L'organizzazione del partito
e del suo lavoro tra le masse
al centro della resistenza contro il fascismo

Questo scritto di Pietro Secchia è stato pubblicato nel Quaderno di Rinascita n. 2: "Trenta anni di vita e lotte del P.C.I.", 1951, pp. 85-89.


  Nel 1926, alla vigilia dello scioglimento di tutti i partiti e della promulgazione delle leggi eccezio­nali fasciste per la cosiddetta «difesa dello Stato», il Partito comunista era già stato costretto da tempo a un funzionamento semilegale.

   Fatta eccezione della redazione del quotidiano l'Unità a Milano, il partito non disponeva di altre sedi legali. Solo in alcune grandi città era possibile ai comunisti riunirsi qualche volta legalmente, ma sempre correndo il rischio che arrivassero la poli­zia e i fascisti a bastonarli e arrestarli. In tutte le altre città e nei villaggi sin dalla seconda metà del 1922 i comunisti non potevano più avere una sede, nè riunirsi liberamente. Gli stessi locali delle camere del lavoro, dei sindacati, delle cooperative, dopo essere stati incendiati e saccheggiati erano passati nelle mani delle organizzazioni fasciste. Solo a Milano, a Torino e a Roma esisteva qualche ufficio della Confederazione generale del lavoro allora diretta dai riformisti.

   Le riunioni dei compagni avevano luogo a piccoli gruppi, in case private, in cascinali, nei boschi, in montagna. Solo alcune decine di compagni in tutta Italia, sia pure continuamente vigilati, seguiti e perseguitati dalla polizia e dai fascisti, potevano presentarsi e lavorare apertamente come comunisti ed erano i quindici deputati comunisti e una ventina di redattori e corrispondenti del quotidiano l'Unità.

   Le organizzazioni del proletariato, i sindacati, le camere del lavoro, la stampa comunista e socia­lista erano già stati soppressi di fatto. Si pubbli­cavano sì alcuni quotidiani antifascisti, ma essi erano sottoposti a continui sequestri. Nelle pro­vince poi era impossibile la pubblicazione di qual­siasi settimanale o periodico comunista. Il diritto di sciopero praticamente era già stato abolito e solo i sindacati fascisti avevano il potere di trattare con gli industriali.

   Le commissioni interne nella maggior parte delle fabbriche non esistevano più e in quelle poche dove ancora esistevano di nome, erano messe nell'im­possibilità di funzionare. Le amministrazioni comu­nali socialiste e comuniste erano state sciolte e alla testa dei comuni il fascismo aveva imposto i «podestà».

   Però anche in quelle condizioni le possibilità di lavoro del partito erano ancora notevoli rispetto al periodo che seguirà, anche perchè le decine e decine di compagni che ogni giorno venivano arre­stati per attività comunista, venivano quasi sem­pre rilasciati dopo pochi giorni in quanto l'esi­stenza del Partito comunista era giuridicamente riconosciuta.

   Ma le possibilità di lavoro erano ancora notevoli soprattutto perchè ci trovavamo in un periodo di ripresa della lotta delle masse. Il partito contava allora ventimila iscritti o poco più, era un partito di quadri, di propagandisti, e sino al 1924 aveva avuto scarsi legami con le masse lavoratrici. Ma questi legami e la sua influenza erano andati au­mentando dal 1924 in poi.

   Era chiaro che solo con delle misure drastiche e terroristiche che sopprimessero ogni residuo di libertà, il fascismo sarebbe riuscito a mantenere in schiavitù la classe operaia e i lavoratori e a fare fronte alla minaccia di crisi economica con una riduzione generale dei salari.

   L'attentato di Bologna contro Mussolini diede il pretesto per la promulgazione, il 7 novembre 1926, delle leggi per la cosiddetta «difesa dello Stato».

   Tutti i partiti, i sindacati, le organizzazioni demo­cratiche, i circoli vennero sciolti, soppressa tutta la stampa non fascista, annullati tutti i passaporti. Venne istituita la deportazione e il confino per ogni persona sospetta al regime, ristabilita la pena di morte, istituito il Tribunale speciale, decretate pene varianti da 5 a 20 anni di reclusione per chi tentasse di ricostituire i partiti disciolti, o apparte­nesse o facesse propaganda per tali partiti.

