli stessi funzionari fascisti che si trovavano sotto la pressione dei lavoratori e così bene da derivarne uno scandalo. Si soppres­se l'organismo centrale, non si lasciarono che le organizzazioni professionali e fu fatto un tentativo di appoggiarsi sulle sezioni sindacali locali collegandole alle fabbriche attraverso una rete di fiduciari. Ma le cose si aggravarono ancora, gli industriali esigevano la soppressione dei fiduciari, le sezioni sindacali locali furo­no anch'esse eliminate per far posto a organizzazioni provinciali. Questo siste­ma, che accentuava il carattere burocratico dell'organizzazione, fu a sua volta abbandonato quando si scoprì che esso faceva perdere al funzionario fascista il con­tatto diretto con le masse.

   Non ho intenzione di enumerare tutte le trasformazioni subite dall'organizza­zione sindacale fascista, ma tengo solo a sottolineare l'importanza di queste tra­sformazioni poiché esse dimostrano che il fascismo non è riuscito e non può riu­scire, malgrado tutto, a conquistare solidamente le grandi masse ed è costretto continuamente a dibattersi, manovrare, ad adattarsi in tutte le maniere, per conservare il contatto con esse, per impedirne i movimenti, per controllarle il meglio possibile.

   Una buona comprensione di tutti questi fatti permette inoltre di porre sul suo vero terreno il problema del lavoro nell'organizzazione fascista e di sconfiggere l'opinione di coloro che, quando si parla di questo lavoro, non sanno che attirare l'attenzione sui «pericoli» che esso nasconde, come se l'organizzazione fascista di massa fosse qualcosa di coerente, compatto, capace di assorbire e di assimilare coloro che svolgono nel suo ambito una attività di classe. Questa organizzazione è al contrario un amalgama di rapporti mutevoli, un terreno sul quale tra il fasci­smo e le masse la lotta è continua, per quanto essa non si manifesti sempre apertamente.

   La capacità del fascismo di modificare le sue posizioni (pur mantenendo intat­to il carattere fondamentale di classe della sua dittatura), per far fronte a situa­zioni nuove e più difficili, appare evidente quando si considerano le diverse cam­pagne demagogiche condotte dai fascisti nel corso di questi ultimi anni. La cosa più interessante da osservare è che a partire dal 1930 (cioè dopo lo scoppio della crisi mondiale) il fascismo italiano ha incredibilmente accentuato la pressione eco­nomica sulle masse, mettendo al centro di tutta la sua propaganda la parola d'or­dine «andare alle masse». Che cosa significa ciò? Ciò significa che, sentendo ag­gravarsi la sua situazione, il fascismo ha intrapreso una lotta a fondo per mante­nere e per estendere, nella misura del possibile, la sua influenza sulle masse lavo­ratrici e per impedire che le difficoltà oggettive facciano saltare il sistema delle sue organizzazioni. Dal 1930 ad oggi, si può dire che ogni sei mesi il fascismo ha fatto un nuovo sforzo per rinnovare la sua demagogia, per cambiare i toni della sua propaganda di massa. Da qualche tempo tutta la propaganda è concen­trata sul «corporativismo» considerato come un sistema che si distingue tanto dal capitalismo che dal socialismo. Ma già oggi, dopo l'ultimo discorso di Musso­lini in cui egli confessa il «fallimento» economico della dittatura, i funzionari fascisti fanno delle proposte diverse da quelle che facevano sei mesi fa, al mo­mento della campagna del plebiscito. Allora, dicevano che il corporativismo ave­va permesso all'Italia di risentire dei colpi della crisi meno fortemente degli altri paesi, oggi non negano più la gravità della situazione economica del paese, ma ciarlano sulla possibilità che il corporativismo offre di ripartire i sacrifici in ma­niera eguale fra tutte le classi e presentano la guerra come inevitabile e come una via che permette di uscire dalle attuali difficoltà.

   Questa capacità di manovrare tanto con l'aiuto di parole d'ordine quanto mo­dificando le forme organizzative costituisce uno degli elementi più importanti della «forza» del fascismo italiano. E questo elemento non può essere neutraliz­zato o eliminato che da un'azione intelligente, audace, tenace e vasta del partito. Siamo dunque arrivati ora nel cuore stesso del problema, cioè al problema del­la nostra politica e della nostra azione.


