Antonio Gramsci
La crisi italiana


Relazione al Comitato centrale del PCd'I del 13-14 agosto 1924, pubblicata su «L'Ordine Nuovo», 1° settembre 1924, serie III, I, n. 5. Il testo è ripreso dal volume "Da Gramsci a Berlinguer, La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, vol. I, 1921-1943, a cura di Renzo Pecchioli, Edizioni del Calendario, Marsilio Editori, Venezia 1985, pp. 238-246.


  La crisi radicale del regime capitalistico, iniziatasi in Italia così come in tutto il mondo con la guerra, non è stata risanata dal fascismo. Il fascismo, con il suo metodo repressivo di governo, aveva reso molto difficili e, anzi, quasi totalmente impedito le manifestazioni politiche della crisi generale capitalistica; non ha pe­rò segnato un arresto di questa e tanto meno una ripresa e uno sviluppo dell'eco­nomia nazionale. Si dice generalmente e anche noi comunisti siamo soliti affer­mare che l'attuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi me­die: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell'economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce più e non potrà più riuscire a soddisfare le esigenze vitali del po­polo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo «fascista». Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di que­sta crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletaria­to ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l'incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitali­stica nei suoi confronti.

   Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nes­suna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nes­suna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non basta­va per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo-borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e quindi la lotta non solo contro i partiti ope­rai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti poli­tici non fascisti, contro tutte le associazioni non direttamente controllate dal fa­scismo ufficiale.

   Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo della industria e dato il carattere regionale dell'industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe «territorialmente» nazionale: la crisi capitalistica aveva as­sunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente pa­triottica e non c'era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la clas­se operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana.

   Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azien­da: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stri­tolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza svi­luppo dell'apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenu­to proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire. L'applicazione della violenza fascista per costringere i risparmia­tori ad investire i loro capitali in una determinata direzione non ha dato molti frutti per i piccoli industriali: quando ha avuto successo, non ha che rimbalzato gli effetti della crisi da un ceto all'altro, allargando il malcontento e la diffidenza già grandi nei risparmiatori per il monopolio esistente nel campo bancario, ag­gravato dalla tattica dei colpi di mano cui i grandi imprenditori devono ricorrere nell'angustia generale per assicurarsi credito.

   Nelle campagne il processo della crisi è più strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi il bilancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli proprietari è stato gravato di un passivo di circa 7000 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell'Italia settentrionale e centrale. Nel Mezzogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l'as­senza dell'emigra­zione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminuzione della superficie coltivata e quindi del rac­colto. Il raccolto del grano è stato l'anno scorso di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato su scala nazionale superiore alla media, ma è stato inferiore alla media nel Mezzogiorno. Quest'anno il raccolto è stato inferiore alla media in tutta Italia; è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata, le quali impediscono alla crisi di rivelarsi subito in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitali­smo: tuttavia già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento po­polare determinato dal disagio economico.

   La crisi generale del sistema capitalistico non è stata dunque arrestata dal regi­me fascista. In regime fascista le possibilità di esistenza del popolo italiano sono diminuite. Si è verificata una restrizione dell'apparato produttivo proprio nello stesso tempo in cui aumentava la pressione demografica per le difficoltà dell'e­migrazione transoceanica. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro, dal carovita: ciò ha determinato una emigrazione di operai qualificati, cioè un impo­verimento delle forze produttive umane che erano una delle più grandi ricchezze nazionali. Le classi medie, che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l'espressione della crisi capitalistica in questo periodo.

   Questi elementi, rapidamente accennati, servono solo per ricordare tutta la por­tata della situazione attuale che non ha in se stessa nessuna virtù di risanamento economico. La crisi economica italiana può solo essere risolta dal proletariato. So­lo inserendosi in una rivoluzione europea e mondiale il popolo italiano può riac­quistare la capacità di far valere le sue forze produttive umane e ridare sviluppo all'apparato nazionale di produzione. Il fascismo ha solo ritardato la rivoluzione proletaria, non l'ha resa impossibile: esso ha contribuito anzi ad allargare ed ap­profondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l'esperimento fascista sarà veramente popolare.