   In pochi giorni migliaia di comunisti furono ar­restati e deportati. Malgrado l'immunità parla­mentare furono arrestati i compagni deputati. Per­demmo allora il compagno Gramsci, che non doveva più riacquistare la libertà. Con Gramsci, Scoccimarro, Terracini e tanti altri furono poi condan­nati a venti e più anni di reclusione per attività svolta prima che quelle leggi fossero promulgate.

   Il nostro partito subì un rude colpo, fu però il solo a rispondere alle leggi eccezionali con grande slancio e più forte attività. Gli altri partiti si sot­tomisero ai decreti fascisti e crollarono come ca­stelli di carta di fronte all'offensiva fascista. Essi avevano sempre avuto un carattere essenzialmente elettorale ed erano del tutto inconsistenti per la organizzazione e i quadri. Il Partito popolare (oggi democratico cristiano), il Partito liberale e altri si sciolsero. I loro dirigenti si inserirono nelle or­ganizzazioni fasciste o si ritirarono a vita privata. Un gruppo di dirigenti dei partiti socialdemocratico e repubblicano trasportarono le loro tende all'estero, sostenendo che in Italia non c'era più niente da fare se non attendere che passasse la bufera.

   Il Partito comunista rimase sulla breccia e per parecchi anni vi rimase da solo, impegnando quella lotta senza tregua contro il fascismo che doveva durare ininterrottamente sino alla caduta del regi­me della tirannia. Malgrado i colpi che ogni giorno riceveva dalla polizia, malgrado l'arresto e la con­danna a lunghe pene di centinaia di compagni, il partito continuò la sua attività e il suo combat­timento; pubblicò giornali e manifesti clandestini, li diffuse tra i lavoratori, ricostituì clandestina­mente nel febbraio 1927 la Confederazione gene­rale del lavoro (dichiarata sciolta dai traditori riformisti e da essi praticamente consegnata nelle mani del fascismo), dette vita a nuclei sindacali nelle fabbriche, preparò e diresse scioperi e agita­zioni di carattere economico e politico, lottò per l'unità della classe operaia e dei lavoratori e per impedire la realizzazione dei piani di guerra fa­scisti.

   Il partito dimostrò allora di essere veramente un'organizzazione di combattenti e di avere co­scienza della sua funzione. Dimostrò di avere co­scienza che non solo doveva continuare la lotta, ma non doveva perdere i suoi legami con le masse dei lavoratori. Perchè una cosa sarebbe stata quella di mantenere in vita una piccola, ristretta organiz­zazione di carbonari, la quale avesse avuto solo lo scopo di tenere legati cospirativamente i suoi ade­renti, di mantenere segretamente viva la «fiamma dell'ideale», di condurre un limitato lavoro di educazione politica sulla base di letture di studi marxisti, ed altra cosa invece era il proporsi di riuscire a fare veramente vivere il partito. Un Par­tito comunista vive in quanto lotta e lotta non come un pugno di disperati, ma come avanguardia cosciente alla testa delle masse. Staccato dalle masse, inattivo o con un'attività chiusa, settaria, il partito cessa di essere avanguardia cosciente e organizzata della classe, cessa di essere Partito comunista.

   Quest'attività costava forti sacrifìci e nella lotta contro un nemico che disponeva di mezzi enormi, le perdite nei primi diciotto mesi di lavoro furono assai gravi. Centinaia e centinaia di compagni, i migliori quadri furono arrestati. Nel corso di 18 mesi ogni federazione perse tre o quattro volte quasi per intiero il suo comitato federale.

