Alcuni interrogativi
per una discussione sull'89

Roberto Gabriele


Siamo nel 1994, ancora dentro le macerie fumanti del muro di Berlino e dell'URSS. L'opuscolo che riproponiamo, pubblicato nel luglio di quell'anno da Laboratorio Politico, collana delle edizioni La Città del Sole di Napoli, era la riedizione di un testo che su Aginform apriva un dibattito sulla nuova situazione. Un dibattito tanto più necessario dal momento che i 'nuovi' comunisti italiani esultavano per la sconfitta delle barbarie del XX secolo definite non solo come errori, ma anche orrori. L'Associazione Stalin è nata anche perchè - stufi di partecipare a nostalgiche rievocazioni e a tentativi editoriali andati in fumo - ci siamo assunti in prima persona l'onere di ricostruire un percorso storico del movimento comunista del secolo scorso. In questo modo abbiamo tenuto fede, almeno in parte, all'impegno da cui prende le mosse il testo che segue



Un punto centrale dell'impegno che ci siamo presi come Movimento per la Pace e il Socialismo dopo la crisi dei regimi socialisti nell'Est dell'Europa è quello di avviare una discussione in profondità sulle ragioni di questa crisi.

A noi è sembrato, dopo l'89, che coloro i quali si richiamano al comunismo nella loro battaglia quotidiana, non potessero evitare di fare i conti con una crisi che metteva a nudo non tanto e non solo la crisi degli altri, bensì le fondamenta stesse del modo di pensare e di agire di coloro che alla crisi stessa erano sopravvissuti.

Bisogna, invero, riconoscere che c'è stato, tra questi "sopravvissuti", un modo singolare di reagire agli avvenimenti. In sostanza c'è stata una rimozione teorica e storica dei riferimenti basilari del marxismo, del leninismo, di quello che normalmente viene definito il socialismo scientifico.

Le ragioni di questa "rimozione" o sono state di natura pragmatica, la realpolitik del programma immediato in nome del quale si supera ogni questione strategica sul comunismo, oppure, apparentemente, di carattere generale sulla rifondazione delle basi del marxismo e del leninismo, senza però fare i conti realmente con essi.

Per coloro che hanno un minimo di conoscenza storico-teorica del movimento comunista, e una giusta dose di onestà, le mistificazioni a cui sopra ho accennato, saltano agli occhi con evidenza.

Purtroppo, però, la polemica con queste posizioni mistificatorie viene fatta, quasi sempre, sulla base di una ortodossia che è puramente formale e che quindi non riesce ad approfondire le questioni e rendere caduchi gli ideologismi e i raggiri dei pragmatici e dei "rifondatori".

La domanda che si pone dunque è: perché ci troviamo in questa situazione?

Per dare una risposta a questo interrogativo dobbiamo analizzare due ordini di questioni. Il primo riguarda il carattere dei movimenti e delle organizzazioni comuniste odierne. Il secondo ordine di problemi è più direttamente legato allo sviluppo degli avvenimenti storici di questi decenni (a partire dalla Rivoluzione di Ottobre) e al loro significato obiettivo; in altri termini al loro significato in rapporto alle basi teoriche del marxismo e del leninismo. (Quando uso il termine marxismo e leninismo, evito volutamente il trattino per evitare di riproporre la "monolitica" concezione che non ha mai prodotto un pensiero vivo e critico tra i comunisti).

L'uscita di questo Quaderno vuole iniziare un dibattito e una ricerca in questa direzione. I contributi che appaiono sono di diversa origine, ma a me sembra che il filo conduttore sia unico: una ricerca seria sulle questioni che la crisi dell'89 ha posto e su come affrontarla. Le risposte non potranno essere certamente immediate e i compagni dovranno avere la pazienza necessaria di seguire un percorso abbastanza difficile e non scontato. Soprattutto dobbiamo dire non scontato perché i problemi posti dalla crisi del movimento comunista non trovano risposta in nessuna delle posizioni oggi esistenti. Quindi, se vogliamo attenerci al carattere scientifico del dibattito e della ricerca, non possiamo far riferimento all'esistente.