   La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua prima manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo net­tamente in minoranza nella zona industriale italiana, cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato. Le elezioni del 6 aprile, avendo mostrato quanto fosse solo apparente la stabilità del regime, rincuoraro­no le masse, determinarono un certo movimento nel loro seno, segnarono l'ini­zio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente suc­cessivi all'assassinio dell'on. Matteotti e che ancora oggi caratterizza la situazio­ne. Le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme: l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista operava potentemente a disciogliere tutti gli organismi dello Stato controllati e dominati dal fascismo, si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parla­mentare. Di qui la inaudita campagna di minaccie contro le opposizioni e l'as­sassinio del deputato unitario. L'ondata di sdegno suscitata dal delitto sorprese il Partito fascista che rabbrividì di panico e si perdette: i tre documenti scritti in quell'attimo angoscioso dall'on. Finzi, dal Filippelli, da Cesarino Rossi e fat­ti conoscere alle opposizioni, dimostrano come le stesse cime del partito avessero perduto ogni sicurezza e accumulassero errori su errori; da quel momento il regi­me fascista è entrato in agonia; esso è sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici, ma è sorretto così come la corda sostiene l'impiccato.

   Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello sta­tista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un ele­mento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a pas­sare alle storie nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane più che nel­l'ordine dei Cromwell, dei Bolivar, dei Garibaldi.

   L'ondata popolare antifascista provocata dal delitto Matteotti trovò una forma politica nella secessione dall'aula parlamentare dei partiti di opposizione. L'As­semblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese: la crisi scoppiata nel campo senti­mentale e morale, acquistò così uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato, un governo antifascista contro il governo fascista. Il Partito fascista fu impotente a frenare la situazione: la crisi lo aveva investito in pieno, devastando le fila della sua organizzazione: il primo tentativo di mobilitazione della milizia nazionale fallì in pieno, solo il 20 per cento avendo risposto all'ap­pello; a Roma solo 800 militi si presentarono alle caserme. La mobilitazione die­de risultati rilevanti solo in poche province agrarie, come Grosseto e Perugia, per­mettendo così di far calare a Roma qualche legione decisa ad affrontare una lotta sanguinosa.

   Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento popolare antifasci­sta; esse rappresentano politicamente l'ondata di democrazia che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le opposizioni si era orientata all'inizio anche l'opinione della grande maggioranza del proletariato. Era dovere di noi comunisti cercare di impedire che un tale stato di cose si consolidasse per­manentemente. Perciò il nostro gruppo parlamentare entrò a far parte del Comi­tato delle opposizioni accettando e mettendo in rilievo il carattere precipuo che la crisi politica assumeva di esistenza di due poteri, di due parlamenti. Se avesse­ro voluto compiere il loro dovere, così come era indicato dalle masse in movi­mento le opposizioni avrebbero dovuto dare una forma politica definita allo sta­to di cose obbiettivamente esistente, ma esse si rifiutarono. Sarebbe stato neces­sario lanciare un appello al proletariato, che solo è in grado di sostanziare un Re­gime democratico, sarebbe stato necessario approfondire il movimento sponta­neo di scioperi che andava delineandosi. Le opposizioni ebbero paura di essere travolte da una possibile insurrezione operaia: non vollero perciò uscire dal terre­no puramente parlamentare nelle questioni politiche e dal terreno del processo per l'assassinio dell'on. Matteotti nella campagna per tenere desta l'agitazione nel paese. I comunisti, che non potevano accettare la forma di blocco di partiti data al Comitato delle opposizioni, furono messi alla porta.

   La nostra partecipazione in un primo tempo al comitato e la nostra uscita in un secondo tempo hanno avuto come conseguenza:
   1) ci hanno permesso di superare la fase più acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici; rimanendo isolato, il nostro partito sa­rebbe stato travolto dall'ondata democratica; 2) abbiamo spezzato il monopolio dell'opinione pubblica che le opposizioni minacciavano di instaurare: una parte sempre maggiore della classe lavoratrice va convincendosi che il blocco delle op­posizioni rappresenta un semi-fascismo che vuole riformare, addolcendola, la dit­tatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefizi che il terrore e l'illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni con l'abbassamen­to del livello di vita del popolo italiano.

   La situazione obbiettiva, dopo due mesi, non è mutata. Esistono ancora di fat­to due governi nel paese che lottano l'un contro l'altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese. L'esito della lotta dipenderà dai ri­flessi che la crisi generale eserciterà nel seno del Partito nazionale fascista, dall'at­teggiamento definitivo dei partiti che costituiscono il blocco delle opposizioni, dall'azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro partito.