   D'altra parte, per quanto il partito non fosse passato di colpo alla completa illegalità, ma vi fosse giunto in un certo senso gradatamente, attra­verso un periodo di semiclandestinità durato dal­l'ottobre 1922 all'ottobre 1926, tuttavia non si può dire che vi fosse stata una seria e sufficiente preparazione all'illegalità e che vi fosse una larga esperienza di lavoro cospirativo. Anzi, uno degli errori che contribuì ad aggravare le perdite fu quello di credere che con le leggi eccezionali non c'era nulla di mutato perchè, si diceva, «praticamente noi comunisti eravamo già nell'illegalità anche prima». Questo modo di pensare era sbagliato non solo perchè tra il periodo della semiclandestinità precedente al novembre 1926 e quello di dopo c'era una notevole differenza per le possibilità «le­gali» di lavoro, ma perchè c'era «qualcosa» di mutato anche politicamente. Il passaggio del fasci­smo al sistema completamente totalitario (succe­duto al sistema di compromesso con altri gruppi politici), la soppressione completa del parlamenta­rismo, della libertà di stampa e di organizzazione, l'inquadramento delle masse lavoratrici volenti o nolenti nelle organizzazioni fasciste (sindacati, dopolavoro, giovanili, ecc.), le leggi eccezionali, il Tribunale speciale, ecc. mutavano i rapporti di forza tra le classi in contrasto, mutavano l'influenza dei vari partiti tra le masse, muta­vano cioè le condizioni nelle quali si svolgeva la lotta politica. La sot­tovalutazione dell'importanza di questi mutamenti impedì che ad essi si facesse fronte tempestiva­mente e in modo adeguato modifi­cando rapidamente non solo le norme di organizzazione e i metodi di. la­voro, ma sotto molti aspetti anche l'impostazione politica della nostra attività.

   Il partito doveva sì rispondere co­me aveva risposto alla nuova offen­siva reazionaria fascista, ma avrebbe dovuto trovare subito nuove forme di organizzazione, nuove forme di lavoro di massa che non espones­sero l'avanguardia a colpi troppo gravi da parte della polizia e non la isolassero dalle masse.

   Si sarebbero dovuti creare subito comitati federali, di zona, di settore, di cellula, assai più ristretti, spezzettare e decentrare di più le organizzazioni di base, collegarle tra di loro in modo diverso, cambiare in gran parte i sistemi e i criteri di funzionamento del precedente periodo di semilegalità, oramai noti alla polizia, sostituire ai posti di responsabilità i vecchi compagni conosciuti che costituivano tanti fili per l'Ovra, creare compartimenti stagni fra le diverse parti dell'organizzazione del partito ; separare di più il partito dall'organizzazione sindacale, sviluppare l'attività sindacale e tutte le attività di massa in forme più elementari ed elastiche utilizzando ogni più piccola possibilità legale; adottare tanto per il partito quanto soprattutto per i sindacati una forma di tesseramento più mascherata e tale da non offrire facilmente la occasione di arresti e perquisizioni e la prova alla polizia che questo o quest'altro compagno erano iscritti al partito e quindi passibili di forti condanne. Avremmo dovuto costituire dei comitati di riserva, distribuendo in modo diverso il lavoro e dosando di più l'impiego dei quadri nel lavoro operativo e di prima linea.

   Sotto un certo aspetto si trattava di sapersi «ritirare» a tempo, di evitare di consumare troppo rapidamente le forze e specialmente i quadri, di non bruciare le forze migliori in continui e logoranti attacchi frontali, in condizioni insostenibili. Avrem­mo dovuto renderci conto in tempo di quelle che erano le nostre forze, le nostre possibilità reali, e adeguare il loro impiego come pure le forme di organizzazione e di lotta alla situazione e alle prospettive del suo sviluppo. Avremmo dovuto renderci conto prima della necessità di lavorare a «minor costo» perchè dovevamo «durare», es­sere in grado di condurre attivamente la lotta contro il fascismo non solo per sei mesi o per un anno, ma sino al suo abbattimento e alla vittoria dei lavoratori.


«Manovrare con le riserve - ha scritto Stalin - in modo da potersi ritirare in buon ordine quando il nemico è forte, quando la ritirata è inevitabile, quando è visibilmente dannoso accettare la battaglia che il nemico vuole imporre e quando la ritirata, dato il rapporto delle forze in presenza, è l'unico mezzo per sottrarre l'avanguardia al colpo che la minaccia e conservare le riserve».


Ma l'errore più grave fu di carattere politico e fu quello di non portare rapidamente il centro di gravità di tutto il nostro lavoro di massa nelle file stesse del nemico, di non portare la nostra azione politica nelle forme opportune in seno alle organiz­zazioni di massa costituite e controllate dal fasci­smo: sindacati fascisti, dopolavoro, mutue, asso­ciazioni sportive, culturali, cooperative, utiliz­zando largamente per lo sviluppo della nostra azione ogni più piccola possibilità legale e combinando il lavoro illegale con il lavoro «legale».