Il movimento delle masse e il ritardo del partito comunista


  Nel suo discorso al IV Congresso dell'Internazionale comunista, Lenin trattò, parlando della risoluzione del III Congresso sulla struttura dei partiti comunisti, dei metodi e del contenuto del loro lavoro, della necessità per i compagni stra­nieri di «studiare» l'esperienza del bolscevismo e di assimilare una parte dell'esperienza russa. Indirizzandosi direttamente ai compagni italiani che avevano ap­pena assistito all'avvento al potere del fascismo, disse: «Forse i fascisti in Italia, per esempio, ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, e che il loro paese non è ancora garantito contro i centoneri» [3].

   Il nostro partito non ha prestato sufficiente attenzione a queste parole, le ulti­me che il compagno Lenin ci abbia indirizzate e che esprimono in modo assai conciso l'idea che solo un largo lavoro di massa, la lotta conseguente del partito e il coordinamento del lavoro illegale con il lavoro legale possono mettere in scac­co le bande fasciste e impedire in particolare la penetrazione dell'influenza fasci­sta in alcuni strati di lavoratori. Se consideriamo non soltanto le analisi della si­tuazione fatte dal nostro partito e le sue posizioni politiche generali, ma anche il suo lavoro politico e organizzativo quotidiano - e le due cose non possono mai essere esaminate separatamente - dobbiamo constatare nel complesso della sua attività un grande ritardo nel porre e nel risolvere praticamente i problemi della lotta contro il fascismo.

   Abbiamo per parte nostra la giustificazione di essere stati il primo partito del­l'Internazionale che abbia dovuto combattere una dittatura fascista e quella di non essere sempre stati molto aiutati da coloro che avevano più esperienza di noi. Ci siamo battuti molto e con coraggio, le masse non ci perdevano mai di vista, ma non si può negare il fatto che abbiamo avuto un grande ritardo nel compren­dere le forme nelle quali doveva essere condotta la lotta antifascista per essere efficace e capace di contrastare i piani della dittatura.

   Nel 1927 e nel 1928 si sono sviluppate al centro del nostro partito discussioni molto profonde sul seguente problema: l'instaurazione della dittatura fascista sotto la forma totalitaria significa che nessun altro regime se non la dittatura del prole­tariato può succedere al fascismo, oppure esistono altre prospettive storiche e po­litiche? Discussioni interessanti, ma mentre noi vi eravamo impegnati, il fasci­smo gettava le fondamenta della sua organizzazione di massa e le nostre organiz­zazioni di partito cominciavano, sotto i colpi della reazione, a disseccarsi, a rin­chiudersi in sé stesse, a contentarsi di una vita esclusivamente interna e settaria, a isolarsi dalle masse. Mentre affermavamo la ineluttabilità storica della rivoluzio­ne proletaria, dimenticavamo che l'essenziale è creare le condizioni politiche e organiche nelle quali la classe operaia possa sviluppare vittoriosamente la sua lot­ta rivoluzionaria. Nella nostra stampa apparivano valutazioni interessanti sulla questione dei fiduciari dei sindacati fascisti in fabbrica - questione dibattuta aspramente fra l'apparato sindacale fascista e gli industriali nel 1927-28 - ma non apparivano che tre mesi dopo che la cosa era stata risolta con un ordine di Mussolini. E quando la stessa questione tornò sul tappeto nel 1931 come un pun­to della nuova politica di massa del fascismo ci limitammo a discutere sugli even­tuali «pericoli» insiti nella utilizzazione anche di una parte dei fiduciari allo scopo di allargare il lavoro legale e di mettere in movimento gli operai di una azienda; e non è che oggi, nel 1934, che ci rendiamo conto all'improvviso, che dove i no­stri compagni si sforzano di scatenare nelle aziende, alla base, movimenti e scio­peri, essi sono inevitabilmente condotti a servirsi di una parte dei fiduciari dei sindacati fascisti.

   Si potrebbero moltiplicare gli esempi. Mi sembra che l'essenziale sia questo: il nostro partito non ha compreso intieramente e in tempo opportuno che l'in­staurazione di una dittatura fascista totalitaria esige da parte dell'avanguardia co­munista non che essa restringa l'ampiezza della sua azione politica e delle sue «manovre» ma che essa la estenda, che «faccia politica» coraggiosamente, sen­za lasciar tregua al nemico, incalzandolo e combattendolo su tutti i terreni. E anche nel caso in cui questa necessità è stata compresa, non abbiamo saputo trar­re rapidamente vantaggio da tutte le sue conseguenze.