Questo percorso ha anche di fronte una grossa trappola che bisogna saper individuare e allo stesso tempo demistificare, o perlomeno ricondurre alla sua esatta collocazione. Questa trappola è rappresentata dal "presente", dagli avvenimenti che si svolgono sotto i nostri occhi e che possono indurre ad una fuoriuscita strategica errata, a forzature interpretative altrettanto errate.

Sia chiaro: la questione non è di negare la realtà in nome dei principi, bensì quella di darne, semmai, una giusta interpretazione. Anche perché nelle forzature "pragmatiche" non c'è solo l'esigenza di coloro che vengono coinvolti nelle vicende quotidiane e che giustamente si muovono per affrontarle (da quelle sociali ed economiche a quelle di carattere più generale e politico), ma si nasconde anche la mistificazione ideologica di forze che hanno interessi e prospettive molto diverse dai comunisti.

Se è vero che il comunismo è il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti" è altrettanto vero che, per i comunisti, la trasformazione del "reale" ha una dimensione dialettica e rivoluzionaria. Sottacere questo ci riporta ad una visione meccanicistica, evoluzionistica e "conservatrice" che è la base di tutte le deformazioni a cui il comunismo rivoluzionario è soggetto.

Per comunismo bisogna intendere dunque non solo il movimento in quanto tale, ma la caratteristica di questo movimento e le potenzialità che esso esprime rispetto all'abolizione della società capitalistica e la riorganizzazione su altre basi della società.

Le esigenze "politiche", la realpolitik — e non a caso — ci fanno dimenticare questo punto di riferimento, senza il quale la parola comunismo perde di significato.

Premesso questo, ritorniamo alle due questioni di fondo poste all'inizio. E' su di esse che noi vogliamo concentrare l'attenzione e la ricerca. Ovviamente, nell'affrontarle mi rendo conto (e ci rendiamo conto come MPS) che non si tratta di esaurirle per arrivare qui e subito a conclusioni programmatiche, bensì di dare un contributo, sia pure modesto, a spostare l'asse della discussione che mi sembra ancorato a dati che riproducono un circolo vizioso.

Una delle operazioni più negative, e certamente non casuali, che sono state fatte nel movimento comunista, è quella di intendere la crisi come crisi all'Est, dei regimi comunisti. Questo ha permesso di eludere la discussione sulla crisi del movimento comunista in quanto tale e sulla identità vera di coloro che a questo movimento si richiamano. In altri termini si è parlato della crisi all'Est per evitare di discutere della crisi all'Ovest. Io ritengo invece che ci dobbiamo sentire investiti pienamente da questa crisi e non solo perché la fine dell'URSS e degli altri paesi socialisti dell'Est europeo ci interessa direttamente, quanto perché l'indifferenza sostanziale e/ola presa di distanza ha messo in evidenza un elemento nascosto del "comunismo" occidentale che ora bisogna però cominciare a discutere apertamente.

Finora la discussione ha riguardato solo gli aspetti più degenerativi, in particolare l'evoluzione di certi partiti comunisti europei.

Sul PCI, sul PCE e su altri partiti comunisti che hanno apertamente abbandonato le antiche posizioni marxiste si è discusso e polemizzato molto. Ma non si è andati a fondo sul complesso della situazione del movimento comunista, sul carattere attuale della strategia dei vari partiti e sul ruolo vero che giocano nei vari paesi.

Certamente, il fatto che, nonostante la crisi e le trasformazioni apertamente revisioniste e socialdemocratiche di alcuni, si sia mantenuta una identità e una distinzione, è indubbiamente positivo. Ma che c'entra tutto questo con il carattere rivoluzionario del comunismo e qual'è il ruolo effettivo che giocano questi partiti?

Nell' affrontare questa tematica, non interessa aprire una polemica che riporti al veccchio scontro di cui la corrente ML è stata portatrice negli anni '60 e successivamente. Questa polemica, seppure ha avuto momenti anche alti, in rapporto anche a condizioni internazionali, non ha poi sedimentato gran che.

La questione che voglio porre è altra: è necessario o no, dentro la crisi del movimento comunista, aprire la discussione sul carattere vero di questi partiti? E perché porre una tale questione in un momento di debolezza come questo?