   Il ritardo non fu quindi solo organizzativo, fu essenzialmente un ritardo politico, anzi, uno degli errori fu proprio quello di ostinarsi per un certo tempo a ritenere che le nostre perdite gravi fossero il risultato solo di difetti, di deficienze, di errori nel campo dell'organizzazione, che fosse sufficiente, per riparare, procedere a modificazioni strutturali delle forme di lavoro, stabilire sistemi di collega­mento diversi, criteri diversi di funzionamento. L'errore fu di ritenere che tutto potesse risolversi mutando e migliorando il lavoro organizzativo. Così assieme all'errore iniziale di non avere dato sufficiente attenzione ai problemi di organizzazione, venne ad aggiungersi quello di considerare i pro­blemi organizzativi a sè, staccati dai problemi poli­tici, mentre in realtà non esiste nessun problema organizzativo che possa essere posto e considerato a sè, avulso e staccato dall'attività politica e di massa del partito.


«E' impossibile, - dice Stalin, - che un partito avente un politica giusta possa deperire per qualche errore di organizzazione. Questo non è mai accaduto. L'essenziale della vita e del lavoro del partito non risiede nelle forme di organizzazione che esso assu­me e può assumere a un dato momento, ma nella politica esterna e interna del partito. Se la politica del partito è giusta, se questo si pone giustamente i problemi politici ed economici che hanno un'im­portanza decisiva per la classe operaia, allora i di­fetti di organizzazione non possono avere un'influen­za preponderante; la politica salverà il partito. E' sempre stato cosi, sarà sempre così».


Se sin dal primo momento era stato a tutti chiaro che il partito doveva saper lottare in qualsiasi con­dizione mantenendo i legami con le larghe masse lavoratrici, non fu subito chiaro che cosa dovevamo fare effettivamente per riuscire in quelle condizioni a mantenere i legami con le masse lavoratrici, con tutti gli strati del popolo e che cosa dovevamo fare perchè la nostra lotta fosse sempre più ampia, muovesse un numero sempre più grande di lavoratori.

   Era questo un problema essenzialmente politico e non solo di organizzazione,


«Il ritardo del nostro partito - scriveva il compa­gno Togliatti verso la fine del 1934 - è stato un ritar­do essenzialmente politico. La chiave di tutti gli erro­ri che noi abbiamo commessi tanto nel campo politico quanto in quello dell'organizzazione dev'essere ricer­cata nel fatto che noi non fummo capaci di trasfor­mare rapidamente e radicalmente tutti i metodi del nostro lavoro al fine di non perdere il contatto con nessuno degli strati popolari che il fascismo si sfor­za in mille modi di influenzare e di tenere legati... Il partito non comprese interamente e a tempo op­portuno che l'instaurazione di una dittatura fascista totalitaria esige dall'avanguardia comunista non il restringimento della sua azione politica e delle sue manovre, ma che essa la estenda, faccia della poli­tica, arditamente, senza concedere tregua al nemi­co e combattendolo in tutti i campi. E anche quan­do questa necessità fu compresa non sapemmo trarne rapidamente tutte le conseguenze».


Se è vero che sin dal primo momento il partito aveva avuto chiara coscienza che la sua attività non doveva essere quella di una setta ristretta di propagandisti, ma doveva avere per obiettivo di organizzare le larghe masse e portarle alla lotta contro il fascismo, in pratica però restava in molti campi su posizioni puramente propagandistiche e che non potevano in quella situazione avere un seguito tra le larghe masse.

   Nei primi mesi del 1927 ad esempio il partito affermava:


«La parola d'ordine: fuori dai sindacati fascisti, tutti nei sindacati di classe, è sempre attuale, è però necessario completarla con l'altra parola d'ordine: il proletariato italiano deve ricostruire e difendere la C.G.d.L. e le camere del lavoro contro il fascismo e contro i capi riformisti».


Orbene questa posizione, giusta nei primi anni della dittatura fascista, quando le organizzazioni che il fascismo cercava di mettere in piedi per ingannare e fare prigionieri i lavoratori non erano ancora organizzazioni di massa, era del tutto insuf­ficiente e puramente propagandistica nel 1927, do­po la proclamazione delle leggi eccezionali e dopo che la grande maggioranza, per non dire la totalità dei lavoratori era costretta a fare parte delle orga­nizzazioni del fascismo.