   In che cosa consiste la crisi del fascismo? Per comprenderla si dice che occorra prima definire l'essenza del fascismo, ma la verità è che non esiste una essenza del fascismo nel fascismo stesso. L'essenza del fascismo era data negli anni 1922-23 da un determinato sistema dei rapporti di forza esistenti nella società italiana: oggi questo sistema è profondamente mutato e l'«essenza» è svaporata alquan­to. Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell'essere riuscito a costituire un'or­ganizzazione di massa della piccola borghesia. É la prima volta nella storia che ciò si verifica. L'originalità del fascismo consiste nell'aver trovato la forma ade­guata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di ave­re una compagine e una ideologia unitaria: questa forma di organizzazione è l'e­sercito in campo. La milizia è quindi il perno del Partito nazionale fascista: non si può sciogliere la milizia senza sciogliere anche tutto il partito. Non esiste un Partito fascista che faccia diventare qualità la quantità, che sia un apparato di selezione politica d'una classe o di un ceto: esiste solo un aggregato meccanico indifferenziato e indifferenziabile dal punto di vista delle capacità intellettuali e politiche, che vive solo perché ha acquistato nella guerra civile un fortissimo spirito di corpo, rozzamente identificato con l'ideologia nazionale. Fuori del ter­reno dell'organizzazione militare il fascismo non ha dato e non può dare niente, e anche su questo terreno ciò che esso può dare è molto relativo.

   Così congegnato dalle circostanze, il fascismo non è in grado di conseguire nes­suna delle sue premesse ideologiche. Il fascismo dice oggi di voler conquistare lo Stato; nello stesso tempo dice di voler diventare un fenomeno prevalentemen­te rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme è difficile comprende­re. Per conquistare lo Stato occorre essere in grado di sostituire la classe dominan­te nelle funzioni che hanno una importanza essenziale per il governo della socie­tà. In Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo Stato significa anzi­tutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe ope­raia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca non produttiva. La piccola bor­ghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia: sistema soviettista invece che parlamento nell'organizzazione statale, comunismo e non ca­pitalismo nell'organizzazione dell'economia nazionale e internazionale.

   La formula «conquista dello Stato» è vuota di senso in bocca ai fascisti o ha un solo significato: escogitazione di un meccanismo elettorale che dia la maggio­ranza parlamentare ai fascisti sempre e ad ogni costo. La verità è che tutta l'ideo­logia fascista è un trastullo per i balilla. Essa è un'improvvisazione dilettantesca, che nel passato, con la situazione favorevole, poteva illudere i gregari, ma oggi è destinata a cadere nel ridicolo presso i fascisti stessi. Residuo attivo del fascismo è solo lo spirito militare di corpo cementato dal pericolo di uno scatenamento di vendetta popolare: la crisi politica della piccola borghesia, il passaggio della stragrande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni, il fallimento delle misure generali annunziate dai capi fascisti possono ridurre no­tevolmente l'efficienza militare del fascismo, non possono annullarla.

   Il sistema delle forze democratiche antifasciste trae la sua forza maggiore dal­l'esistenza del Comitato parlamentare delle opposizioni che è riuscito a imporre una certa disciplina a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popolare. Che massimalisti e popolari ubbidiscano a una stessa disciplina e lavo­rino in uno stesso piano programmatico, ecco il tratto più caratteristico della si­tuazione. Questo fatto rende lento e faticoso il processo di sviluppo degli avveni­menti e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettati­va, di lente manovre avvolgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al comitato e con l'accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante tra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà più possibile se non molto più tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un'insurrezione delle masse disilluse e del fascismo e del­l'antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce da una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell'ottobre 1922, che diventerebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti del blocco e di una loro alleanza con noi.

   Lo sforzo maggiore dei partiti intermedi (riformisti e costituzionali) aiutati dai popolari di sinistra è stato rivolto finora a questo scopo: mantenere nella stessa compagine i due estremi. Lo spirito servile dei massimalisti si è adattato alla par­te dello sciocco nella commedia: i massimalisti hanno accettato di valere nelle opposizioni quanto il partito dei contadini o i gruppi di «Rivoluzione liberale».

   Le forze più grandi sono portate alle opposizioni dai popolari e dai riformisti che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L'influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l'a­desione di larghi strati dell'esercito, del combattentismo, della corte. La divisio­ne del lavoro di agitazione avviene tra i vari partiti a seconda della loro tradizione e del loro compito sociale. I costituzionali, poiché la tattica del blocco tende a isolare il fascismo, hanno la direzione politica del movimento. I popolari condu­cono la campagna morale sulla base del processo e delle sue concatenazioni col regime fascista, con la corruzione e la criminalità fiorite intorno al regime. I ri­formisti riassumono questi due atteggiamenti e si fanno piccini piccini per far dimenticare il loro passato demagogico, per far credere di essersi redenti e di es­sere tutt'una cosa con l'onorevole Amendola e col senatore Albertini.