A me sembra che l'esperienza italiana di Rifondazione Comunista che ha aperto negli animi di molti comunisti sinceri la speranza di un recupero rivoluzionario di un settore importante di compagni, stia lì ad indicare come vanno le cose quando si rimane alla superficie e che alla fine la mancanza di riflessione costringa un po' tutti ad accettare il meno peggio, senza poi andare a vedere dove esso porta in mancanza di una posizione strategica più approfondita.

In fondo, si è determinata nei compagni, e non solo in Italia, una situazione paradossale. In luogo di produrre una riflessione seria e un senso di cautela, la crisi del comunismo all'Est, ha prodotto una sorta di "liberazione", scatenando una riattivizzazione politica che sembra contraddire la crisi stessa.

Personalmente ritengo che non si tratti tanto di ripresa, quanto della liquidazione finale di ciò che rimane delle posizioni comuniste, per troppo tempo costrette, da una situazione intemazionale e da una condizione storica precisa, ad una stagnazione.

Anche qui ovviamente opera una mistificazione, perché tutto ciò avviene con una accentuazione di strategie "antagoniste" e "alternative" e un rafforzamento radicaleggiante di posizioni politiche ma, se esse vengono analizzate a fondo, si scopre che mancano di una prospettiva veramente rivoluzionaria e di una analisi strutturale delle condizioni che possono portare ad un reale cambiamento che non sia di facciata.

Si può anche dire che il comunismo è morto, ma allora bisogna avere il coraggio di affermarlo e di ridefinire una teoria generale dell'evoluzione dell'umanità, della natura delle contraddizioni esistenti e del loro sbocco.

I comunisti, nella teoria, come nella pratica, da Marx alla Terza Intemazionale, sono stati in grado di misurarsi, in termini generali con i problemi epocali. Sostituire a questo la realpolitik e il pragmatismo è ben poca cosa e sa di vecchio.

In sostanza ci troviamo di fronte ad un nuovo "revisionismo" che è diverso da quello della seconda intemazionale o da quello filo-occidentale degli anni cinquanta. Il nuovo "revisionismo" non abbandona la critica alla società capitalistica, anzi generalmente sottolinea con forza le contraddizioni del presente (dagli effetti dell'economia liberista a quelli del governo unipolare). Quello che manca è però una teoria dei processi rivoluzionari e del loro punto di approdo, cioè proprio quelli che sono i caposaldi del pensiero comunista, il quale non si distingue tanto sulle denunce degli effetti della società capitalistica, quanto per come interpreta la realtà e si propone di trasformarla con l'azione soggettiva e rivoluzionaria.

Nel pensiero e nell'azione dei nuovi antagonisti e alternativi che pure parlano di comunismo e di ideali comunisti (anche se aggiungono gli aggettivi "liberamente" e "modernamente") si scopre subito il trucco, perché il programma finisce sempre per essere un programma di riforme che ha come base l'uso del sistema istituzionale e parlamentare.

Non è mia intenzione in questa premessa affrontare in modo specifico questo argomento. Qui è solo accennato per mettere in chiaro le ragioni di tanta confusione e il significato vero di una ripresa di vitalità "comunista" che non è supportata da analisi serie e prospettive rivoluzionarie.

Dopo il crollo di Gorbaciov, che pure aveva aperto tante speranze per questo tipo di comunisti, si cerca di ripartire in modo del tutto nuovo evitando di affrontare gli argomenti veri.

A questo punto della mia premessa, ci si aspettereb­be la riproposizione, contro i neocomunisti, di una ortodossia marxista-leninista (quella appunto con il trattino) che è d'obbligo quando si attacca il revisionismo vecchio e nuovo.

Darò quindi una delusione a qualcuno se l'approccio sarà diverso. Un approccio anche pericoloso, perché può dare strumenti in mano ad un tipo di tendenze intellettualistiche che di fronte alle difficoltà usano "il latinorum" e si allontanano per la tangente pensando che esista una sorta di immunità politica per gli intellettuali.