   Pur facendo tutti gli sforzi per ricostruire nelle forme opportune i sindacati di classe, dal momento che la grande maggioranza dei lavoratori era co­stretta ad aderire ai sindacati fascisti, noi avremmo dovuto avere una larga attività in seno ai sinda­cati fascisti, e nelle altre organizzazioni di massa del fascismo (dopolavoro, associazioni fasciste, cul­turali, ecc.), là avremmo dovuto portare il centro di gravità del nostro lavoro.

   Il partito aveva saputo continuare con slancio, con coraggio il lavoro illegale, cambiare i suoi appa­rati, la struttura dei suoi organismi, sostituire i compagni arrestati con altri e tutto questo doveva essere fatto. Bisognava continuare a rafforzare il lavoro illegale, consolidare l'apparato illegale del partito, ma questo non era sufficiente, bisognava anche conferirgli la massima elasticità e porlo in condizione da. poter effettuare una larga combina­zione dei metodi di lavoro illegali con quelli legali o semilegali. Si trattava perciò di portare il centro di gravità del lavoro di tutti gli iscritti al partito e delle organizzazioni illegali in seno alle organizza­zioni di massa del fascismo. Questo è quello che non sapemmo fare in tempo e la conseguenza fu che il partito e i suoi iscritti si isolarono per lunghi periodi dalle larghe masse e dalla loro attività quotidiana.

   Per quanto le organizzazioni di massa del fasci­smo avessero una scarsissima vita democratica, tuttavia esse offrivano certe possibilità di lavoro «legale». Di tanto in tanto delle riunioni venivano convocate dai sindacati e dalle organizzazioni dopo­lavoristiche, gli iscritti vi potevano prendere la pa­rola, certe cariche locali erano elettive; nelle fab­briche, in determinate situazioni, era possibile no­minare, sotto la copertura del sindacato fascista, delegazioni operaie per trattare con i padroni, per organizzare di fatto una agitazione. Sotto la mascheratura del sindacato fascista vi erano operai che riuscivano a guidare delle agitazioni e dirigere degli scioperi, e per questa attività erano condan­nati a pene molto leggere, la multa o alcune set­timane di carcere. Per contro accadeva spesso che compagni semplicemente iscritti all'organizzazione clandestina del partito erano arrestati e condannati a lunghi anni di carcere prima ancora che avessero potuto svolgere una qualsiasi attività (in altri casi la loro attività si era limitata a tenere qualche collegamento interno) solo perchè era stata accer­tata la loro appartenenza al partito.

   Anche al centro del partito, inizialmente, vi fu incertezza e indecisione sulla tattica dello sfrutta­mento di tutte le possibilità legali e sulla opportu­nità di portare il centro di gravità del lavoro allo interno delle organizzazioni avversarie. Queste in­certezze erano determinate oltreché dalla sottovalu­tazione dei mutamenti avvenuti nella situazione, dal timore di fare il giuoco dell'opportunismo.

   La situazione di terrore creata dal fascismo gene­rava condizioni favorevoli allo sviluppo di posi­zioni opportunistiche di destra e di sinistra. Infatti l'opportunismo capitolatore si manifestò in for­me molto acute nel 1929-1930 al centro del par­tito con Tasca, Silone, i tre, i quali sostenevano che era pazzia continuare a lavorare in Italia. La situazione italiana, essi dicevano, è caratterizzata dalla passività delle masse e dalla dittatura del fa­scismo che riesce a tenere nell'immobilità i lavora­tori e le opposizioni antifasciste. In questa situazio­ne sarebbe pura follia volere continuare un lavoro di massa, di agitazione, di propaganda, ecc. Al partito non rimane oggi che attendere il cambiamento della situazione per effetto di movimenti spontanei o per l'intervento di altri fattori, limitare al minimo il suo lavoro in Italia, fare delle scuole all'estero, ecc.

   Per gli opportunisti non c'era altro dilemma: o non fare niente e restare in piedi o battersi ed essere abbattuti. Naturalmente essi sceglievano senza esitazione la prima soluzione: il non fare niente. In realtà questo dilemma non esisteva. Si trattava invece di battersi adeguando la lotta e i suoi metodi alla situazione, impiegando cioè metodi di lotta che meno esponessero i lavoratori alle rappresaglie e al terrorismo del nemico, lavorando sempre a contatto con le masse, dappertutto dove esse si trovavano.