   L'atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni ha registrato dei suc­cessi notevoli: è un successo indubbiamente aver provocato la crisi del «fiancheg­giamento», aver cioè obbligato i liberali a differenziarsi attivamente dal fasci­smo e a porgli delle condizioni. Ciò ha avuto già e più avrà in seguito ripercussio­ni nel seno del fascismo stesso, e ha creato un dualismo tra il Partito fascista e l'organizzazione centrale del combattentismo. Ma esso ha spostato ancora a de­stra il punto di equilibrio del blocco delle opposizioni, cioè ha accentuato il ca­rattere conservatore dell'antifascismo: i massimalisti non se ne sono accorti, i mas­simalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Alber­tini, ma anche di Salandra e di Cadorna.

   Come si risolverà questo dualismo di poteri? Ci sarà un compromesso tra il fa­scismo e le opposizioni? E se il compromesso sarà impossibile, avremo una lotta armata?

   Il compromesso non è da escludere assolutamente; esso è però molto improba­bile. La crisi che attraversa il paese non è un fenomeno superficiale, sanabile con piccole misure e piccoli espedienti: essa è la crisi storica della società capitalista italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della popo­lazione. Tutti i rapporti sono esasperati: grandissime masse di popolazione at­tendono ben altro che un piccolo compromesso. Se questo si verificasse, esso si­gnificherebbe il suicidio dei maggiori partiti democratici; all'ordine del giorno della vita nazionale si porrebbe immediatamente l'insurrezione armata coi fini più radicali. Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta col­laboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati. La cronaca quotidiana registra perciò solo un susseguirsi di episodi politici che denotano il disgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma inesorabile del sistema fascista di tutte le forze periferiche.

   Avverrà dunque un urto armato? Una lotta in grande stile sarà evitata sia dalle opposizioni che dal fascismo. Avverrà il fenomeno inverso che nell'ottobre 1922: allora la marcia su Roma fu la parata coreografica d'un processo molecolare per cui le forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali, Vaticano, massoneria, corte, ecc.) erano passate dalla parte del fascismo. Se il fa­scismo volesse resistere, esso sarebbe distrutto in una lunga guerra civile alla qua­le non potrebbero non prendere parte il proletariato e i contadini. Opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo s'impegni. Il fascismo tenderà invece a conservare una base di organizzazione ar­mata da far rientrare in campo appena si profili una nuova ondata rivoluzionaria, ciò che è ben lungi dal dispiacere agli Amendola e agli Albertini e anche ai Tura­ti e ai Treves.

   Il dramma si svolgerà a data fissa, con ogni probabilità; esso è predisposto per il giorno in cui si dovrebbe riaprire la Camera dei deputati. Alla coreografia mili­taresca dell'ottobre '22 sarà sostituita una più sonora coreografia democratica. Se le opposizioni non rientrano nel Parlamento, e i fascisti, come vanno dicendo, convocano la maggioranza come costituente fascista, avremo una riunione delle opposizioni e una parvenza di lotta tra le due assemblee.

   É possibile però che la soluzione si abbia nella stessa aula parlamentare, dove le opposizioni rientreranno nel caso molto probabile di una scissione della mag­gioranza, per cui il governo di Mussolini sia messo nettamente in minoranza. Avre­mo in questo caso la formazione di un governo provvisorio di generali, senatori ed ex presidenti del Consiglio, lo scioglimento della Camera e lo stato d'assedio.

   Il terreno su cui la crisi si svolgerà continuerà ad essere il processo per l'assassi­nio Matteotti. Avremo ancora delle fasi acutamente drammatiche in proposito, quando saranno resi pubblici i tre documenti di Finzi, di Filippelli, di Rossi, e le più alte personalità del regime saranno travolte dalla passione popolare. Tutte le forze reali dello Stato, e specialmente le forze armate, intorno alle quali già si comincia a discutere, dovranno schierarsi definitivamente da una parte o dal­l'altra, imponendo la soluzione già delineata e concertata.