La questione che pongo io è, invece, una questione di analisi concreta di una situazione concreta, dalla quale bisognerebbe (uso il condizionale apposta) partire per riconquistare una visione globale dei processi storici e di ciò che da essi scaturisce. Andiamo quindi al punto centrale di questa premessa. Che non è appunto quello di affrontare una polemica dentro il movimento comunista tra comunisti e revisionisti, quanto di porre interrogativi (il livello è ancora questo ! ) su ciò che è avvenuto in questi anni, col crollo dell'URSS. Da questo non si può prescindere.

So già che i trotskisti, e i talmudisti di vario genere, compresi i "comunisti democratici" sostengono che l'interpretazione storica è già stata fatta. Costoro sostengono che la rivoluzione russa è stata tradita dai burocrati e/o dalla mancanza di democrazia. Ma tutto ciò è falso, non ha base scientifica nè, come i fatti dimostrano, permette di fare passi in avanti seri, sul piano della ricerca e dell'iniziativa rivoluzionaria. A meno che non si scambi questa per il radicalismo delle posizioni che, notoriamente ha poco a che fare col comunismo.

Gli interrogativi di fondo a cui io mi riferisco non hanno solo valore interpretativo, ma servono a rimettere in discussione anche i modi e le forme dell'azione politica, la natura stessa della crisi del movimento comunista, i dati strutturali che l'hanno determinata. Sembrerà strano, ma per arrivare al nocciolo della questione, pur non avendone l'intenzione primaria, dobbiamo sgombrare il campo dai falsi comunismi oggi esistenti. E non tanto, come si è detto, per riproporre noi il tipo di comunismo da imporre, ma per riaprire una vera discussione su di esso, sulla sua attuabilità nella fase storica attuale, sulle condizioni che la possano determinare.

Possibile che nessuno si è accorto, con la scomparsa dell' URSS e del campo socialista, che 1'interrogativo è proprio questo? Possibile che col fiorire o rifiorire di tanti programmi politici e di rifondazioni non si è scoperto questa sorta di uovo di Colombo?

Una spiegazione a questa "dimenticanza" c'è. Ai sacerdoti in fondo non interessa tanto se Dio esiste, quanto di mantenere il ruolo sociale che la credenza in Dio permette. Se applichiamo questo concetto al ceto politico, potremmo avere una risposta al perché siamo ancora al punto di partenza.

Eppure non mancano le riviste, gli intellettuali, l'area di sinistra che permetterebbe uno sviluppo serio della ricerca. Ma questo comporterebbe la rottura di equilibri consolidati, di centri di potere e di ruoli che guarda caso corrispondono specularmente a ciò che viene messo alla base della crisi del socialismo reale e dei sistemi socialisti. La differenza sta solo nel fatto che per reggere una situazione rivoluzionaria le chiacchiere non bastano, mentre per fare l'opposizione di Sua maestà e andare in parlamento sì.

Dunque ritorniamo alla sostanza della questione. Quali problemi pone la crisi del comunismo in termini di interpretazione storica e quale avvio di ricerca è necessario per dare risposte serie?

L'interrogativo riguarda la potenzialità strategica dell'ottobre russo. Il crollo del socialismo all'Est ha sviluppato una sorta di complesso di superiorità di certi "comunisti" occidentali i quali, in luogo di valutare questo elemento oggettivo, mettono in evidenza la miseria delle loro elaborazioni e del loro bilancio storico.

La questione è invece altra. Si tratta di andare ad analizzare (questo dovremo fare nel prossimo futuro) la Rivoluzione d'Ottobre in un quadro storico più complesso da cui possano risaltare meglio le possibilità e i limiti che l'hanno caratterizzata.

Per condurre questa indagine abbiamo però bisogno di superare sia il carattere fideistico del nostro rapporto con la rivoluzione russa, sia gli intenti liquidatori (meglio dire le tentazioni) che potrebbero nascere da un atteggiamento apparentemente scientifico, ma nei fatti poco dialettico con il corso storico.

Concretamente, e per porre la questione in modo diretto, dobbiamo domandarci se il crollo dell'URSS è stato l'epilogo di un'esperienza molto più grande, ma dello stesso tipo di quella della Comune di Parigi, oppure se alla base della sconfitta prevalgono gli elementi di carattere soggettivo.