   Il ritardo del nostro partito è dunque stato e rimane un ritardo essenzialmente politico. In un certo periodo (nel 1927) c'eravamo limitati a distribuire soltanto volantini in massa e giornali, e sembrava che il gran numero di essi dovesse basta­re a tutto. In altri momenti (nel 1929 e più tardi nel 1933) abbiamo dovuto ef­fettuare un lavoro faticoso per ristabilire i legami del partito, poiché il nostro modo di lavorare aveva consumato troppo rapidamente le nostre forze e, in primo luo­go, i nostri quadri. Tuttavia la chiave di tutti gli errori che abbiamo commessi, sia in campo politico che in quello organizzativo dev'essere trovata nel fatto che abbiamo mancato di abilità nel trasformare rapidamente e radicalmente tutti i metodi del nostro lavoro, per non perdere il contatto con nessuno degli strati po­polari che il fascismo si sforza con mille modi di influenzare e di tener legati. Solo nel 1931 il centro del partito ha cominciato a porre i problemi di questa trasformazione, e la lotta per la loro soluzione - a causa anche della resistenza opposta nello stesso centro - non ha cominciato a svilupparsi effettivamente che a partire dalla metà del 1932.

   Le conseguenze di questo ritardo politico del partito si risentono principalmente nei tre campi seguenti: nel modo col quale si sviluppano i movimenti di massa, nella maniera con la quale si presentano i fenomeni della «crisi» interna del fa­scismo e nella acutezza con la quale si pone per noi la questione della gioventù.

   Dal 1930 hanno avuto luogo in Italia, benché con una estensione limitata, un numero abbastanza considerevole di movimenti di massa, di azioni di protesta, di manifestazioni di strada, e anche di scioperi. Ci riserviamo il compito di ana­lizzare con cura, in un prossimo articolo, il carattere di quei movimenti e la par­tecipazione del partito ad essi. Per il momento, ci contenteremo di sottolineare gli elementi caratteristici e fondamentali: la brevità delle manifestazioni, le dif­ficoltà estreme che trovano le masse a dar loro una maggiore portata, la facilità con la quale il movimento può essere rotto e soffocato da una manovra fascista o attraverso qualche concessione economica parziale. Salvo errore, anche in Ger­mania i movimenti di massa hanno oggi un carattere simile; e secondo il nostro parere, basato su una esperienza di parecchi anni, questo carattere non scompari­rà che quando l'avanguardia comunista sarà giunta a stabilire con le masse lega­mi politici e organici estremamente solidi e larghi. Ma per raggiungere questo scopo, non basta diffondere volantini e fare dell'agitazione: in una situazione come la nostra è indispensabile penetrare organicamente e largamente in tutte le formazioni fasciste di massa, è indispensabile che queste organizzazioni diven­gano il campo principale del nostro lavoro di massa. La cosa può sembrare para­dossale, ma è accaduto questo: nelle nostre file si è diffusa la opinione (proprio nel momento in cui il fascismo riusciva a imbrigliare le masse nella sua organiz­zazione e in parte anche ad influenzarle ideologicamente) che era sufficiente al partito lanciare un appello generale alla lotta perché tutti i lavoratori si sollevassero contro la dittatura e perché i loro movimenti si sviluppassero spontaneamen­te fino allo sciopero generale e all'insurrezione. Questa concezione opportunisti­ca, tipica manifestazione della dottrina della spontaneità, ci ha già fatto molto male perché ha impedito di vedere l'ampiezza dei compiti politici e organizzati­vi che incombono sul partito comunista se esso vuol spingere avanti il movimen­to di massa contro la dittatura fascista.

   Quanto ai fenomeni di «crisi» in seno al fascismo, la cosa è ancora più eviden­te. Anche da noi ci sono stati fenomeni di questo tipo. Numerosi sono i militanti fascisti che distribuiscono la nostra stampa e la leggono volentieri. Assai numero­si sono anche i casi in cui i militanti fascisti protestano, manifestano e scioperano con i nostri compagni. Ricordo che una delle nostre organizzazioni ha tenuto una delle sue conferenze sotto la protezione di un forte gruppo di fascisti armati. Ma che accade dopo? Che accade di tutti questi elementi e gruppi influenzati o ad­dirittura interamente conquistati da noi? Siamo stati capaci di riunire tutti questi gruppi ed elementi isolati in modo da far riuscire dal loro movimento una crisi aperta del regime fascista o di qualcuna delle sue formazioni importanti?