   Il problema della utilizzazione di tutte le possi­bilità «legali» e della ricerca dei metodi più«eco­nomici» di lotta aveva senza dubbio anche l'aspetto di una ritirata; è sempre spiacevole e perciò è con riluttanza che ci si decide a una ritirata. In certe condizioni però la ritirata non solo è una necessità, ma la premessa, la condizione indispensabile per ogni ulteriore controffensiva, per il successo poli­tico. Tuttavia non è sempre facile effettuare decisa­mente e tempestivamente una rapida ritirata soprat­tutto quando vi sono delle correnti opportunistiche che vorrebbero la capitolazione.


«In sostanza, - scriveva il compagno Togliatti nel 1928 - ritirarsi organizzativamente non volle dire altro per noi che fare la ricerca dei metodi che ci dovevano permettere di continuare a esistere, a fun­zionare, a essere attivi nonostante tutto. Anche qui però è dubbio se la cosa fu sin dal primo momento evidente per tutti i compagni».


I timori e le incertezze iniziali erano anche deter­minate dal fatto che i traditori riformisti, i D'Ara­gona, i Rigola e soci, dopo aver praticamente conse­gnato la Confederazione generale del lavoro nelle mani del fascismo, avevano dato vita col permesso di Mussolini al cosiddetto movimento dei Problemi del lavoro, che apparentemente aveva lo scopo di sfruttare le possibilità «legali», ma il cui obiet­tivo reale era quello di fare accettare ai lavoratori i sindacati fascisti.

   Vi era una profonda differenza, un abisso tra le nostre posizioni e quelle dei riformisti Rigola e D'Aragona. Questi non si proponevano di sfruttare la «legalità» fascista per lottare contro il fascismo, per aprire la strada a un movimento sindacale di massa, per portare alla lotta contro il regime fasci­sta le larghe masse dei lavoratori, per disgregare dall'interno le organizzazioni fasciste. I Rigola i D'Aragona si ponevano invece sul terreno del fascismo, accettavano i principi della collabora­zione di classe e del corporativismo, accettavano la legge, l'ideologia, l'autorità del fascismo, recla­mavano solo una certa libertà di critica e discus­sione nell'interno di questi sindacati. Essi si propo­nevano di migliorare i sindacati fascisti, di renderli più accetti agli operai. Non si trattava più di sfrut­tamento delle possibilità legali, ma di vero e pro­prio tradimento.

   La nostra posizione era completamente diversa, ma questa differenza, chiara per noi, non sempre appariva così chiara alle larghe masse e anche a molti compagni. Alla base vi erano senza dubbio forti manifestazioni di opportunismo nella pratica, che si nascondevano dietro una fraseologia rivolu­zionaria. Vi era il compagno che si riteneva un «eroe» perchè malgrado tutte le pressioni, la disoccupa­zione e le violenze si rifiutava di aderire al sinda­cato fascista e diceva altezzosamente: «non metterò mai piede là dentro». In molti casi i sacrifici che certi compagni sostenevano, e il coraggio che dimo­stravano erano veramente eroici. Ma non si fa della politica solo con l'eroismo. Nella maggior parte dei casi non si trattava però di eroismo. In realtà era molto più facile, meno rischioso per molti compa­gni restarsene tranquillamente a casa la sera o alla osteria, che non andare al sindacato fascista, nella sede del dopolavoro a prendere contatto con i lavo­ratori, a consigliarli, a discutere con essi dei loro problemi, a orientarli, a dirigerli.

   Ancora nel luglio 1934 il compagno Togliatti scriveva:


«Sulla linea dello sfruttamento delle possibilità legali per lo sviluppo del movimento di massa il par­tito nel suo complesso non c'è ancora. Vi sono an­cora troppi dubbi, troppe resistenze, troppo settari­smo che si manifesta nella pratica».


Praticamente l'opportunismo di destra e il set­tarismo giungevano alla stessa conclusione: «Non fare niente». Queste lentezze di tutto il partito a lavorare in seno alle organizzazioni avversarie erano senza dubbio il risultato di residui di posi­zioni settarie e bordighiane, di residui di infanti­lismo di sinistra.