   Quale deve essere l'atteggiamento politico e la tattica del nostro partito nella situazione attuale? La situazione è «democratica» perché le grandi masse lavora­trici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto. Qualun­que possa essere perciò lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo preve­dere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversia­mo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propagan­da, di organizzazione. Ciò naturalmente non esclude che lotte cruente possano verificarsi e che il nostro partito non debba subito prepararsi e essere pronto ad affrontarle, tutt'altro: ma anche queste lotte devono essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza. Se esistono nel nostro partito gruppi e tendenze che vogliano per fanatismo forzare la situazione, occorrerà lottare contro di essi in nome del­l'intiero partito, degli interessi vitali e permanenti della rivoluzione proletaria italiana. La crisi Matteotti ci ha offerto molti insegnamenti a questo proposito. Ci ha insegnato che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono di­ventate molto prudenti e non vogliono fare il passo più lungo della gamba. Que­sta prudenza si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chiama «blocco delle opposizioni». Essa è destinata a scomparire, certamente e anche in un pe­riodo di tempo non lungo; ma intanto esiste e può essere superata solo se noi volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l'insieme della classe lavoratrice. Così dobbiamo lotta­re contro ogni tendenza di destra, che volesse un compromesso con le opposizio­ni, che tentasse di intralciare gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il la­voro di preparazione per la fase successiva.

   Il primo compito del nostro partito consiste nell'attrezzarsi in modo da diven­tare idoneo alla sua missione storica. In ogni fabbrica, in ogni villaggio deve esi­stere una cellula comunista, che rappresenti il partito e l'Internazionale, che sap­pia lavorare politicamente, che abbia dell'iniziativa. Bisogna perciò lottare con­tro una certa passività che esiste ancora nelle nostre file, contro la tendenza a te­nere angusti i ranghi del partito. Dobbiamo invece diventare un grande partito, dobbiamo cercare di attirare nelle nostre organizzazioni il più gran numero pos­sibile di operai e contadini rivoluzionari per educarli alla lotta, per formarne de­gli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente. Lo Stato operaio e contadino può essere costruito solo se la rivoluzione disporrà di molti elementi qualificati politicamente; la lotta per la rivoluzione può essere condotta vittorio­samente solo se le grandi masse sono, in tutte le loro formazioni locali, inquadra­te e guidate da compagni onesti e capaci. Altrimenti si torna davvero, come gri­dano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell'impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della sconfitta delle classi lavoratri­ci. Neanche noi comunisti vogliamo tornare agli anni 1919-20

  . Un grande lavoro deve essere compiuto dal partito nel campo sindacale. Senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare. I ri­formisti possono volere dei piccoli sindacati, possono tentare di formare solo del­le corporazioni di operai qualificati. Noi comunisti vogliamo il contrario dei ri­formisti e dobbiamo lottare per riorganizzare le grandi masse. Certo bisogna por­si il problema concretamente e non solo come forma. Le masse hanno abbando­nato il sindacato, perché la Confederazione generale del lavoro, che pure ha una grande efficienza politica (essa è nient'altro che il Partito unitario) non si interes­sa degli interessi vitali delle masse. Noi non possiamo proporci di creare un nuo­vo organismo che abbia lo scopo di supplire la latitanza della Confederazione; possiamo però e dobbiamo proporci il problema di sviluppare, attraverso le cel­lule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il Partito comunista rappresenta la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli allog­gi, per il pane. Le nostre cellule devono spingere le commissioni interne a incor­porare nel loro funzionamento tutte le attività proletarie. Occorre pertanto susci­tare un largo movimento delle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un'organizzazione di comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore. Questa azione reale nella fabbrica e nel villaggio rivalorizzerà il sindacato, ridonandogli un contenuto e una efficienza, se paralle­lamente si verificherà il ritorno all'organizzazione di tutti gli elementi d'avan­guardia per la lotta contro i dirigenti attuali riformisti e massimalisti. Chi si tiene lontano dai sindacati è oggi un alleato dei riformisti, non un militante rivoluzio­nario: egli potrà fare della fraseologia anarcoide, non sposterà di una linea le fer­ree condizioni in cui la lotta reale si svolge.

   La misura in cui il partito nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli iscritti, riuscirà a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico sarà la misura dei nostri progressi nel cammino della rivoluzione, consentirà il passag­gio a una fase successiva di sviluppo. Tutto il partito, in tutti i suoi organismi, ma specialmente con la sua stampa, deve lavorare unitariamente per ottenere il massimo rendimento del lavoro di ognuno. Oggi siamo in linea per la lotta gene­rale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fasci­smo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati. Per ottenere ciò occorre riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione lavoratrice veda l'espressione del­la sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nel­la storia.