   No, non ne siamo ancora stati capaci, e ciò perché ci siamo sempre orientati verso un piccolo lavoro di «rosicchiamento» individuale dell'organizzazione fa­scista e non verso un grande lavoro politico per organizzare in seno a quest'ulti­ma vaste correnti di opposizione suscettibili di divenire un centro di collegamen­to dei numerosi elementi che non sono ancora comunisti né simpatizzanti, ma che sono scontenti perché non si trovano bene e possono essere condotti a lottare contro l'ordine attuale.

   Soprattutto i compagni tedeschi devono fissare la loro attenzione su questo pro­blema. Le squadre d'assalto hitleriane comprendono più operai e nascondono più scontento di quanto non abbia mai conosciuto la Milizia fascista, le circostanze sono molto favorevoli, tuttavia mi sembra fuori di dubbio che finché il partito comunista non sarà riuscito attraverso energiche misure politiche e organizzative ad assumere la guida di questo scontento ed a orientarlo verso scopi politici preci­si, le manovre dei capi fascisti avranno sempre una possibilità di impedire l'e­splosione della crisi generale del regime hitleriano.

   In sostanza non si deve credere che le masse inquadrate, organizzate e influen­zate dai fascisti, possano un bel giorno, spontaneamente, per la sola forza delle cose allontanarsi dal fascismo e venire a noi, alla rivoluzione proletaria. Dobbia­mo cercare queste masse e organizzare il loro passaggio dalla nostra parte.

   Per ciò che riguarda la gioventù, il problema comincia ad assumere un aspetto assai grave, e questa gravità si fa luce anche altrove. L'isolamento del partito dal­le masse è particolarmente sensibile nei confronti dei giovani ai quali il fascismo dedica una attenzione tutta particolare e che non possiedono ancora che poca espe­rienza di lotta di classe. Il fatto più allarmante è che in certi casi si constata uno scarto non solo fra il partito e i giovani, ma anche tra questi e i vecchi quadri operai che hanno l'esperienza della lotta passata e che non si sono mai piegati di fronte al fascismo. Questo scarto è forse dovuto al fatto che le masse dei giova­ni non sono scontente e non sono combattive? Niente affatto. I giovani lavoratori protestano contro le condizioni alle quali il fascismo li costringe e spesso con più violenza degli operai adulti. Ma i giovani sono tutti irreggimentati nelle organiz­zazioni fasciste, mentre gli adulti provano spesso una ripugnanza «morale» a entrare in queste organizzazioni per cercarvi i giovani, per legarsi ad essi, per comunicare loro l'esperienza della lotta passata e dirigerli nella lotta di oggi. Così i giovani si trovano in qualche modo «abbandonati» al fascismo che non trascu­ra né il lavoro, né le manovre, né le parate, né la propaganda sportiva, né tutto ciò che può servire a legarlo con la massa dei giovani.

   Diciamo per concludere che il fascismo svolge tra le masse una azione differen­ziata, molteplice, adattata ad ogni momento e ad ogni categoria, ad ogni fabbri­ca e ad ogni gruppo, ad ogni strato particolare, e che quest'azione non è ancora efficacemente combattuta, perché il partito non è divenuto fino ad ora abbastan­za agile, pronto, coraggioso e sufficientemente tenace nel suo lavoro fra le masse da essere capace di rompere una ad una le maglie dell'organizzazione e della po­litica fascista e aprire la strada alla rivolta delle masse. E' questo, mi sembra, ciò che è oggi la radice principale della resistenza e della forza del fascismo italiano.