Personalmente mi limito a porre solamente una questione di questo tipo, senza avere la pretesa di dare una risposta netta. Anche se, ad una prima e sommaria analisi degli avvenimenti, ritengo che vada cambiata la nostra valutazione sulla "irreversibilità" del processo di costruzione del socialismo nel mondo in questa fase storica. Il che non vuol dire la fine della lotta di classe o dei processi rivoluzionari, bensì riaprire la discussione su quella che Marx definisce crisi di un sistema sociale.

I comunisti, oggi, non possono spaventarsi nel prendere in considerazione una discussione di questo tipo, proprio perché la loro posizione rivoluzionaria nasce dalla consapevolezza del carattere irriducibile e storicamente necessario del processo rivoluzionario e non da forme di ideologismo politico che in definitiva sono sempre l'anticamera dell'opportunismo.

In sostanza, bisogna saper operare una distinzione tra "il comunismo come movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" e l'immagine di un "movimento" che invece riproduce tutt'al più la dialettica politica dentro lo stato di cose presenti.

Se prendiamo in esame la crisi del movimento comunista e dei movimenti rivoluzionari in questi anni, possiamo dedurre abbastanza chiaramente che essa è dovuta non solo alla crisi dell'Est, ai processi controrivoluzionari che sono in atto nei paesi ex socialisti, ma anche e soprattutto alla mancanza di credibilità di un progetto di trasformazione rivoluzionaria che ponga oggettivamente all'ordine del giorno il socialismo come programma reale.

A circa un secolo e mezzo dal Manifesto dei Comunisti e dopo più di un secolo di lotte rivoluzionarie per il socialismo, una affermazione del genere può sembrare una bestemmia. Ma se noi operiamo una distinzione tra tendenza storica e maturità storica (e dopo il 1989 questa distinzione dobbiamo farla), vedremo che non si tratta tanto di una bestemmia quanto di riportare la ricerca su un terreno più corretto di interpretazione storica. Partire quindi da una reinterpretazione storica dei decenni passati e reimpostare una analisi che faccia capire dove e come si riapre una crisi del sistema capitalistico mondiale che possa dislocare in avanti la tendenza al socialismo, fino a farla diventare un punto irreversibile dei processi di liberazione dell'umanità. Questo mi sembra il punto centrale della ricerca.

Questo ci condurrà a capire meglio, e in un senso non moralistico o idealistico, la forza e la debolezza attuale del sistema capitalistico e d'altra parte ci libererà da quell'involucro di mistificazioni che oggi ci avvolge dentro la sinistra e in quel che rimane del movimento comunista, per ridarci la capacità di essere rivoluzionari in senso effettivamente comunista.

Impegnati nelle lotte quotidiane e nella difesa dell'esperienza storica del movimento comunista, siamo arrivati all'appuntamento con lacrisi dell'89 senza una chiave di lettura adeguata.

Illusorio è pensare di uscire da questa situazione senza fare i conti con lo spessore delle questioni interpretative che si sono accumulate o pensare che le trovate sul "mercato socialista" o le formulazioni neokeynesiane contro il neoliberismo possano trarci fuori dalle difficoltà. Anzi, queste formulazioni di fatto tendono a dare maggiore forza egemonica al sistema capitalistico, a cui non si riesce a contrapporre una idea credibile di superamento.

C'è infatti una deriva che ha investito le forze che tradizionalmente si sono collocate all'interno del movimento comunista e rivoluzionario. Questa deriva si chiama sperimentazione del mercato socialista da una parte e elaborazione di programmi neokeynesiani dall'altra.

E' una deriva che si sviluppa in parallelo con un ritorno al mercato e all'impresa capitalistica, come nel caso clamoroso della Cina (ma non è il solo esempio), e con una evoluzione delle forze politiche anticapitalistiche verso una nuova sintesi riformista all'interno di progetti unitari di tutta la sinistra. In questo secondo caso è l'Europa il traino e la sperimentazione di questi nuovi percorsi.