   All'inizio non fu chiaro a tutti i compagni che cosa doveva intendersi per sfruttamento delle possibilità legali. Anche qui, in principio, si vedeva essen­zialmente solo l'aspetto organizzativo e cioè si approfittava delle possibilità che i ritrovi dei sinda­cati e dei dopolavoro offrivano per incontrarsi in quei locali con altri compagni, tenere piccole riu­nioni, senza doversi dare l'appuntamento al caffè o in case private sottoposte a maggiore sorve­glianza. Si approfittava delle riunioni dei sinda­cati fascisti, delle gite e manifestazioni orga­nizzate dai dopolavoro per incontrarsi con altri lavoratori, fare della propaganda spicciola. In realtà l'utilizzazione delle possibilità legali do­veva essere vista con assai più ampia visuale e cioè per costituire in seno alle organizzazioni fasciste vere e proprie frazioni, correnti legali e utilizzarle abilmente per condurre una campagna contro le posizioni del fascismo, contro la direzione fascista delle organizzazioni, per condurre un lavoro di disgregazione di tutto il regime, per rafforzare le correnti di malcontento e di opposizione aperta in seno ai sindacati, per popolarizzare certe parole d'ordine di lotta economica e politica, per portare il movimento antifascista e la lotta di classe a un livello superiore, per arrivare a rompere la «lega­lità» fascista.

   Quando i compagni impararono a lavorare nello interno dei sindacati, dei dopolavoro, delle organiz­zazioni sportive e delle organizzazioni giovanili fasciste, riuscirono in parecchie località a conqui­stare posti di direzione e a utilizzare questi posti per sviluppare una azione aperta, per sostenere determinate rivendicazioni, per difendere all'interno del sindacato gli interessi degli operai, per dirigere scioperi e agitazioni, per condurre un lavoro di disgregazione dei sindacati stessi, e per sottrarre la gioventù all'influenza del fascismo.

   Il fascismo aveva sviluppato senza risparmio di mezzi una larga azione, e non senza risultati, per la fascistizzazione della gioventù, era riuscito a irregimentare la grande maggioranza della gioventù nelle sue organizzazioni. Per molto tempo questi giovani furono abbandonati a sè stessi. Fu solo quando venne intrapreso, allargato e sviluppato tenacemente il lavoro in seno alle organizzazioni giovanili fasciste che cominciarono a crearsi quei nuclei di giovani studenti, di giovani operai, di giovani contadini, di intellettuali che dovevano poi insorgere contro il fascismo e dimostrare tutta la loro combattività, tutto il loro entusiasmo, tutta la loro fede nella lotta contro l'invasore tedesco e i traditori fascisti dopo l'8 settembre e nella guerra partigiana, nella guerra di liberazione nazionale.

   Le esperienze fatte nella lotta contro il fascismo e contro le manifestazioni di destra e di sinistra nel periodo della completa illegalità, fecero fare al partito altri grandi passi in avanti sul terreno poli­tico e organizzativo. La lotta contro l'opportuni­smo chiarì a tutti i compagni i problemi della fun­zione del partito, il valore della sua iniziativa poli­tica e della sua azione. Imparammo che ciò che importa è soprattutto l'attività esterna del partito, l'attività che il partito conduce per creare determi­nate condizioni per la vittoria. Nel 1927-28 discus­sioni molto profonde e vivaci si erano avute nel partito sulle prospettive politiche e storiche.


«Discussioni molto interessanti, - ebbe a scrivere il compagno Togliatti - ma mentre noi discutevamo, il fascismo gettava le basi della sua organizzazione di massa e le nostre organizzazioni di partito co­minciavano sotto i colpi della reazione a disseccarsi, a ripiegarsi su sè stesse, ad accontentarsi di una vita esclusivamente interna e settaria, ad isolarsi dalle masse».


Molti compagni appresero dai fatti e dall'espe­rienza che le norme organizzative non sono norme fisse, buone per tutti i tempi e per tutte le situa­zioni, che i problemi organizzativi non vanno visti ed esaminati separatamente dai problemi politici. Imparammo a considerare lo sviluppo del partito non solo come un problema di sviluppo numerico e di educazione dei suoi membri, ma essenzialmente come un problema di attività di tutti gli iscritti, come un problema di ricerca di forme molteplici di organizzazione, anche nel campo dell'avversa­rio, che permettessero di legarsi con i lavoratori, di muoverli, dirigerli.

   Il partito imparò che per battere il nemico e scuoterne la dittatura non basta saper lottare, ma occorre, in ogni condizione, saper lottare alla testa delle masse, occorre sapersi mantener sempre legati alle masse, essere capaci di sviluppare la più vasta azione politica in tutte le direzioni per la conquista della maggioranza.

Pietro Secchia