   Dovrei forse esporre qui in modo concreto e dettagliato le possibilità che si offrono al nostro partito attualmente di penetrare e di lavorare nell'organizzazio­ne fascista e tra le masse che essa influenza, ma ciò mi obbligherebbe a compiere una analisi completa della situazione in Italia e dei compiti del partito, cosa che supererebbe i limiti di questo articolo. Sarà sufficiente un esempio. Dopo le ulti­me riduzioni di salari (ordinate con un decreto nella primavera di quest'anno, ma applicate fino ad ora in un modo che è lontano dall'essere uniforme, per te­ner conto della resistenza delle masse operaie e per non provocare un troppo grande numero di proteste, di manifestazioni e di lotte simultanee), lo scontento e la volontà di lotta dei lavoratori e in primo luogo degli operai della grande indu­stria aumentano rapidamente. La pressione della massa operaia sull'organizza­zione fascista cresce anch'essa. Essa si traduce in proteste violente da parte degli operai nelle assemblee sindacali, nelle numerose commissioni operaie nominate dagli operai nelle fabbriche, per presentare e difendere le loro rivendicazioni, ecc. Essa si esprime anche in un certo numero di manifestazioni e di episodi di lotta aperta contro i padroni e i fascisti (arresti del lavoro, scioperi sul luogo di lavoro, ecc.) Quali sono di fronte a questa situazione i timori del fascismo? Esso teme che questo scontento e questa spinta delle masse operaie si sviluppino in una se­rie di lotte aperte le quali, pur partendo spesso in grande misura dal terreno e dal seno stesso dell'organizzazione fascista, giungano a superarne l'ambito e a rompere la legalità fascista. Per impedire che la lotta condotta dalle masse e di­retta dal partito comunista raggiunga questo scopo, il fascismo ricorre come di abitudine a una duplice azione. Da una parte rafforzamento del terrore. Notia­mo già due casi, in Lombardia, ove gli operai, dopo aver partecipato in massa alle assemblee fasciste ed eletto una commissione operaia, fecero lo sciopero sul luogo di lavoro non essendo stata soddisfatta nessuna delle loro rivendicazioni. I vari reparti della fabbrica furono allora occupati dalle guardie che con minacce e violenze costrinsero gli operai a riprendere il lavoro. A Milano, dove lo sconten­to è più grande e si manifesta apertamente, sono state operate parecchie centi­naia di arresti nei quartieri operai. Ma, nello stesso tempo, il fascismo lancia una nuova manovra: annuncia improvvisamente che da quel momento gli operai af­filiati ai sindacati fascisti avranno il diritto (s'intende con numerose riserve) di eleggere il segretario del loro sindacato, e che le organizzazioni sindacali locali potranno concludere contratti di lavoro (prima, questo diritto non apparteneva che ai sindacati regionali o nazionali). Questa manovra è legata ad una azione che si sviluppa su un terreno politico molto più vasto e che consiste nell'ottenere la collaborazione aperta di un gruppo molto importante di vecchi capi del parti­to riformista offrendo loro una certa libertà di propaganda e dei posti nell'appa­rato fascista (in primo luogo nell'apparato sindacale) alla sola condizione di ac­cettare i principi del regime corporativo. Assai verosimilmente uno degli scopi perseguiti dai fascisti è quello di presentare alle masse come candidati ai posti di direzione di grandi sindacati locali dei vecchi capi socialisti molto conosciuti. Come far fronte a questa azione politica del fascismo che si sviluppa, come di ordinario, su diversi piani e attraverso metodi molto vari? E' evidente che non ci si può opporre efficacemente ad essa che combinando in modo molto abile e coraggioso il lavoro illegale del partito e dei sindacati di classe con la più larga utilizzazione delle possibilità legali.