Apparentemente una tale evoluzione si presenta come necessità storica di fronte alla crisi e al riflusso delle forze rivoluzionarie, una sorta di punto minimo di resistenza. In realtà tutto ciò nasconde una trasformazione, uno spostamento di asse che contribuisce a consolidare l'egemonia dell'ordine sociale esistente.

A questa evoluzione (o meglio involuzione) non si può certamente contrapporre il radicalismo delle parole, che in alcuni casi risulterebbe anche macabro perché è fatto sulla pelle di vittime reali e in carne ed ossa. A ciò non si può però neppure contrapporre la filosofia del "meno peggio", perché questa non solo nasconde correnti opportunistiche reali, ma priva i comunisti di una forza di attrazione e di riferimento valida.

Dall'orizzonte di queste forze scompare una chiara analisi dell'imperialismo e della sua natura, che diventa una sorta di "impero del male"; l'internazionalismo lascia il posto al solidarismo e tutta l'azione politica della sinistra è rivolta a stabilire correttivi alle relazioni internazionali e ai modelli attuali di sviluppo economico.

I comunisti si sono ormai adeguati a questa logica e hanno perso ogni riferimento scientifico al proprio progetto rivoluzionario.

II senso di isolamento che viviamo in questa fase è dovuto più che alle sconfitte subite al senso di impotenza che registriamo. Inutile però cercare scorciatoie alla situazione che abbiamo di fronte. Certi tentativi di improvvisare una linea di resistenza senza respiro strategico, quando non sono mistificazioni, restano pura velleità.

Altra cosa è resistere guardando al futuro e quindi stabilire una connessione tra tattica e strategia che mantenga vivo il senso rivoluzionario di un progetto comunista. Questo nodo non può essere sciolto mantenendo in piedi la semplice contrapposizione tra riformismo e ortodossia. I fatti ci hanno messo di fronte ad avvenimenti che hanno chiuso un ciclo della fase rivoluzionaria aperta nel 1917 e le valutazioni di questa sconfitta non hanno carattere contingente.

Le ingiustizie, i crimini e le contraddizioni del sistema capitalistico rimangono inalterati. Adesso bisogna trovare la chiave rivoluzionaria reinterpretando le contraddizioni della nostra epoca e rimettendo a punto una teoria della rivoluzione sociale legata al carattere di queste contraddizioni.

In questo senso il recupero dell'ortodossia e della grandiosità che implica dell'esperienza comunista diventa fondamentale e se ne recupera la vitalità. Difatti, il discorso che sto cercando di sviluppare in questa mia premessa non mira a negare l'esperienza storica alla quale abbiamo finora fatto riferimento, e che abbiamo contrapposto giustamente ai revisionisti e alle forze "modernamente e liberamente comuniste", ma vuole collocare questa esperienza, e le analisi politico teoriche che ne erano alla base, nel contesto storico in cui si sono sviluppate e quindi registrarne anche i limiti di interpretazione della realtà a cui facevano riferimento.

In sostanza non si tratta di mettere in discussione (e io peraltro sono per la loro assoluta valorizzazione) la grandiosità dell'opera rivoluzionaria di Lenin, di Stalin, di altri grandi leaders e organizzazioni che hanno dato vita in questo secolo alle esperienze comuniste, quanto di storicizzare queste esperienze e di riutilizzarle in un contesto interpretativo della situazione concreta che abbiamo di fronte, senza avere la pretesa di una continuità ideologica applicativa che possa fare astrazione dall'analisi del capitalismo odierno e delle possibilità di superare effettivamente il sistema sociale che esso rappresenta.

Nel dire questo non ho timore che si possano aiutare quelle tendenze di destra che hanno utilizzato la forza del capitalismo per negare le possibilità rivoluzionarie.

Ritengo che i comunisti, per il carattere scientifico della loro formazione e per l'ottimismo rivoluzionario che li anima, sono sempre capaci di trovare il bandolo della matassa, coscienti che la loro forza nasce non dalle istituzioni o dal carattere roboante e vuoto delle proclamazioni rivoluzionarie, ma dalle tendenze storiche che sono insite nel sistema sociale esistente e di cui essi debbono farsi interpreti.