   Il partito deve poggiare risolutamente sullo scontento delle masse e sulla loro volontà di lotta. Deve sforzarsi di stimolare con tutti i mezzi la lotta delle masse a favore delle loro rivendicazioni anche le più limitate, che si presentano ogni giorno in ogni fabbrica, in ogni officina. Il partito e la CGL devono, moltiplican­do la loro agitazione illegale, smascherare le manovre e la demagogia dei fascisti, mostrare sulla base di fatti concreti ciò che si nasconde dietro a queste manovre e a questa demagogia e indicare chiaramente la necessità e gli scopi della lotta per il rovesciamento della dittatura. Devono smascherare, nello stesso tempo, quei capi socialdemocratici pronti a dare il loro appoggio aperto al regime fascista. L'a­zione di fronte unico che abbiamo condotto nei confronti del centro emigrato della socialdemocrazia ci ha già aiutati e ci aiuterà molto in tutti questi casi poi­ché ci aiuta fortemente a rovesciare le barriere che separavano fino ad ora gli ope­rai comunisti dagli operai socialdemocratici e contribuisce a far rinascere presso gli operai in generale la fiducia nelle loro forze. Ogni passo in avanti che faccia­mo nella realizzazione di una unità d'azione immediata a favore delle rivendica­zioni operaie e contro il fascismo, è un ostacolo allo sviluppo delle manovre fasci­ste, è un passo compiuto verso lo scatenamento di lotte più grandi di quelle che si svolgono oggi. Ma tutta questa attività politica e organizzativa del partito sa­rebbe insufficiente se non fosse accompagnata dalla più vasta e coraggiosa utiliz­zazione delle possibilità legali offerte dalle stesse manovre del fascismo. Per par­lare concretamente: le elezioni dei segretari dei sindacati, ovunque avranno luo­go, e ancora di più le stesse nuove disposizioni applicate dai fascisti sulla struttu­ra dei loro sindacati devono essere utilizzate dall'avanguardia comunista per su­scitare, influenzare e dirigere vaste agitazioni semilegali e legali, per rafforzare le correnti di scontento e di opposizione dichiarata in seno ai sindacati, per mo­bilitare le masse, rendere popolari le parole d'ordine della lotta economica e po­litica contro il fascismo, per allargare il fronte di combattimento delle masse, per elevare il movimento antifascista di classe a un livello superiore, per avvicinare infine rapidamente la rottura della legalità fascista - scopo di tutta la nostra azione e una delle condizioni fondamentali per imprimere alla lotta contro il fascismo un carattere francamente e risolutamente rivoluzio­nario. Le conseguenze della nostra azione non potranno essere che grandi e favorevoli, a condizione di lavora­re energicamente e di dar prova di attività in tutte le direzioni che ho ora indica­te. L'offensiva del fascismo per ridurre ulteriormente il livello di vita dei lavora­tori si scontrerà allora con una resistenza sempre più grande, le difficoltà alle quali esso dovrà far fronte aumenteranno senza posa, la sua capacità di manovra si re­stringerà considerevolmente, la sua demagogia sarà, di fatto, smascherata dall'azione delle masse e il fascismo non mancherà di imbrogliarsi nelle sue manovre. Di fronte alla situazione difficile creata al regime dalla lotta delle masse, le esita­zioni nelle sfere dirigenti della borghesia non potranno che aggravarsi, i contrasti fra i diversi gruppi della borghesia si accentueranno, contribuendo certamente ad allargare le possibilità di lotta per le masse e il partito, a permetterci di alzare la testa. La contraddizione fondamentale tra il carattere di classe della dittatura fascista e le masse che il fascismo si sforza di influenzare si manifesterà in manie­ra sempre più evidente e brutale. Tutto il sistema politico e organizzativo della dittatura ne sarà scosso. Ma nessuno di questi risultati potrà essere raggiunto se non distruggeremo la posizione dell'attesa e della passività opportunistiche, se resteremo rinchiusi in noi stessi, come una setta staccata dalle masse, incapace di una vasta azione politica per legarsi ad esse, per dirigerle.


Note


[1] Per evitare simili crisi, il fascismo riserba ai suoi quadri la più grande attenzione e li rinnova frequente­mente. La più importante operazione di questo genere è stata compiuta nel momento in cui il fascismo aveva intrapreso l'organizzazione dello Stato «totalitario».
In quell'occasione Mussolini ha fatto una applicazione rigorosa della direttiva conformemente alla quale il fascismo non può organizzare lo Stato con i quadri che avevano servito a conquistare il potere. Tutti i vecchi capi delle squadre, provenienti dalla piccola borghesia, declassati, i vecchi ufficiali, ecc., si sono visti togliere il loro posto di direzione nelle organizzazioni locali del partito fascista e una buona parte di loro si sono rifugiati nei consigli d'amministrazione delle grandi società anonime, delle società di assicurazione, ecc., ove si sono arric­chiti e completamente imborghesiti senza disturbare nessuno. In quel periodo, i posti di direzione delle organiz­zazioni locali erano affidati a rappresentanti diretti dalla borghesia industriale e agraria. Ma in seguito, nei perio­di in cui il movimento delle masse diveniva pericoloso, Mussolini era di nuovo ricorso ai vecchi quadri e sono loro che lo hanno salvato durante la crisi Matteotti, imponendogli una linea intransigente (n.d.a.).

[2] Secondo le ultime statistiche, le organizzazioni fasciste raccolgono dodici milioni di membri, ripartiti come segue
Partito fascista 1.096.000
Gioventù fascista 336.000
Balilla e giovani italiane (ragazzi fino a 15 anni) 3.659 000
Gruppi universitari 53.000
Associazione fascista degli insegnanti 83.000
Associazione fascista degli impiegati di Stato 110.000
Associazione degli operai dell'industria di Stato 32.000
Associazione fascista dei ferrovieri 99.000
Associazione degli impiegati postelegrafonici 48.000
Sindacati fascisti (di cui 1.659 000 operai dell'industria) 4.042.000
Dopolavoro 2.000.000
Casse mutue 1.200.000
(n.d.a.)

[3] Cfr. VI. LENIN, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale, in Opere com­plete, v. 33, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 397.